IL FARO DEI SOGNI

Deleuze – L’io dissolto al passo delle Simplegadi

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view post Posted on 26/2/2024, 10:09     Top   Dislike
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sintesi-memoria




Costituisce uno dei più grandi meriti dello stoicismo l’aver mostrato che ogni segno è segno di un presente, dal punto di vista della sintesi passiva in cui passato e futuro non sono esattamente altro che dimensioni del presente stesso (la cicatrice è il segno non sintesi-memoriadella ferita passata, ma del «fatto presente di aver ricevuto una ferita», per cui si dice che è contemplazione della ferita, e che contrae tutti gli istanti che me ne separano in un presente vivente).

O, per meglio dire, è qui il vero senso della distinzione tra naturale e artificiale [tra reale e simbolico]. Sono naturali i segni del presente, che in ciò che significano rimandano al presente, i segni fondati sulla sintesi passiva. Sono artificiali invece i segni che rimandano al passato o al futuro come a dimensioni distinte dal presente, da cui non è escluso che il presente possa dipendere a sua volta; tali segni implicano sintesi attive, ossia il passaggio dall’immaginazione spontanea alle facoltà attive della rappresentazione riflessa, della memoria e dell’intelligenza.

E pertanto: lo stesso bisogno finisce dunque per essere molto imperfettamente compreso finché lo si interpreta secondo strutture negative che lo riferiscono già all’attività [ai segni artificiali, alle sintesi attive della memoria e dell’intelligenza]. Né basta invocare l’attività in via di farsi, di crescere, se non si determina il terreno contemplativo su cui questo agire cresce. Su questo stesso terreno si è portati a scorgere nel negativo (il bisogno come mancanza) l’ombra di un’istanza più alta [che invece sopravviene solo in un secondo momento, con l’avvento delle sintesi attive].

Il bisogno esprime il vuoto di una domanda, prima di esprimere il non-essere o l’assenza di una risposta.
Contemplare è interrogare. Non è forse proprio della domanda «strappare» una risposta? La domanda presenta a un tempo questa caparbietà o questa ostinazione, e questa stanchezza, questa fatica che corrispondono al bisogno.
Qual è la differenza…? questa la domanda che l’anima contemplativa pone alla ripetizione, e da cui ricava la risposta [da opporre] alla ripetizione.
Le contemplazioni sono domande, e le contrazioni che si svolgono nella ripetizione, e giungono a soddisfarle, sono altrettante affermazioni finite che si generano come si generano i presenti a partire dal perpetuo presente [che scorre invece] nella sintesi passiva del tempo.

pesce-in-bottiglia

Le concezioni del negativo provengono dalla nostra precipitazione a comprendere il bisogno in rapporto con le sintesi attive, che, di fatto, si elaborano soltanto su questo fondo.
Ma non basta: se ricollochiamo le stesse sintesi attive sul fondo che presuppongono, vediamo che l’attività significa piuttosto la costituzione di campi problematici in rapporto con le domande.
Tutto il campo del comportamento, l’intreccio dei segni artificiali e dei segni naturali, l’intervento dell’istinto e dell’apprendimento, della memoria e dell’intelligenza, mostrano come le domande della contemplazione si sviluppano in campi problematici attivi.

Alla prima sintesi del tempo corrisponde un primo complesso domanda-problema così come appare nel presente vivente (urgenza della vita). Questo presente vivente e, con esso, tutta la vita organica e psichica si fondano sull’abitudine.
A voler seguire Condillac, occorre considerare l’abitudine come il fondamento da cui derivano tutti gli altri fenomeni psichici. Ma il fatto è che tutti gli altri fenomeni o si fondano su talune contemplazioni, oppure sono essi stessi contemplazioni: anche il bisogno, la domanda, l’«ironia».



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view post Posted on 28/2/2024, 09:44     Top   Dislike
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Le mille abitudini che ci compongono, fatte di contrazioni, contemplazioni, pretensioni, presunzioni, gratificazioni, fatiche, presenti variabili, formano dunque il campo di base delle sintesi passive.
L’Io passivo non si definisce semplicemente con la ricettività, cioè con la capacità di De-Chirico-salita-conventoprovare sensazioni, ma con la contemplazione contraente che costituisce l’organismo stesso prima di costituire le sensazioni.
Così questo io non ha carattere alcuno di semplicità: non basta neppure relativizzare, pluralizzare l’io, pur conservandogli ogni volta una forma semplice attenuata.

Gli Io sono soggetti larvali, e il mondo delle sintesi passive costituisce il sistema dell’io, in condizioni da determinare, ma è il sistema dell’io dissolto. L’io appare non appena si stabilisce da qualche parte una contemplazione furtiva, non appena può funzionare una macchina per contrarre, capace in un certo momento di sottrarre una differenza alla ripetizione.
L’io non presenta modificazioni, è esso stesso una modificazione nel senso che questo termine designa per l’appunto la differenza sottratta.

In fondo, non si è che ciò che si ha, qui l’essere si forma, o l’io passivo è tramite un avere. Ogni contrazione è una presunzione, una pretensione, trasmette cioè un’attesa o un diritto su ciò che contrae, scomparendo non appena il suo oggetto le sfugge.
Samuel Beckett descrive in tutti i suoi romanzi l’inventario delle proprietà a cui soggetti larvali si abbandonano con sforzo e passione: la serie dei sassi di Molloy, dei biscotti di Murphy, delle proprietà di Malone – si tratta sempre di sottrarre una piccola differenza, una misera generalità, alla ripetizione degli elementi o all’organizzazione dei casi.
Indubbiamente una delle intenzioni più profonde del «nouveau roman» è di raggiungere, al di qua della sintesi attiva, il campo delle sintesi passive che ci costituiscono, modificazioni, tropismi e piccole proprietà. E in tutte le sue fatiche componenti, in tutte le sue autogratificazioni mediocri, nelle sue derisorie presunzioni, nella sua miseria e povertà, l’io dissolto canta ancora la gloria di Dio, vale a dire di ciò che contempla, contrae e possiede.

