|
“Che si può dire in generale della via mistica? La purezza ne è la condizione primaria; lo svuotamento del cuore da tutto ciò che non sia Dio Altissimo. Ne è chiave il conseguimento della purità rituale in occasione della preghiera, immergendo completamente il cuore nel ricordo di Dio. Il suo fine è l’annullamento totale in Dio. Questo è quanto rientra nelle cose fondamentali che la libera scelta umana può conseguire. Purezza del cuore, purezza rituale e annullamento in Dio sono in verità le cose fondamentali della via mistica” (p. 52).
Così Al-Ghazālī descrive il sufismo ne «Il libro che preserva dall’errore» (Munqidh min al-dalāl). Il volume che presentiamo contiene, oltre allo scritto citato, anche la traduzione italiana di «La nicchia delle luci» (Mishkāt al-anwār), il commentario del maestro al sublime “Versetto della Luce” (Cor. XXIV, 35). Se «Il libro che preserva dall’errore» è un testo che, in una cornice autobiografica, si interroga sullo statuto della profezia, della gnosi e dei rispettivi rapporti con le altre forme di conoscenza, «La nicchia delle luci», mediante l’ermeneutica mistica applicata al verbo coranico, esibisce i fondamenti di quella scienza divina di cui solo il sufismo è il pieno depositario. Si tratta, insomma, di due scritti il cui accostamento è legittimo e che si illuminano a vicenda; due autentiche gemme opera del maestro persiano che Henry Corbin definì come “una delle più forti personalità, uno degli ingegni più sistematici che abbia avuto l’Islam, come è attestato dall’epiteto onorifico, che egli condivide con alcuni altri, di Hojjat al-Islām (la prova, il garante dell’Islam)”(cfr. H. Corbin, Storia della filosofia islamica, trad. it. di V. Calasso e R. Donadoni, Milano, 2007; p. 189).
Il libro che preserva dall’errore
(Munqidh min al-dalāl)
Scritto in risposta al quesito di un interlocutore definito “fratello nella fede”, in merito “al fine e ai segreti delle scienze, le superficialità e le profondità delle dottrine” (cfr. p. 5), il libro si presenta come l’esposizione dell’itinerario spirituale che condusse Al-Ghazālī alla via mistica, dopo aver saggiato e confutato gli errori della teologia dialettica (kalām), degli innovatori (ovvero di coloro che si oppongono alla sunna, identificata con l’autentica tradizione) e dei filosofi.
Al-Ghazālī dichiara che sin dalla giovinezza l’esigenza che mosse la sua ricerca fu quella di trovare la scienza capace di cogliere “l’autentica realtà delle cose” in modo certo e indubitabile, la quale corrisponde alla “natura originale” (cfr. p. 8) della conoscenza, così come essa si presenta prima dell’adeguamento dell’individuo alle convenzioni sociali, culturali e religiose. Il maestro, infatti, definisce il proprio cammino come l’audace tentativo di sollevarsi “dall’infimo della pedissequa imitazione all’altitudine dell’indagine personale” (cfr. p. 5). Si tratta, in altre parole, del superamento di un orizzonte religioso irrigiditosi nella lettera e pertanto incapace di far fronte alla richiesta di senso di colui che ne ha smascherato il formalismo. Sostiene infatti Al-Ghazālī che “è del tutto inutile piegarsi all’insegnamento di autorità tradizionali dopo essersene liberati; e chi si trova nella condizione di piegarsi alla tradizione, non sa di farlo, poiché se lo sapesse, il fragile involucro della sua acquiescenza andrebbe in frantumi. Né la frattura potrebbe essere riparata, visto che non è possibile rimettere insieme i frammenti ricomponendoli e riorganizzandoli, a meno di non liquefarli col fuoco e conferire loro una foggia del tutto nuova” (p. 16).
Spogliatosi di qualsiasi appoggio fornito dalle autorità precostituite, Al-Ghazālī realizzò in prima battuta di avere a propria disposizione solo due basi d’appoggio: i dati provenienti dalla sensibilità e la forma della necessità logica, così come essa viene articolata dalla ragione. Tali sostegni, tuttavia, si dimostrarono ben presto inutili. La sensibilità, infatti, può ingannarsi o essere ingannata, e i suoi simulacri disperdersi di fronte al giudizio. Allo stesso modo, come il giudizio dissipa la certezza sensibile, è possibile che una facoltà superiore, di cui ancora non si dispone, vanifichi i prodotti e le certezze della ragione.
