| Nell’ultimo periodo della vita pubblica il maestro si trasferì a Baghdad, la più popolosa capitale del mondo islamico, nonché polo culturale di primissimo piano, dove si dedicò a una intensa attività di insegnamento e di predicazione. La permanenza nella capitale fu spezzata prima da un quinquennale pellegrinaggio, in cui si spinse fino all’Asia centrale e ai confini occidentali della Cina, in seguito per il terzo e ultimo ritorno alla Mecca, dove con ogni probabilità maturò definitivamente in lui quel senso del martirio testimoniale che espresse in modo compiuto con la propria passione.
Le ostilità nei suoi confronti, rappresentate dalla fazione del visir Hāmid, culminarono con l’istituzione di un processo (913 d.C/301 H) in cui fu scagionato grazie all’intervento di Ibn Surayj, uno dei massimi dottori della legge dell’epoca, che di fatto dichiarò non giudicabili dai tribunali umani gli aspetti spirituali e interiori delle dottrine maestro. Al-Hallāj fu quindi trattenuto per nove anni presso il palazzo del califfo nel tentativo di impedirgli la predicazione, e nel 922 d.C/310 H, dopo la morte di Ibn Surayj, a fronte del consolidamento del potere di Hāmid, fu firmata la sua condanna a morte dal califfo al-Muqtadir.
La pena capitale, di una crudeltà inaudita, fu eseguita il 26 marzo dello stesso anno.
Nel ricostruire le ragioni di tale condanna, alcuni storici tendono a mettere in secondo piano le ragioni di ordine spirituale a favore di quelle politiche: secondo tali interpretazioni l’annuncio scandaloso di al-Hallāj servì esclusivamente come pretesto per giustificare un intervento volto ad eliminare colui che si riteneva un preoccupante fattore destabilizzante dell’ordine consolidato. La vita di un santo, tuttavia, risponde a logiche causali che sconfinano enormemente da quelle storiche: la vita dell’Amico di Dio è epifania della sua dottrina e della sua funzione spirituale, come insegna emblematicamente la biografia di Ibn ‘Arabî [7]. Ridurre pertanto la vita e la morte di al-Hallāj a fattori umani e terreni è disconoscere ed ignorare la Misericordia divina di cui esse sono state espressione, e precludere quell’accesso privilegiato all’insegnamento del santo che è costituito dall’esemplarità permanente della sua esistenza terrena. A conferma di ciò, basti ricordare che del significato simbolico del martirio del Cardatore la tradizione tramanda la piena consapevolezza del condannato stesso [8]; alla propria morte, del resto, al-Hallāj ha sovente alluso in vita come l’esito necessario della sua peculiare via mistica [9].
Il principale capo d’accusa impugnato dai persecutori fu una lettera – il cui destinatario fu Shaker b. Ahmad al-Baghdādī, la stessa figura a cui è attribuita la redazione dell’ Akhbār al-Hallāj – nella quale il mistico invitava metaforicamente il discepolo a distruggere il tempio della Mecca al fine di compiere un pellegrinaggio interamente interiore. Su tale appiglio legale, tuttavia, si celava la condanna del cuore stesso dell’esperienza mistica del Cardatore, ossia la scandalosa testimonianza estatica dell’identità suprema, che prorompe nel grido dell’indicibile: «Ana ‘l-Haqq» («Io sono il Vero») [10]. «Il Vero», infatti, è uno dei principali nomi di Dio; attribuirsi tale epiteto suonava dunque, alle orecchie degli zelanti, come la somma empietà di identificare se stessi con l’Unico.
Come interpretare, dunque, l’«Ana ‘l-Haqq»?
