IL FARO DEI SOGNI

Caucaso – Le imprese di Ajsana

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view post Posted on 24/4/2024, 08:26     Top   Dislike
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… Ajsana entrò nella casa degli Æhsærtæggatæ.
Vicino al muro di fondo era seduta la moglie la Soslan. Ella non guardò neppure dalla parte del figlio di Uryzmæg, ella non si mosse dal suo posto e non lo salutò.
Ajsana disse: «Come sei diventate pesante, buona donna! Dopo tutto, non sono uno Picasso-donna-rosastraniero per te, eppure non puoi neanche alzarti dal tuo posto e scambiare qualche saluto con me!».
La moglie di Soslan gli rispose: «Perché dovrei alzarmi davanti a te, mio sole? Che io sappia, tu non hai cacciato le armate Agur fuori della terra narta».

Nel sentire queste parole beffarde, Ajsana si stizzì. Saltò sul cavallo e in un batter d’occhio piombò sulle armate degli Agurtæ. Li sterminò e fece colare sangue che un torrente impetuoso precipitò sugli Agurtæ che erano rimasti e li portò lontano dalla terra natia. Ajsana distrusse l’armata degli Agurtæ, salvò il villaggio dei Narti e, quando ritornò alla casa della famiglia, i Narti lo circondarono gioiosi così da vicino che non poteva poggiare i piedi per terra. Ma la moglie di Soslan non lo guardò e non si alzò.

«Sei davvero pesante, buona donna! – disse Ajsana. – Avresti almeno potuto alzarti per accogliermi».
La donna rispose: «Perché dovrei alzarmi davanti a te? Tu non hai portato, che io sappia, davanti al mio portone e non hai interrato lì l’albero che fiorisce fra il tramonto del sole e la mezzanotte, i cui frutti maturano fra mezzanotte e il levar del giorno, e che è custodito da due montagne che cozzano come due arieti, e poi si separano».

Queste parole offesero Ajsana. Fece fare dietrofront al cavallo e si lanciò alla conquista dell’albero.
Non era ancora lontano, quando il cavallo gli domandò: «Dove vai, dimmi, razza nemica di Dio?».
Ajsana rispose: «Devo procurarmi l’albero custodito dalle due montagne che cozzano come arieti. Dal tramonto del sole a mezzanotte, questo albero fiorisce e, da mezzanotte al mattino, i suoi frutti maturano».

Il cavallo gli rispose: «Non pensare a quell’albero. Molti giovani eroi pari a te sono partiti per conquistarlo. Non uno ha riportato la testa».
«Non posso rinunciare», disse Ajsana.
Allora il cavallo disse: «Se è così, stringi bene i miei finimenti e annoda forte la mia coda ma lascia tre crini fuori dal nodo. Quando arriveremo nei pressi delle montagne che cavaliere-Caucasocozzano come arieti, tu mi frusterai con forza sufficiente perché un lembo di pelle della grandezza della pianta di un piede si strappi dalla mia coscia e perché un lembo di pelle della grandezza della linguetta con cui termina una frusta si stacchi dal tuo palmo. Allora noi salteremo!».

Arrivarono davanti alle due montagne che si toccano come arieti. Ajsana strinse i finimenti, annodò forte la coda del cavallo senza dimenticare di lasciare tre crini fuori del nodo. Frustò il cavallo: un lembo di pelle lungo come la linguetta d’una frusta si strappò dal suo palmo e, dalla coscia del cavallo, un pezzo di pelle grande quanto la pianta d’un piede.
Il cavallo saltò, passò attraverso le montagne e Ajsana prese l’albero meraviglioso con le radici e fece dietrofront. Le due montagne si batterono con frastuono, ma il cavallo passò d’un balzo, e così riuscirono a strappargli solo i tre crini della coda che non erano tenuti dal nodo.
Il cavallo disse ad Ajsana sospirando: «Se mia madre mi avesse nutrito col suo latte tre giorni in più, non avrei perso nemmeno quei tre crini».

