IL FARO DEI SOGNI

Le mille e una notte – Il sesto viaggio di Sindbad

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view post Posted on 3/3/2024, 10:26     Top   Dislike
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Sappiate, fratelli amici e conoscenti, che ritornato dal quinto viaggio, tanta fu per me l’allegria, il gaudio, la gioia e il sollazzo che dimenticai tutto ciò che avevo patito e fui assai felice e contento. E mentre me ne stavo seduto così felice e contento, vennero un giorno da me dei mercanti sui cui volti si potevano leggere i segni di chi è in viaggio.
Mi ricordai allora del giorno in cui ero tornato io dal viaggio e della gioia che avevo provato ritrovando la mia famiglia, i miei amici e conoscenti, e tutto il mio paese. Ed ecco, sentii, di nuovo forte, il desiderio di partire e andare per il mondo a commerciare e, una volta presa la decisione, comprai della merce preziosa e lussuosa che si potesse portare in un viaggio per mare; caricato il mio bagaglio, partii da Baghdad per Bassora ove vidi una grande nave con sopra mercanti e uomini d’alto affare che avevano con sé merci preziose: imbarcato il mio bagaglio su quella nave, alla buon’ora partimmo da Bassora.

Viaggiammo da un luogo all’altro, e da città a città, vendendo e comprando, visitando i paesi del mondo, facendo buon viaggio e avendo buona sorte, e ci guadagnammo da vivere. Ma un giorno mentre viaggiavamo il capitano della nave si mise a gridare, gettò a terra il suo turbante, si percosse il viso, si tirò la barba e cadde sulla coperta tanta era la sua afflizione e disperazione.
Tutti i mercanti e i passeggeri gli si fecero attorno chiedendogli cosa fosse successo: «Sappiate, – rispose loro il capitano, – che noi con la nostra nave ci siamo sperduti uscendo dal mare in cui eravamo, ed entrando in un mare di cui non conosciamo la Sindbad-naufragiorotta. Se Iddio non ci destinerà qualche cosa che possa salvarci da questo mare, periremo tutti quanti. Perciò invocate da Dio altissimo che ci scampi da questo guaio!».

Detto questo, il capitano salì sull’albero della nave per sciogliere le vele, ma il vento fattosi forte contro la nave la risospinse a ritroso sulla poppa e il timone si squarciò vicino a un alto monte.
Il capitano scese dall’albero esclamando: «Non vi è forza né potenza se non in Dio altissimo! Nessuno può evitare il destino! Per Dio, siamo caduti in un grosso guaio mortale da cui non ci rimane salvezza né scampo».
Tutti i passeggeri piansero per la loro vita e ognuno diede l’estremo saluto all’altro nella certezza d’essere al termine della propria vita, avendo ormai perso ogni speranza. La nave andò alla deriva verso quel monte, e si fracassò, e le sue tavole si squarciarono. Tutto quello che vi era sopra andò a fondo, i mercanti caddero in acqua e alcuni di essi perirono affogati, altri invece si afferrarono alle scogliere di quel monte e vi si arrampicarono.

Io fui tra questi ultimi. Si trattava di una grande isola presso cui si erano schiantati molti vascelli e sulla cui spiaggia giacevano molte provviste che il mare aveva gettato dai legni naufragati i cui passeggeri erano annegati. Le mercanzie e le robe che il mare aveva gettato sulla spiaggia erano così tante da destare in noi grande meraviglia e stupefazione.
Arrampicatomi su per quell’isola, mi misi a camminare e, in mezzo a essa, scorsi una sorgente d’acqua dolce e corrente che scaturiva da una parte ed entrava dalla parte opposta del monte.
Intanto, i passeggeri che erano saliti con me si sparsero per l’isola, attratti e stupefatti fin quasi a impazzire dalle tante mercanzie e robe che stavano in riva al mare. Io invece volsi il mio sguardo a quella fonte, e nelle sue acque notai molti tipi di gioielli, pietre e metalli preziosi, rubini, grosse perle regali, grandi come i ciottoli tra i corsi d’acqua di quei prati. Tutto il fondo della fonte brillava per le innumerevoli pietre preziose e altre cose luccicanti che vi giacevano.