Al-Hallāj fu innanzitutto un pio osservante [11]. Ormai anziano, disse di sé: “«Ho scelto di non adottare gli insegnamenti dell’imam di una determinata scuola, ma di estrapolare da ciascuna di esse le prescrizioni più rigorose e severe, e a questo principio mi sono sempre attenuto. Non ho mai recitato una sola preghiera senza avere compiuto prima le abluzioni maggiori e poi le abluzioni minori. Ho settant’anni, e ne ho trascorsi cinquanta a recitare le preghiere di duemila anni, in modo che ogni preghiera riparasse quello che vi era di imperfetto nella precedente»” [12]. L’affermazione dell’identità con Dio non ha per base la distruzione della legge sacra, di cui egli fu sempre uno strenue difensore, al punto di riconoscere la necessità e la giustizia della sua condanna, nonché ad incoraggiarla nel nome dell’osservanza [13]. Non ha neppure per fondamento la spregiudicatezza e l’arroganza di un falso esoterismo che distrugge la forma esteriore della fede [14]. Essa si basa su una solida consapevolezza dell’assoluta alterità divina [15], che tuttavia non preclude il riconoscimento dell’asimmetrica reciprocità del rapporto sussistente tra creatore e creatura [16]. E’ a partire da queste premesse che è possibile realizzare pienamente la dottrina del tawhīd, il cui compimento è l’affermazione che soltanto l’Unico può affermare la propria unicità, ossia riconoscere che l’affermazione dell’unicità di Dio è empia quando a pronunciarla è la creatura, che nell’atto di affermarla testimonia della propria esistenza, e quindi la nega. Chi afferma il tawhīd è un associatore; chi nega l’unicità divina, nega il pilastro stesso della sottomissione [17]. In tale antinomia si cela il senso dell’«Ana ‘l-Haqq».
Il grido di al-Hallāj proviene da queste impenetrabili profondità. Esso testimonia che la creatura non è, e che ad essere è soltanto «il Vero». La creatura che pronuncia tale affermazione, nel momento in cui la pronuncia, non si arroga il diritto della divinità, ma dichiara la propria insussistenza; il grido del Cardatore è la testimonianza di tale esperienza di verità, che, nella sua intensità, straripa e rompe gli argini di qualsiasi forma di consolidata «convenienza spirituale», dando così voce all’innominabile. Al-Hallāj era perfettamente consapevole di oltrepassare i limiti di quanto era consentito e conveniente, così come era consapevole che, oltrepassando tali limiti, era necessario e doveroso che l’ordine sacro fosse ripristinato con la sua distruzione. In questa prospettiva vanno lette tanto le sue invocazioni di condanna [18], quanto le preghiere pronunciate dal mistico per la salvezza dei propri carnefici [19]. Quest’ultime, lungi dall’essere una semplice espressione di perfezione morale e di misericordia umane, hanno un’origine squisitamente metafisica nel riconoscimento della comune partecipazione di vittima e carnefice al medesimo mistero di verità, in cui entrambi sono chiamati ad assolvere il ruolo destinatogli nella manifestazione dell’ordine universale.
La vicenda di al-Hallāj ricorda per molti versi quella di Meister Eckhart. Entrambi sono espressione dell’inevitabile conflagrazione tra gnosi ed essoterismo, laddove il punto di vista dell’eternità viene apertamente professato nella temporalità. Così come il tempo è scardinato dall’eternità ogniqualvolta l’eternità vi si manifesti provvidenzialmente, allo stesso modo la prospettiva temporale sente minate le proprie fondamenta ogniqualvolta il punto di vista dell’eternità sia affermato nel tempo. Il tempo non può comprendere l’eternità, che ne è la condizione e il principio, se non rinunciando alla propria forma, che è altro non è che la sua stessa ragione d’essere, essendo il tempo null’altro che una manifestazione condizionata e finita dell’eternità; in questa prospettiva, per l’essoterismo riconoscere la verità della gnosi significa annullarsi, essendo la religione una manifestazione condizionata e finita dell’unica verità eterna. Come l’eternità contiene il tempo e quest’ultimo è destinato ad esservi riassorbito, allo stesso modo il punto di vista dell’eternità può, contenendole al suo interno, contemplare, comprendere e tutelare le ragioni della prospettiva temporale. Nell’accettazione e nell’invito alla propria condanna di al-Hallāj, così come nella piena sottomissione alla Chiesa di Eckhart, si esprime il riconoscimento, da parte dell’autentica gnosi, delle prerogative dell’essoterismo. Questo può avvenire in quanto, a differenza del punto di vista religioso, l’autentico essoterismo riconosce la continuità sussistente tra forma condizionata e principio incondizionato, riconoscendo altresì che la forma religiosa, provvidenzialmente voluta e istituita da Dio, costituisce l’unica autentica via d’accesso alla verità informale.