Il maestro racconta che l’angoscia prodotta dal dubbio frutto di tali considerazioni lo precipitò in uno stato di profondo turbamento, durato alcuni mesi, da cui uscì, come testimonia, non tramite il ragionamento, ma “in grazia di una luce che Dio Eccelso mi proiettò in petto” (cfr. p. 14). Si trattava della luce che costituisce l’autentica fonte della conoscenza, la quale non ha origine da ragionamenti ben articolati, ma è dono gratuito della generosità divina che il fedele ha esclusivamente la possibilità di carpire nel momento di grazia. Tale luce, pertanto, non può essere cercata, ma solo implorata ed attesa nella vigilanza del cuore.
Ripresosi dalla malattia, Al-Ghazālī si rivolse a indagare la verità presso i saggi, o sedicenti tali, del suo tempo. Escluse ben presto il sapere di cui sono detentori i teologi dialettici, in quanto esso ha come scopo esclusivo il preservare la tradizione dal veleno degli innovatori. Sebbene i teologi siano talvolta pervenuti a qualche risultato sul piano della conoscenza autentica, il maestro sostiene che “si è trattato di qualcosa che si è mescolato alla supina aderenza alla tradizione”, e pertanto “risulta poco utile per chi non ammetta assolutamente nulla, a parte le verità necessarie” (cfr. p. 18).
Per quanto riguarda la scienza filosofica, Al-Ghazālī ammonisce che tutti i filosofi, seppure in gradi diversi, si macchiano di miscredenza (kufr) ed empietà (ilhād). Il maestro li suddivide in materialisti, naturalisti e teisti. I materialisti sono evidentemente atei e negano l’esistenza di un creatore. I naturalisti, attraverso lo studio della natura, giungono a riconoscere l’esistenza di Dio, ma inseguendo la linea del loro pensiero a dispetto del dato rivelato, si spingono ad affermare empietà come ad esempio l’impossibilità della sopravvivenza alla morte – tesi, questa, che distrugge le fondamenta dell’etica e della dottrina della salvezza. Per quanto riguarda i teisti, essi sono indicati da Al-Ghazālī essenzialmente nella scuola greca rappresentata da Socrate, Platone ed Aristotele. Sebbene tali filosofi prendano le distanze da materialisti e naturalisti per una maggiore consapevolezza del divino, tuttavia essi trattengono sovente nel loro pensiero evidenti elementi tacciabili di miscredenza e di innovazione e vanno pertanto evitati.
Per quanto riguarda le scienze filosofiche, il maestro le identifica con il gruppo costituito da matematica, logica, scienza della natura, teologia, politica ed etica. Tali scienze o si occupano di oggetti la cui considerazione non si eleva al piano della conoscenza sacra, come la scienza della natura e la politica, o nella neutralità del loro oggetto, se messe al servizio della sovversione, possono essere altamente svianti e pericolose per la loro persuasività, come nel caso di logica e matematica, oppure risultano aver dato luogo a manifeste e odiose deviazioni dottrinali, come ad esempio l’indagine filosofica applicata alle cose divine. Di quest’ultima Al-Ghazālī denuncia tre gravissimi errori attribuiti in particolare all’aristotelismo, ossia la negazione della resurrezione dei corpi, il fatto che Dio conosca solo gli universali e non i particolari, e l’affermazione dell’eternità del mondo.
Per quanto riguarda l’etica, ossia “l’esame delle caratteristiche degli attributi e dei costumi dell’anima” (cfr. p. 30), il maestro liquida tale scienza affermando che quanto di buono vi è in essa è stato dedotto dalla “dottrina dei mistici sufi, uomini pii dediti con perseveranza a rammentare il nome di Dio Altissimo (dhikr), e a distogliersi dalle passioni, camminando sulla via di Dio Altissimo e prendendo le distanze dalle lusinghe del mondo terreno” (cfr. p. 30). I filosofi avrebbero assimilato le dottrine dei mistici al fine di abbellire e rendere più appetibili le loro falsità. Il sufismo è identificato in questa affermazione con la forma universale della santità e della gnosi, e non esclusivamente nella sua espressione islamica: “Certo, anche ai tempi dei filosofi come in tutti i tempi, vi sono stati cercatori di Dio che Dio non ha mai fatto mancare al mondo. Essi sono i pilastri della Terra e grazie alla benedizione che hanno ricevuto la misericordia divina si è comunicata agli altri uomini” (p. 30).
