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| Pur di non parlare di inceneritori, le regioni propongono soluzioni sperimentali al problema dei rifiuti. A gestire i flussi in eccesso dovrebbe essere un soggetto nazionale permanente, capace di programmazione e pronto a valutare sistemi alternativi.
Le soluzioni sperimentali
Il dibattito sul termovalorizzatore di Roma occupa le prime pagine dei giornali e fa cadere i governi. Con meno clamore mediatico, ma con simili questioni e simili implicazioni, diverse regioni hanno varato o si accingono a varare i propri piani di gestione dei rifiuti. Un comune denominatore quasi ovunque – fa eccezione l’Emilia-Romagna – è il tentativo di minimizzare l’esigenza di gestire flussi consistenti di rifiuti non riciclabili, almeno allo stato attuale delle cose, favoleggiando soluzioni alternative che non prevedano l’odiato incenerimento.
Prendiamo il piano della Toscana: tra una previsione (del tutto azzardata) di una riduzione dei flussi a monte e ipotesi iper-ottimistiche di sviluppo della raccolta differenziata, punta tutte le sue carte sul conferimento del residuo secco a un ancora ipotetico processo industriale di trasformazione in idrocarburi e altri prodotti chimici di sintesi.
Gli avversari del “waste-to-energy”, al secolo incenerimento con recupero di energia o termovalorizzazione che dir si voglia, sostengono la possibilità di ricorrere a soluzioni alternative “senza fiamma”, che con vari sistemi possono ricavare dalla matrice non riciclabile vuoi idrocarburi di sintesi da avviare ai cicli di raffinazione, vuoi prodotti chimici sempre di matrice organica da destinare all’industria.
Ne sono così convinti da chiedere a gran voce che l’incenerimento tradizionale sia bandito dai piani regionali, in quanto tecnologia superata, prevedendo invece un immediato impiego massiccio di questo approccio innovativo, detto “waste-to-chemicals”.
Ciò di cui si parla è certamente un campo molto promettente sotto il profilo degli sviluppi tecnologici, tanto che operatori industriali di prima grandezza – in Italia, ad esempio, l’Eni – hanno investito con convinzione nel loro sviluppo. Possiamo certamente attenderci molte belle sorprese nel prossimo futuro.
Ciononostante, si tratta di soluzioni note solo a livello sperimentale e di prototipo, con pochissime applicazioni alla scala industriale. Ne sono ancora pressoché sconosciuti i costi, ma anche i possibili problemi operativi. Molti studi ne attestano le potenzialità, ma non pare esservi ancora sufficiente evidenza che, sul piano delle emissioni complessive lungo il ciclo di vita, queste soluzioni siano da preferire alla collaudatissima termovalorizzazione.
Qualche anno fa – nessuno ormai se lo ricorda e quelli che se lo ricordano fanno finta di non ricordarsene – i “no-inc” di ogni ordine e grado, con capintesta il blog di un comico ispiratore di un noto movimento politico, esaltavano il “metodo Vedelago” come la soluzione finale al problema dei rifiuti. Si trattava di un impianto che dal residuo secco non riciclabile otteneva – asseriva di ottenere – un materiale inerte da destinarsi all’industria delle costruzioni. Si capì poi che si trattava di un bluff: la “sabbia sintetica” veniva ottenuta mescolando il residuo secco, di per sé robaccia inutile, con quantità molto maggiori di residui plastici “puliti” provenienti dall’industria. Il “mescolone” così ottenuto non risentiva più di tanto della cattiva qualità del residuo di provenienza urbana, grazie alla migliore qualità di quello industriale. Quello che era relativamente facile da ottenere con i – pochi – residui non riciclabili di un gruppo di piccoli comuni del Veneto non poteva però essere realizzato altrettanto facilmente a scale maggiori. E fu così che il “Centro Recupero Vedelago” terminò il suo quarto d’ora di celebrità, senza peraltro che alcuno di quanti l’avevano portato in trionfo si peritasse di riconoscere pubblicamente l’abbaglio. Vent’anni prima, era stata la volta degli impianti “Tmb”, acronimo per “trattamento meccanico-biologico”, di cui si è riempita l’Italia negli anni Novanta. Anche allora le regioni, presso le quali la parola “incenerimento” era già impronunciabile, si fecero sedurre dalla possibilità di ottenere dal rifiuto indifferenziato un combustibile secco da destinare ai cementifici e un ammendante agricolo da usare al posto dei concimi chimici. Ahimè, anche in quel caso un piccolo dettaglio rovinò tutto: poiché né quel combustibile né quel compost riuscivano a trovare qualcuno disposto a pigliarseli, ridiventavano rifiuti e andavano smaltiti altrove.
Simili precedenti dovrebbero come minimo suonare di monito contro le incognite e i rischi che vi sono nell’affidare il piano rifiuti di intere regioni a tecnologie ancora poco conosciute, soprattutto se sull’altro piatto della bilancia c’è una soluzione pronta per l’uso, estremamente affidabile – come è provato da centinaia di esperienze in tutto il mondo e anche in Italia, a cominciare dall’impianto di Acerra, grazie al quale è terminata l’ingloriosa vicenda della munnezza napoletana.
segue Uno smaltitore nazionale di ultima istanza
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