Ajsana tornò al villaggio narto. Piantò l’albero davanti al portale degli Æhsærtæggatæ. I Narti lo attorniarono in gran calca gridando di ammirazione. E tuttavia l’orgogliosa moglie di Soslan non si alzò e non girò la testa.
«Perché non mi saluti? Cos’hai bisogno ancora?», chiese Ajsana.
La donna rispose: «Perché dovrei alzarmi davanti a te? Tu non sei stato capace, che io sappia, di portarmi, prendendola in moglie, la bionda beltà del paese delle grasse terre nere, Saumæron Bûrdzæbæx».

Saumæron Bûrdzæbæx viveva in una torre così alta che l’occhio non poteva scorgerne la sommità. Aveva deciso di sposare solo colui la cui voce giungesse dalla base della torre fino a lei.
Ajsana gridò con tutte le sue forze, ritto ai piedi della torre, ma il suo grido non raggiunse neppure la metà dell’altezza e Ajsana si pietrificò dai piedi alle ginocchia. Gridò una seconda volta, spiegando tutte le sue forze, ma la giovane non sentì il suo grido, ed egli si pietrificò fino alla cintura. Le lacrime caddero dai suoi occhi.



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view post Posted on 26/4/2024, 08:55     Top   Dislike
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Allora il suo cavallo gli disse: «Perché ti perdi d’animo, mio cavaliere?».
«Ho spiegato tutte le mie forze – rispose Ajsana – e non sono riuscito. Forse tu potrai aiutarmi?».
Il cavallo allora nitrì, e nitrì così forte che una parte del tetto cadde giù dalla torre. Il nitrito giunse fino all’orecchio di Saumæron Bûrdzæbæx, e così ella apprese che Ajsana era giunto.
Si affrettò a scendere. Dal momento in cui la vide, la metà del corpo di Ajsana che era pietrificata si rianimò.
«Sei venuto a cercarmi?», ella chiese.
«Sì, sono venuto a cercarti. Esci, presto, e partiamo!».

Saumæron Bûrdzæbæx uscì dalla torre e Ajsana la prese in groppa.
Al momento di partire, Ajsana chiese: «Che cosa sono tutte queste pietre bianche intorno alla torre?».
«Non sono pietre – rispose lei. – Sono coloro che hanno voluto sposarmi. Ma il loro appello non è salito fino a me e sono rimasti pietrificati».
«Bisogna dunque che tu sciolga l’incantesimo», disse Ajsana.
«Non chiedere la vita per loro – ribatté lei. – Te, è solo il tuo cavallo che ti ha salvato, mentre fra loro ci sono eroi più grandi di te. Se rivivono, non ti permetteranno di Moreau-fatasposarmi».
«Avvenga quel che può, resuscitali!».

Saumæron Bûrdzæbæx fece un gesto verso destra col suo velo di seta. Le pietre si mossero, si animarono, si trasformarono in uomini armati che tutti insieme si gettarono su Ajsana.
Ma appena uno di loro fece per vibrargli un colpo di spada, Saumæron Bûrdzæbæx fece un gesto verso sinistra col suo velo e di nuovo quelli si trasformarono in pietre.

E così Ajsana portò Saumæron Bûrdzæbæx al villaggio narto. I Narti si rallegrarono di vederlo tornare ancora vittorioso e, questa volta, con una giovane fidanzata. Da ogni parte gli portavano doni e leccornie.
Proprio allora Soslan rientrò nella sua casa di famiglia. La madre si rallegrò del ritorno di suo figlio e fece fermentare il rong. Uryzmæg e Hæmyts rientrarono anche loro dalle spedizioni. Nell’apprendere come Ajsana aveva folgorato l’armata degli Agurtæ, non smisero di far piovere elogi sul giovane Narto.