A tal proposito, Al-Ghazālī si intrattiene in alcune riflessioni molto acute sui rischi connessi alla frequentazione dei testi e delle idee dei filosofi. Innanzitutto il rigore e la precisione del linguaggio matematico e la forza persuasiva della logica spesso ingenerano nell’insipiente l’idea che chi detiene degli strumenti di analisi talmente potenti da sembrare inconfutabili non possa sbagliarsi riguardo alla verità, portando così a identificare il mezzo con il fine, ed estendendo impropriamente le qualità di un ambito specifico della filosofia al suo intero scibile. Dall’altro lato, chi vuol tenere saldo l’orizzonte tradizionale, spesso per reazione all’attacco razionalista radicalizza il letteralismo religioso negando valore a priori a qualsiasi asserzione formulata dalle scienze filosofiche. Il maestro sottolinea che è proprio del volgo l’escludere una dottrina vera e concordante con la tradizione quando la sua fonte non sia musulmana, mentre è proprio del sapiente riconoscere la verità anche qualora il recipiente che la contenga fosse impuro come “la coppetta di un salassatore” (p. 33). Vi è inoltre il rischio concreto che chi non sia sufficientemente dotato di discernimento, nonostante non screditi a priori l’insegnamento dei filosofi, trovando verità e falsità commiste nei medesimi argomenti, come nel caso della scienza etica, ritenga integralmente falsa tutta la dottrina, anche nei suoi elementi di verità.
Ammonisce Al-Ghazālī: “L’abitudine dei deboli di intelletto è di conoscere la verità attraverso gli uomini e non gli uomini attraverso verità” (p. 31). Si comprende pertanto la necessità di proteggere coloro che non sono in grado di discernere sbarrando loro l’accesso ai testi che costituiscono un rischio per la salvezza. Tale servizio è provvidenzialmente svolto da qualsiasi autorità religiosa tradizionale nel normale esercizio delle sue facoltà di tutela dei mezzi di grazia che è chiamata a diffondere e a custodire, ed è pertanto da incoraggiare e da difendere.
Il terzo tipo di scienza preso in considerazione è quella degli innovatori, rappresentati in questa occasione dai Ta’limiti, ossia da coloro che sostengono che “per conoscere il senso profondo delle cose, bisogna rivolgersi all’imām impeccabile, saldo nella verità” (cfr. pp. 35-36). Il bersaglio della polemica di Al-Ghazālī sono gli Ismailiti di Alamūt, spina del fianco dei sovrani selgiuchidi e sostenitori dell’insegnamento per autorità, il ta’līm, le cui dottrine Al-Ghazālī si propose di confutare in numerosi scritti, assieme a quelle più moderate degli Sciiti duodecimani.
Gli argomenti del maestro vertono essenzialmente sul riconoscimento della necessità di una guida che conduca alla verità, ma sostiene che tale guida non può che essere Muhammad: qualsiasi ricorso ad altra autorità, oltre che a non raccogliere nella comunità l’unanimità dei consensi in merito alla genuinità del mandato, non sottrae comunque il fedele alla necessità di ricorrere a uno sforzo interpretativo che è indissolubile dal rapporto con una tradizione e un testo sacro.
Disilluso dalle scienze del proprio tempo, ma ancora determinato a trovare la verità, il maestro si rivolse infine ai saggi sufi, la cui via è descritta come un cammino di purificazione del cuore affinché in esso non sia presente altro che Dio e il ricordo del suo nome. In principio Al-Ghazālī si dedicò allo studio delle loro dottrine, ma giunse ben presto a comprendere che la verità, nella via mistica, non è un sapere ma uno stato, e pertanto va direttamente “gustata”. I sufi, ricorda Al-Ghazālī, “sono uomini di esperienza e non di parole” (cfr. p. 48).
In vista del cammino d’ascesi, il maestro raccolse tutte le certezze di cui disponeva costituenti il lascito della sua precedente vita di studioso. Si trattava di tre nuclei irriducibili di verità “radicati nell’anima non in grazia di una dimostrazione precisa, ma per una serie di cause, di circostanze e di esperienze su cui non è il caso di diffondersi in dettagli” (cfr. p. 48). Tali certezze erano Dio, la profezia e il Giorno del Giudizio. A queste aggiunse la persuasione, frutto del suo incontro con il sufismo, che l’uomo non disponeva di nessun altro metodo di realizzazione spirituale che non fosse “il timor di Dio e la liberazione dell’anima dai vani desideri” (cfr. p. 48).