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Trovammo inoltre su quell’isola molto legno di Cina e d’aloe e una sorgente d’ambra greggia che, per il forte calore del sole, scorreva come la cera su un lato della fonte e scendeva giù fino alla spiaggia. Qui i cetacei emergevano dal mare, la ingoiavano e Sindbad-mercanti-isolatornavano subito ad immergersi: nei loro ventri l’ambra diventava calda ed essi la vomitavano nel mare, dove si rapprendeva sul pelo dell’acqua cambiando colore e caratteri; poi le onde la buttavano a riva, e i viaggiatori e i mercanti che la conoscevano, la prendevano e la vendevano.
L’ambra greggia che non veniva ingoiata colava ai lati della fonte e qui si solidificava; quando vi batteva il sole si liquefaceva, e tutta quella valle s’impregnava del suo odore che è simile al muschio, ma quando il sole cessava di battervi l’ambra tornava a indurirsi.

Nessuno poteva accedere al luogo dove vi era questa ambra grezza né poteva camminarvi, poiché il monte circondava l’isola e nessuno poteva salire fin lassù. Perciò continuammo a girare per quell’isola osservando quello che Iddio vi aveva creato, meravigliati per la nostra situazione e per quello che vedevamo, con addosso tuttavia una grande paura.
Avevamo raccolto su un canto dell’isola un po’ di alimenti e cercavamo di risparmiarne, mangiando una sola volta ogni giorno o ogni due giorni poiché temevamo che terminassero e noi dovessimo morire tristemente di fame e di paura. Quando qualcuno moriva, lo lavavamo e lo avvolgevamo a mo’ di sudario negli abiti e nelle stoffe che il mare aveva gettato sulla spiaggia dell’isola.

Furono in molti a morire, sicché rimanemmo solo pochi di noi, indeboliti per il mal di visceri causato dal mare. Nel volgere di poco tempo uno dopo l’altro morirono tutti i miei amici e compagni, e ognuno che moriva fu sepolto.
Rimasi infine solo io in quell’isola, e avevo con me poco nutrimento da molto che era prima. Piansi sulla mia sorte pensando: «Ah, fossi morto prima dei miei amici e mi avessero lavato e seppellito! Ma non vi è forza né potenza se non in Dio altissimo».
Trascorso poco tempo così, mi scavai una fossa profonda da un lato di quell’isola. «Se mi indebolirò molto, – mi dissi, – e capirò che per me è giunta la morte, mi coricherò in questa tomba e vi morirò. Il vento solleverà la sabbia su di me e mi coprirà fino a che avrò sepoltura».

Robinson-naufrago

Rimproverai me stesso per il mio scarso giudizio e per essermi rimesso in viaggio per il mondo, lasciando il mio paese e la mia città, dopo tutto quello che avevo sofferto per cinque volte, e aver patito in ognuno dei miei viaggi sofferenze e angustie sempre più ardue e più dure delle precedenti.
Ora non credevo più di scampare né di salvarmi e mi pentivo di essermi messo per mare e di esserci ancora ritornato senza che avessi bisogno di denaro, poiché ne avevo tanto che non avrei potuto sperperare e dissipare per il della mia vita neanche la metà del mio. Avevo più di quanto mi bastava!

Ma subito dopo feci fra me e me un altro pensiero. Mi dissi: «Per Dio! Questo fiume deve pur avere un principio e una fine, e ci sarà pure un punto da cui sbocca in qualche centro abitato. La cosa migliore è che mi costruisca una piccola feluca, non più grande di un posto a sedere, per calarla poi nel fiume e navigarlo. Se trovo scampo mi sarò salvato con il permesso di Dio altissimo; e se pure morirò in questo fiume, sarà meglio che morire in questo luogo».



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view post Posted on 7/3/2024, 09:39     Top   Dislike
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Sospirai sull’anima mia e mi dedicai a raccogliere pezzi di legno di Cina e di aloe, e li saldai assieme in riva al mare con le corde delle navi naufragate. Poi presi delle tavole, sempre di quelle delle navi, le posi su quei legni e feci la feluca larga quanto il fiume o un po’ meno e strinsi bene e saldamente tutto assieme. Raccolsi molti di quei metalli e pietre preziose, gioielli e ricchezze e perle grandi come i ciottoli e altre cose che erano nell’isola, oltre a un po’ di ambra grezza, pura e buona, che posi su quella zattera, su cui caricai anche tutto quello che avevo raccolto; presi con me tutte le provviste che mi erano rimaste, gettai la zattera sul fiume, vi posi due legni ai lati come remi, e agii secondo quanto dice un poeta:

Partiti da un luogo in cui soffri, e lascia la casa
se devi annunciare la morte di chi l’ha costruita.
Troverai bene una terra in cambio di un’altra,
ma non troverai, oltre la tua, una vita di ricambio.
Non ti rattristare per le vicissitudini del tempo:
ogni guaio ha una sua fine.
Chi deve per destino morire in un paese,
non potrà giammai morire altrove.
Se la faccenda è grave, non inviare un tuo messo,
poiché l’anima non ha altro consigliere che se stessa.