Uryzmæg disse: «Cadano su di me tutte le disgrazie, tutte le malattie destinate al mio piccolo Ajsana che ha tratto il nostro villaggio da sotto gli zoccoli dei cavalli nemici! Lunga vita alla mia compagna Satana, che ha nutrito col suo latte il nostro valente rampollo per la salvezza dei Narti!».
Così parlò Uryzmæg. Allora, a malincuore, la moglie di Soslan si alzò davanti ad Ajsana.

Ajsana le disse: «Se ti alzi controvoglia, buona donna, faresti meglio a rimanere seduta come sei rimasta seduta le altre volte».
«Perché dovrei darmi pena di alzarmi davanti a te? – rispose lei. – Tu non mi hai portato, che io sappia, la pelliccia che sta davanti a Dio, il cui collo canta, le cui maniche battono le mani e le cui falde danzano».
Ajsana rispose: «Se questa pelliccia fosse stata cucita da te, l’avrei portata, dovunque fosse. Ma non l’hai cucita tu: la mia parte non è portarla».
La moglie di Soslan tacque. D’altra parte, che avrebbe potuto dire?

(fonte: Dumézil, Storie degli Sciti)

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view post Posted on 29/4/2024, 10:04     Top   Dislike
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Le due montagne «che cozzano come arieti … e poi si separano» sono la variante ossete delle Simplegadi che minacciano di schiacciare la nave degli Argonauti, e Ajsana (fa’ attenzione all’assonanza dei nomi) è la controfigura caucasica di Giasone e, perciò, è probabilmente anche lui un Dottore o, come si suol dire, un medicin-man – uno stregone «lacaniano» ante litteram. Un remoto progenitore di quei pochi, rari, naviganti che non si persero nell’ardua impresa, di quegli avventurosi che però – come Ajsana – seppero astenersi dal «folle volo» vincendo la tentazione d’andare, come Nietzsche, a strappare la pelliccia in cui è avvolto il mistero di Dio.

C’è solo un momento buono, un attimo solo – solo un attimo fuggente, per passare di là senza farsi schiacciare dalle due Montagne.
È così per la nave Argo, e così è pure per il Cavallo di Ajsana: bisogna che essi colgano a volo il momento buono, il kairós, l’appuntamento col destino del Viandante che portano a bordo o in groppa.
In ambedue le storie, inoltre, il passaggio della Soglia Terribile comporta una doppia mutilazione: in quella greca, a rimetterci la coda sono insieme la colomba e la poppa della Nave; nella nostra storia invece, il Cavallo ci perde tre peli della coda e Ajsana un lembo di pelle della mano.

Come a dire: non è solo il «veicolo» a rimanerne danneggiato, ma anche il «veicolato» = non solo la Guida, ma anche il suo Guidato.
Nessuno passa … senza guastarsi. Maestro e allievo, dottore e paziente, sano e malato che Kush-uomo-librosia – nessuno passa di là da solo, ma ha bisogno di esservi … trainato. Chi ve lo trascina, in fondo, questo solo può insegnargli: che sulla Soglia solo le «macchine guaste», solo le «navi deragliate», solo i «cavalli a tre zampe» (qual è quello di Ajsana, anche se qui il Racconto non lo dice), solo i «corpi mutilati», solo le «parole troncate» (magari sul più bello) hanno una ragione per passare: hanno il desiderio d’andare a prendersi l’«altra metà» del loro essere. Quella «metà» di cui qui, da questa parte della Porta Terribile, non giunge che, distorta e pallida, un’eco remota.

Non affidarti (consiglia tra le righe il Racconto) – non fare la fesseria di affidarti a un Maestro che non sia zoppo!
Vuol dire che per quella Porta lui non c’è mai passato.
Affidati, casomai, alle pietre accatastate ai piedi della Torre (di babele). Sì, tanto vale affidarsi alle ossa parlanti di quanti tentarono e fallirono – anziché alla tronfia spocchia di chi non s’è mai «distrutto» nella vita.
Può darsi, dice il Racconto, che per esempio un Dante redivivo o un qualsiasi Orfeo ti metta, anche solo pizzicando una corda della loro poesia, di fronte alla tua nullità. Ma fa’ come Ajsana: succeda quel che deve succedere, ma di’: io voglio sentire il Racconto dalla loro viva voce. Giusto un attimo, solo un attimo fuggente e capirò a quale filo arrampicarmi!

