| A partire da queste premesse, nella seconda parte del testo, Shaya riassume, in una serie di capitoli densissimi, tutti i grandi temi dell’insegnamento akbariano [4]. Si tratta di un compendio che a volte può apparire affrettato, ma che in realtà non ha funzione esplicativa, bensì quella di illustrare come ogni singolo elemento della dottrina sufica si regga sul tawhid, dottrina che ne costituisce il fondamento e l’asse. Veniamo dunque a quella che è la caratteristica principale del testo, la quale ne costituisce il pregio ma anche l’essenziale difficoltà, ossia il costante sforzo di concentrazione dell’autore volto a sondare tutti i riflessi della dottrina dell’unità sui molteplici aspetti e livelli della gnosi islamica; un’intensità che talvolta assume toni estatici ma che può risultare ostica e ridondante in chi cercasse nel testo, più che una testimonianza spirituale, la limpidezza dell’esposizione teoretica. Al di là del contenuto specifico, quindi, che sostanzialmente ribadisce in maniera monolitica temi già noti a chi abbia approfondito la materia tramite i classici del perennialismo già citati in precedenza, il principale valore di «La dottrina sufica dell’Unità» sta proprio, a parer nostro, in questa sua capacità, nel suo costante e instancabile scandagliare il tema oggetto dello studio, di ergersi a modello di meditazione spirituale.
Note
[1] A parer nostro, i testi imprescindibili per una comprensione dell’Islam integrale in prospettiva perennialista sono: F. Schuon, Comprendre l’Islam, Parigi, 1961, trad. it. di G. Jannaccone e M. Magnini in Comprendere l’Islam, Milano, 1976; S. H. Nasr, Ideals and Realities of Islam, London, 1966, trad. it. di D. Venturi, in Ideali e realtà dell’Islam, Milano, 1988. Per quanto riguarda propriamente il sufismo, consigliamo: F. Schuon, Le soufisme, Voile et quintessenze, Parigi, 1980, trad. it. di G. Jannaccone in Sufismo. Velo e quintessenza, Roma, 1980; T. Burckhardt, Introduction aux doctrines ésotérique de l’Islam, Parigi, 1969, ed. italiana a cura di G. Jannaccone, trad. it. di B. Turco in Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam, Roma, 1979; S. H. Nasr, Sufi essays, Londra, 1982, trad. it. di D. Venturi in Sufismo, Milano, 1975; M. Lings, What is sufism?, Londra, 1975, trad. it. di R. Rambelli in Iniziazione al sufismo. Il misticismo della vita quotidiana, Roma, 1978; M. Lings, A sufi saint of the twentieth century, Londra, 1971, trad it. di M. Grillino e E. Hess in Un santo sufi del XX secolo. Lo Sceicco Ahmad Al-‘Alawi, Roma, 1994.
[2] Al di là delle riserve degli storici sull’effettiva identità dell’autore del trattato, è innegabile che il «Risalat Al-Ahadiyah» sia perfettamente conforme alla dottrina akhbariana, così come essa emerge dai testi di attribuzione indiscussa. Da un punto di vista essenziale, inoltre, va ricordato che l’attribuzione tradizionale di un’opera a un autore ha un valore qualitativamente distinto e indubitabilmente superiore, sul piano dottrinale e spirituale, dei criteri storici e filologici. La tradizione, infatti, a differenza della filologia, identifica il maestro non semplicemente con la sua personalità storica e determinata, ma integralmente e in prospettiva verticale, anche in quei prolungamenti extra-individuali della sua opera – chiamati a compierla, adattarla e chiarificarla – che sono la sua scuola e i relativi interpreti qualificati, il cui celarsi dietro il nome del maestro esprime la perfetta conformità. Da questo punto di vista, il «Trattato dell’Unità» è indubitabilmente opera di Ibn’ Arabi, essendo stato riconosciuto tale dall’unica fonte di autorità qualificata a stabilirne l’ortodossia dottrinale, ossia la Tradizione.
[3] Vale la pena di leggere per intero la pagina in cui l’autore descrive la relazione e l’integrazione delle modalità ascendente e discendente della conoscenza integrale: “Il tawhid conduce alla conoscenza dell’ «Identità suprema» di tutte le cose, e il furqan – o «discernimento» universale – a quella della loro concatenazione causale; se il tawhid è conoscenza identificante – o amore, o timore illuminati da tale conoscenza – il furqan è il passaggio tra l’ignoranza e la conoscenza: esso trasforma la visione del molteplice in visione dell’infinità indivisibile della possibilità. Il puro tawhid non vede più alcuna traccia di molteplicità; per esso non vi è che l’Infinito, l’unico Possibile: «la nudità del tawhid […] significa perdere di vista, per amarLo, tutto ciò che non è Lui», vale a dire tutto ciò che ha l’apparenza di altro diverso da Lui; il tawhid, infatti, afferma precisamente che non vi è altro che Lui, mentre il furqan dimostra che essenzialmente non c’è altro che sia diverso da Lui. Il tawhid identifica direttamente la Realtà di ogni cosa «non esistente” all’ «Uno senza secondo»; il furqan discerne tra l’«alterità illusoria» e l’«Ipseità Reale», per ricondurre la prima alla seconda, secondo la legge della causalità: è la conoscenza degli «anelli» della concatenazione universale, che permette all’uomo di ricollegare le cose alla loro Origine suprema e di accedere, in questa modalità indiretta, alla loro identità essenziale con l’Unico Reale. Il furqan, pertanto, non si oppone realmente al tawhid, ma lo completa o, più precisamente, ne è parte integrante” (pp. 41-42).
[4] Esula dagli intenti di queste note fornire un elenco dei molteplici livelli su cui si articola il pensiero di Ibn ‘Arabi. Per una presentazione generale all’opera del maestro andaluso, rimandiamo ai principali saggi introduttivi attualmente disponibili in lingua italiana: H. Corbin, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Roma-Bari, 2005; T. Izutsu, Sufismo e taoismo, Milano-Udine, 2008; M. Chodkiewicz, Il Sigillo dei santi. Profezia e santità nella dottrina di Ibn ‘Arabî, Brescia, 2009.
fonte https://mikeplato.myblog.it/2019/02/23/la-...fica-dellunita/
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