E’ corretto chiedersi, a questo punto, quali possano essere le ragioni provvidenziali che si celano dietro lo scandalo di un esoterismo che si professa pubblicamente, minando così le fondamenta della forma religiosa, per poi affermarne le prerogative. E’ questo, a parer nostro, il più urgente interrogativo che la vicenda del Cardatore solleva.
Senza voler dare risoluzione a un quesito la cui risposta riposa negli abissi insondabili della volontà divina, crediamo sia doveroso riflettere se effettivamente corrisponda o meno a un prototipo delle manifestazioni della Provvidenza il far baluginare talvolta, mediante lo scandalo che squarcia il petto, il cuore vivo e pulsante che sostiene l’intero corpo religioso, ossia la dimensione esoterica, al fine di indicare l’approdo ulteriore a cui tende la realizzazione delle prescrizioni sacre. In altre parole, crediamo sia lecito chiedersi se sia corretto o meno, dal punto di vista dell’economia dello spirito, sostenere che, provvidenzialmente, la norma sia talvolta infranta a testimonianza che la legge non è la ragione ultimativa dell’istituzione religiosa, ma che essa sia destinata a un compimento che la trascende. Tale strappo, tuttavia, nella sua extra-ordinarietà, è sottoposto temporalmente a quello che potremmo definire un regime di compensazione, il quale ne riassorbe la manifestazione per preservare ciò di cui è conferma, ossia l’ortodossia religiosa, lasciando immutate, tuttavia, le tracce misericordiose del suo passaggio e la sua natura di indicazione e di viatico per coloro che sono chiamati a intraprendere il cammino che conduce alla pienezza dello spirito. Tale regime di compensazione rende comprensibile, ma non per questo meno tragico e doloroso, il martirio del Cardatore, colui che era chiamato a testimoniare di ciò che non poteva essere detto.
La vicenda di Cristo, letta nella prospettiva dei suoi rapporti con l’ebraismo, è emblematica di tale processo. La cristicità di al-Hallāj, alla luce di queste meditazioni, appare dilatata e confermata, oltre che dalle ben note e significative evidenze esteriori, anche e soprattutto sulla base di tale dimensione essenziale.
[1] S. H. Nasr, Islam tradizionale nel mondo moderno, trad. it. di L. Casadei e A. Tripaldi, Padova, 2006, pp. 238-239.
[2] Massignon consegue nel 1922 il dottorato alla Sorbona a Parigi con la tesi dal titolo La passion s’al-Husayn-ibn-Mansūr al-Hallaī, martyr mystique de l’Islam, exécuté à Bagdad ne 26 mars 922 (Parigi, 1922, 2 voll.), a cui è associata una tesi ausiliaria, intitolata Essai sur les origines du lexique technique de la mystique musulmane (Parigi, 1922). L’opera principale dell’autore è il monumentale studio La Passion de Hallāj, martyr mystique de l’Islam, scritto postumo che riprende la tesi di dottorato ampliandola con studi e articoli complementari (Parigi, 1975, 4 voll.).
[3] Le opere del maestro furono in gran parte distrutte dalle stesse autorità che presiedettero alla sua condanna. E’ disponibile in italiano una raccolta che contiene i tre testi preservati: il Diwān («Il Canzoniere»), il Kītab al-Tawāsin («Il libro dei Tawāsīn») e i Riwājāt («I detti ispirati»): Al-Husayn Ibn Mansūr al-Hallāj, Il Cristo dell’Islam. Scritti Mistici, a cura di A. Ventura, Milano, 2007. Da segnalare inoltre la traduzione del Tadhkirat Al-Awliyā («Memoriale dei Santi»), il testo in cui Massignon lesse i versi tramandati di Hallāj che lo segnarono indelebilmente, come ricordato da Borrmans nella postfazione al testo che presentiamo (p. 95): «Due serie di prosternazioni bastano, in amore (come all’alba o in guerra). Ma l’abluzione previa deve essere fatta nel sangue”. Il passo intero, nella traduzione di L. Pirinoli, è riportato nella nota 6.
segue
|