Dice che Giasone è diretto alla conquista del Vello d’oro, qualcosa come il Grande Segreto o la Ricetta dell’Immortalità. Dice che lo conquista solo grazie a Medea. E che Teseo entrò e uscì dal labirinto solo grazie ad Arianna. E che Dante ascese all’Empireo della sua mente solo grazie a Beatrice.
Il Racconto dice che è sempre la Donna la Guida che guida il Viandante fino all’altro mondo. Il Racconto dice che al di qua delle Simplegadi a guidarci è un Maestro del Libro, e che questo Maestro (questo signor Giaguaro) fino alla Soglia ci può condurre, ma non oltre – perché oltre è il Reame della Strega, di Madamigella Libidine, sissignori! – della (vecchia) Rana.

Non poteva perciò mancare la Donna nel nostro Racconto. Apparentemente spostata più in là, in una prova successiva a quella dell’attraversamento della Soglia – la Donna è anche qui, anzi forse qui più marcatamente che altrove, chiamata a fare la parte della Picasso-donna-libroMaestra Ulteriore: di Colei che, come Beatrice, conosce quelle vie dell’Oltre che sono impraticabili al magistero finanche di un Virgilio, di un autentico «mago» della Parola.

Si chiama Saumæron Bûrdzæbæx, ovvero «bellezza del Reame delle grasse terre nere» – si chiama cioè Forma epifanica delle terre oscure, incognite, dell’aldilà.
È «prigioniera» in una Torre (di chiacchiere che la diffamano), sepolta sotto un mucchio di menzogne (pietrificate nel Racconto a furia di sputtanare la sua «angelicità»), reclusa dietro gli ornamenti che le impone la Cultura – è divenuta ormai pressoché irraggiungibile.
Non la si può raggiungere (Dante ne è una prova) se non con un grido animale: se non tornando a parlare un linguaggio «primitivo», se non nitrendo i propri aneliti e desideri.

Oltre la soglia, il Dottore ce lo conferma, c’è il Drago Terrificante, c’è il Reale «animale», ignaro analfabeta d’ogni linguaggio immaginario e simbolico: c’è lo Spaventoso Reale «nudo e crudo», e tuttavia è da questa sua «crudeltà», e solo da essa, che può tornare a ripetersi il miraggio della Donna e di almeno una delle sue infinite trasformazioni, angeliche e non, sotto lo sguardo incantato del bambino che è in Ajsana, Dante o Giasone.
Del bambino che torna a balbettare la libidine delle «grasse terre nere». E, di nuovo, solo quella. Finalmente, quella.

Ma cosa bisogna fare per raggiungerla?
Il Racconto non ammette alternative: è inutile ogni parata sessuale, non c’è trucco che funzioni nel Reale Ultimo che non sia il suo stesso Trucco. Nessuna seduzione in cui non sia esso, il Reale Ultimo, il reale seduttore.
Siamo proprio in fondo alla strada. Non c’è via di uscita, non c’è scampo nelle parole! Non contano le parole, e non conta nemmeno la musica – non serve a niente farle la serenata!

Basta la voce. Purché la voce – vuota di parole, sgravata di senso, libera d’ogni sapere, avere e volere – si elevi fino a Lei.
Può bastare a volte solo sussurrare il suo nome, ed ecco … il Drago è vinto, e dalle sembianze d’una vecchia Rana (vecchia quanto è vecchio il Reale) ecco apparire la beltà ulteriore.
La beltà promessa ai poeti impazziti d’amore, e ai Dottori che andarono per guarire e finirono per ammalarsi … di nostalgia. Perciò, i più saggi fra loro si astennero dall’allungare le mani sulla pelliccia di Dio.



fonte https://lartedeipazzi.blog/2018/11/25/cauc...rese-di-ajsana/

 
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