Nell’incapacità di risolversi a lasciare famiglia, ricchezze e posizione sociale, Al-Ghazālī precipitò in una profonda crisi che lo condusse in prossimità della morte. Da essa uscì solo tramite la preghiera, che alleggerì il suo fardello d’angoscia e diede forza e stabilità alla sua decisione di lasciare il mondo. Stabilitosi in Siria per due anni, si dedicò in solitudine all’agone spirituale, alla meditazione e alla mortificazione, pervenendo così “a raddrizzare i costumi e a adornare il cuore della rammentazione del nome di Dio Eccelso” (cfr. p. 51). In questo periodo il maestro assolse all’obbligo rituale del Pellegrinaggio (Hajj). Dopo due anni, ritornato in patria, continuò a svolgere vita ritirata per un circa un decennio.
Tra i frutti dell’estasi e della meditazione, Al-Ghazālī annovera la certezza che “sono i sufi a percorrere la via di Dio Altissimo, e che il loro modo di vivere è il migliore, la strada da loro percorsa la più retta, i loro costumi i più puri. (…) Ogni movimento o riposo dei mistici, esteriore o interiore, attinge luce dalla nicchia della profezia, e non vi è altra luce sulla faccia della Terra che possa illuminare tranne quella profetica” (cfr. p. 52).
La comprensione della natura della profezia è il secondo grande guadagno che il maestro annovera tra i tesori del suo ritiro. “La grazia dei santi non è altro che l’inizio della profezia” (p. 53): colui che intraprende il cammino della perfezione giunge a gustare i misteri dello stadio “nel quale l’occhio acquisisce una luce nel cui alone luminoso si manifesta il mondo dell’invisibile, cioè quelle cose che non possono essere percepite dall’intelletto” (cfr. p. 57). La profezia corrisponde quindi a una facoltà superiore a quella intellettuale; quest’ultima, infatti, si rivolge esclusivamente agli oggetti intelligibili e con essa “si coglie che le cose possono essere necessarie, possibili e impossibili” (cfr. pp. 55-56). L’intelletto si eleva al di sopra della facoltà sensibili, presenti nell’uomo sin dalla nascita, e della ragione, che si sviluppa intorno ai sette anni di età; esso, tuttavia, non giunge là dove si spinge l’occhio profetico, il quale “coglie il mondo dell’invisibile e ciò che accadrà nel futuro” (cfr. p. 56). I rapporti gerarchici che sussistono tra la facoltà profetica e quella intellettuale sono chiariti dal maestro nei seguenti termini: “In sintesi, i profeti sono i medici del cuore. L’utilità che si può trarre dall’intelletto e la sua funzione consiste nel fatto che esso ci informa di tutto ciò, testimoniando la veridicità della profezia e riconoscendo la propria incapacità a cogliere ciò che coglie l’occhio della profezia. L’intelletto ci prende per mano e ci rende sicuri della rivelazione profetica, così come i ciechi si affidano alle loro guide e i pazienti ansiosi ai medici comprensivi” (p. 62).
Nel sogno, per grazia divina, l’uomo esperisce ordinariamente alcuni caratteri del mistero profetico, così come ne fa esperienza in tutte quelle conoscenze che non sono attingibili mediante il ricorso alle semplici facoltà intellettuali, come ad esempio alcune nozioni matematiche e astronomiche che non hanno come fonte né l’esperienza sensibile, né il giudizio, né tanto meno gli oggetti intelligibili. La pienezza della facoltà profetica, tuttavia, è accostabile esclusivamente tramite l’esperienza che ne fa il santo, e rientra pertanto nel dominio dell’ineffabile. Alla domanda su come sia possibile riconoscere un profeta, Al-Ghazālī risponde che è sufficiente osservarlo: chi ha una nozione preliminare della profezia la riconoscerà operante in colui che ne è portatore, cosicché “se intendi il significato della profezia e hai dedicato molto tempo allo studio del Corano e delle tradizioni, acquisirai scienza certa che Muhammad ha raggiunto i gradi più alti della profezia” (cfr. p. 58). Non sono pertanto i miracoli a costituire la prova della genuinità del profeta, ma la piena conformità del suo insegnamento e dei suoi atti ai caratteri universali della profezia, così come essi si disvelano nell’esperienza mistica.