Mi avventurai su quella zattera in apprensione per quel che mi poteva succedere, fino a che il fiume non si addentrò nel monte, e io vi introdussi la zattera, trovandomi così sotto Sindbad-strettoia-fiumeil monte, avvolto nelle più fitte tenebre. La zattera avanzò fino a un restringimento nella cavità del monte, e i suoi fianchi vennero in attrito con le rocce, mentre la mia testa sfregava contro il tetto di quel fiume sotterraneo.
Non potevo più tornare indietro, e perciò mi biasimai per ciò che avevo fatto di me stesso, pensando: «Se questo luogo si restringe più della zattera, sarà difficile che essa possa uscirne o tornare indietro e io senza dubbio morirò qui tristemente!».

Il fiume era tanto stretto che mi gettai bocconi seguitando ad andare senza distinguere più la notte dal giorno, data l’oscurità che regnava laggiù, sotto il monte. Grande era il mio sgomento, e grande la paura di morire.
Continuai ad andare avanti sul fiume che a tratti si allargava e a tratti invece si restringeva, finché sfinito da tanta oscurità mi prese sonno, per la mia eccessiva fatica, e mi addormentai bocconi sulla zattera. La zattera continuò allora a scivolare da sola sulla corrente, con me che vi dormivo sopra, ignaro perciò di dove mi stesse portando.

Quando rinvenni, mi ritrovai alla luce: aprii gli occhi e mi accorsi di essere in un luogo ampio e spazioso. La zattera era ancorata a un’isola e un gruppo di Indiani e di Abissini mi stavano dattorno. Quando videro che mi alzavo, mi si fecero incontro parlandomi nella loro lingua senza però che io potessi intendere quel che dicevano. Ero così stanco e affaticato che credevo di stare ancora a dormire e sognare.
Vedendo che non capivo le loro parole e che non rispondevo nulla, mi si fece dappresso uno di essi, mi parlò in arabo dicendo: «Buongiorno, fratello: chi sei? E da dove sei venuto? E perché sei giunto in questo luogo? Noi siamo coltivatori e agricoltori. Venuti ad annaffiare i nostri campi e terreni, ti abbiamo visto che dormivi sulla zattera e afferratala l’abbiamo legata vicino a noi fino a che tu ti fossi con comodo alzato. Dicci qual è la causa del tuo arrivo a questo monte».
Gli risposi: «In nome di Dio, signore, portami prima qualcosa da mangiare perché ho fame, e dopo mi domanderai quello che vuoi!».

Quello si affrettò a portarmi del cibo di cui mangiai fino a esserne sazio: mi riposai, il mio animo si tranquillizzò, fui completamente satollo e ripresi gli spiriti. Lodai Iddio per tutto ciò, contento d’essere uscito da quel fiume e di essere giunto lì da loro, e li informai Ward-Sindbad-zatterada cima a fondo di tutto quanto mi era successo e delle sofferenze sopportate nella strettoia di quel fiume.
Poi essi, parlottando fra di loro, si dicevano: «Dobbiamo prenderlo con noi e mostrarlo al nostro re perché costui gli racconti quanto gli è capitato».



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view post Posted on 9/3/2024, 10:31     Top   Dislike
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E infatti mi condussero con loro, portando anche la zattera e gli averi, le cose, i gioielli, le pietre preziose, gli oggetti d’oro e d’argento che erano a bordo, e m’introdussero dal loro re informandolo dell’accaduto.
Quegli mi salutò, mi dette il benvenuto, e mi fece delle domande sulla mia condizione e sugli avvenimenti che mi erano toccati. Lo misi al corrente di tutto, dal principio alla fine, e di quanto avevo sofferto. Il re si stupì assai della mia storia e si felicitò per la mia salvezza.
Allora tirai fuori dalla zattera molti metalli preziosi e gioielli e legno e ambra grezza, e regalai tutto al re che lo accettò e mi trattò assai onorevolmente, facendomi dimorare presso di lui. Entrai in rapporti con i maggiorenti e i più importanti uomini del paese che mi trattarono molto bene, e non abbandonai più la casa del re. Quelli che giungevano in quell’isola, mi chiedevano notizie del mio paese e io ne davo loro, chiedendo a mia volta notizie dei loro, che essi mi fornivano.