L’aver fatto esperienza dei mezzi di realizzazione spirituale del sufismo e della realtà della profezia condusse Al-Ghazālī a rinunciare al proprio ritiro. Egli, infatti, osservò “quanto incerta fosse la credenza degli uomini nella profezia, nonostante la sua assoluta verità, e di quanto si fossero allentate le pratiche religiose da effettuarsi secondo le prescrizioni della profezia” (cfr. p. 62). Fu la necessità di intervenire nei confronti di tale morbo spirituale a convincerlo a tornare tra gli uomini, perché “l’ignoranza di Dio è un veleno mortale, e peccare contro Dio seguendo i propri desideri è una malattia. Conoscere Dio Altissimo, al contrario, è l’antidoto che ridona la vita; obbedirGli opponendosi ai vani desideri è il medicamento che produce la guarigione” (p. 61). In altre parole, il maestro riconobbe l’urgenza storica di predicare il ritorno ai dettami della religione ortodossa, laddove il loro senso era stato misconosciuto dalla perdita di comprensione del significato autentico del fenomeno profetico.
Le cause della disaffezione nei confronti dell’osservanza sono ravvisate da Al-Ghazālī in una serie di errori imputabili essenzialmente all’egocentrismo dell’uomo che pretende di ergersi a giudice della validità dei mezzi di grazia istituiti provvidenzialmente da Dio. Ciò che viene negato è l’universalità e l’attualità permanente delle prescrizioni profetiche, ora appellandosi all’autorità del giudizio degli uomini di scienza che se ne sottraggono, ora – come nel caso di alcuni sufi – attribuendosi uno stato spirituale per il quale ci si dichiara esenti da quanto è prescritto dalla religione ai non iniziati. Altre volte la deriva è di tipo razionalista, come nel caso dei filosofi, che dichiarano la relatività storica delle norme religiose e quindi la possibilità di indulgere in alcune prescrizioni, o di attenersi ad altre per pura convenzione sociale. Alcuni, di conseguenza, disorientati dalla molteplicità delle posizioni antitradizionali ed eterodosse, approdano a una forma di relativismo per il quale è impossibile discernere tra ciò che è certo e ciò che è dubbio.
L’occasione per il ritorno fu offerta ad Al-Ghazālī dall’appello del proprio sovrano, che lo invitò a riparare alla grave situazione. Vinte le resistenze interiori in merito ritorno, su consiglio di molti maestri spirituali che interpellò, e sulla scorta di alcune visioni mistiche che sciolsero gli ultimi dubbi, Al-Ghazālī maturò la convinzione che la sua funzione andava interpretata alla luce della promessa divina di rinnovare ad ogni secolo la religione. Sentendosi investito di tale mandato, il maestro uscì dal suo ritiro durato undici anni. Il suo ritorno all’insegnamento, tuttavia, non ebbe più come movente la gloria e le seduzioni del mondo: egli era infine un essere trasformato che poteva affermare di sé: “Desidero migliorare me stesso e gli altri. Non so se raggiungerò il mio scopo o se fallirò. Ma ho certa fede e salda cognizione che non c’è forza ne potenza se non in Dio Altissimo e Grande, e che non sono io a muovermi, ma è Lui a muovere me. Non io opero, ma è Lui che mi utilizza come strumento. Lo supplico di emendare me in primo luogo e poi gli altri attraverso di me; lo supplico di guidare me in primo luogo e poi gli altri attraverso di me, di indicarmi la verità di ciò che è vero e di sostenermi nel perseguirla, e di mostrarmi la falsità di ciò che è falso e di sostenermi nel respingerla” (p. 67).
Nella confessione di Al-Ghazālī risuona l’eco di una vicenda emblematica il cui valore è universale e intramontabile. Il santo, come avviene da sempre, dopo l’occultamento ritorna al mondo. Torna per misericordia, per irradiare la grazia che ha gustato, per diffondere la certezza di cui Iddio gli ha fatto dono. Porta con sé l’insegnamento che ciò che il dono profetico rivela ha una validità permanente, perché la fonte della profezia è eterna, e ciò che istituisce, lungi dal poter essere giudicato dall’uomo, pre-comprende ogni stato umano e ne è norma e misura. La profezia non è passibile di giudizio in quanto la ragione è una facoltà inferiore a quella profetica, così come la santità dischiude una scienza che è superiore al sapere umano e che quest’ultimo, nella sua vanagloria, non può intaccare.
Sopra il profeta che ne l’istitutore, il santo che ne è il realizzatore, il fedele che vi aspira, vi è l’unica religione voluta da Dio, che tutti riconduce all’Unico.
segue La nicchia delle luci
(Mishkāt al-anwār)
|