Un giorno il re mi chiese notizie del mio paese e del modo di governare del califfo a Baghdad. Gli narrai della sua giustizia, e del suo modo di governare ed egli, stupito, esclamò: «Per Dio! Il califfo governa con saggezza e raziocinio. Tu hai suscitato in me amore per lui e io voglio preparargli un dono e inviarglielo per mezzo tuo».
«Sissignore, – gli risposi, – glielo porterò dicendogli che tu gli sei sincero amico».

Per un certo tempo rimasi presso quel re con il massimo onore e menando buona vita. Un giorno mentre me ne stavo seduto al palazzo, udii la notizia che alcune persone di quella città avevano allestito una nave perché volevano fare un viaggio a Bassora. Pensai che nulla per me poteva andar meglio che partire con quella gente. Mi affrettai subito a baciare la mano del re facendogli sapere che volevo partire con quelle persone sulla nave che avevano apparecchiato, perché sentivo desiderio di rivedere la mia famiglia e il mio paese.

Doha-painting

«Tu sei libero, – mi rispose il re. – Ma se vuoi rimanere presso di noi ne avremo piacere perché siamo abituati alla tua compagnia».
«Signor mio, – soggiunsi, – tu mi hai colmato dei tuoi favori e dei tuoi servigi, però io ho desiderio di rivedere la mia famiglia, il mio paese e i miei figli».
Udite queste parole, il re fece venire i mercanti che avevano allestita la nave, mi raccomandò a loro e mi regalò molte cose sue pagando per me il nolo sulla nave; egli inviò a mezzo mio un grande regalo al califfo Harûn ar-Rashîd a Baghdad.

Salutati il re e tutti gli amici che frequentavo, mi imbarcai sulla nave con i mercanti e salpammo. Il vento ci era favorevole e il viaggio fu buono e noi confidammo in Dio altissimo. Viaggiammo di mare in mare e di isola in isola fino a che, con il permesso di Dio altissimo, giungemmo sani e salvi a Bassora ove, sceso dalla nave, mi fermai alcuni giorni e alcune notti, e poi mi preparai, e feci i miei bagagli, dirigendomi a Baghdad, Casa della Salute.

Mi recai dal califfo Harûn ar-Rashîd, portandogli quel regalo e informandolo di tutto quello che mi era capitato. Misi nei forzieri tutti i miei averi e le mie mercanzie, e andai Detmold-Sindbad-califfoal mio quartiere. La mia famiglia e i miei amici mi vennero incontro, e io distribuii regali a tutta la mia famiglia, facendo elemosine e doni.
Dopo un po’ di tempo il califfo mi mandò a chiamare chiedendomi la ragione di quel regalo, e da dove gli fosse pervenuto.

«Principe dei credenti, – risposi, – per Allâh, non so che nome abbia la città da cui viene, né so la strada che vi porta. Posso solo affermare che quando la nave in cui mi trovavo affondò, capitai su un’isola ove mi costruii una zattera e scesi in un fiume che si trovava in mezzo all’isola stessa».
E gli raccontai quello che mi era successo nel viaggio, e come mi fossi salvato da quel fiume e fossi giunto in quell’isola, e di quello che mi accadde in essa e infine della ragione del dono.
Il califfo ne fu molto meravigliato, e ordinò agli storici di scrivere in un foglio la mia storia e di porla nel suo archivio affinché chi la vedesse potesse trarne ammaestramento. Poi mi onorò straordinariamente.

Rimasi a Baghdad vivendo allo stesso modo di prima, dimentico delle mie avventure e delle mie pene dalla prima all’ultima, menando vita felice, divertendomi e godendo.
Questo è quello che mi accadde, amici, nel sesto viaggio. Domani, se vuole Iddio, vi racconterò la storia del settimo viaggio: esso è ancor più strano e meraviglioso di tutti gli altri.

(Le mille e una notte)



fonte https://lartedeipazzi.blog/2018/12/04/le-m...gio-di-sindbad/

 
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