(Deleuze, Differenza e ripetizione)

***

Eraclito dice: «tutto scorre», ma da quale punto di osservazione lo dice? da quale postazione assiste a questo scorrere del Tutto e, mentre in questo Tutto è compreso, egli surreal-finestra-nuvolelo comprende, ne prende atto e lo significa in due parole?
È da una contemplazione che lo guarda, da una distanza che, sia pure trascinata anch’essa nello scorrere del tutto, segue però l’onda di un altro movimento – obbedisce cioè a un’altra tensione che non quella di un puro inconscio sonnolento letargico scorrere ignaro di se stesso.
È al servizio, per usare le parole di Deleuze, dell’«immaginazione spontanea» che è la lingua naturale del nostro essere – la lingua che comanda, guida e disciplina l’organizzazione dei nostri / che poi sono i suoi / «organi» parlanti.

Nello scorrere scorre dunque anche un movimento (linguistico) teso a prendere le distanze, a separarsi dallo scorrere nudo e crudo, per fare storia a sé, per fare la differenza, per cogliere perdere e ritrovare (questo sì che è un gioco a indovinare) la propria differenza nell’abitudine e nella ripetizione, a strapparla all’indifferenza di uno scorrere assente a se stesso e traghettarla al di qua delle Simplegadi, dove vige memoria e intelligenza, virtude e canoscenza.



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view post Posted on 1/3/2024, 09:35     Top   Dislike
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Nello scorrere scorre anche un moto teso a «rubare» al suo originario scorrere nell’oblio una presenza mnemonica, una scintilla di fuoco prometeico, un barlume di coscienza … un «segno» in cui contrarre, riassumere, sintetizzare lo scorrere che è scorso: un segno del trascorso da scrivere, da sovrascrivere allo scorrere inconscio del tutto scorrere. Un fondamento immaginale al cui bisogno, alla cui domanda di riempire un certo vuoto, risponde la fondazione dei suoi / e poi anche dei nostri / «organi» ambulanti: delle gambe su cui camminano le più antiche, le più sceme, le più insensate, e (c’è bisogno di dirlo?) le meno artificiali contemplazioni – quelle che costellano l’Infanzia di ogni Macchina linguistica. Quelle che la Macchina patisce, le sue più antiche passioni.

Deleuze le chiama «sintesi passive», contrazioni, riassunti di abitudini e ripetizioni «reali». Qui le chiama «cicatrici», altrove addirittura «guasti». La Macchina, queste sintesi, le subisce. Non se le procura da sola.
Queste «ferite passionali» costituiscono i segni più antichi, i segni naturali che il Reale «scrive» sul nostro Corpo, quando ancora è Corpo senz’organi, pura immaginazione e spontanea veggenza (di «vuoti» aperti, di «ferite» le cui labbra non si rimarginano). Caram-uovo-occhioCorpo ancora smemorato, ancora in movimento nell’oblio, ancora immerso in una presenza a se stesso, in una presenza così «radicata» nel Presente, da non avere né spazio né tempo per distrarsene: ancora nessuna memoria a cui domandare di riempire un qualche «vuoto».

Il segno di queste «sintesi passive», di queste «cicatrici di patimenti», come dicevano gli Stoici e come ripete Deleuze, quale che esso sia, appartiene sempre al presente – è il Presente stesso, lo stesso reale Scorrere a «significarlo». Esso è sempre il segno di ciò che sta scorrendo al presente: non la ferita (che è già stata), ma l’aver ricevuto la ferita che è tuttora la presente «cicatrice». Non il segno-ricordo, non la memoria della ferita (che implicherebbe già un’idea del passato), ma l’essere qui e ora a patirne la quotidiana reale cicatrizzazione.
Non è la stessa cosa che si può dire dei segni attivi, degli ornamenti artificiali, degli habitus e dei comportamenti costruiti in un altro Presente, in un Presente in cui è all’opera, ormai, una memoria, un’intelligenza – una Macchina cioè che ha appreso ormai a scarabocchiare sul Reale le sue rappresentazioni, a richiamare così il Presente che fu dal Passato, dall’Assenza attuale.

Ciò detto, la domanda è: il «bisogno», il desiderio, la Fame è un patimento reale, o soltanto un artificio (forse addirittura contro natura) della nostra mente? Il desiderio sorge dalle costruzioni, dalle illusioni di cui ci vestiamo attivamente, o è un vizio contratto dal Reale stesso, una sintesi più arcaica e primitiva di ogni nostro «sogno» erotico?
In altre parole: il «bisogno» è concepito dalla «mancanza», dalla privazione e dalla povertà che affliggono i nostri «segni attivi» (destinati a rappresentarci un Presente in luogo dell’Altro perduto), o è il «resto», l’«eco terminale», la «coda di poppa» d’una nave della ricchezza e dell’abbondanza, di un bastimento carico di … ripetizioni passive, patetiche, passionali, che un bel dì è andato a sbattere contro gli Scogli, dietro di sé lasciando appena una perla, preziosa e terribile, del suo enigmatico Tesoro?

Ciccarini-onde

È quando i naviganti, gli Argonauti della Contemplazione – che sono tutti i bambini del mondo – s’azzardano a sconfinare in quest’altro presente che è il Presente delle rappresentazioni attive che insceniamo al di qua delle Rupi Cozzanti, è allora che essi si trovano, d’un tratto, dispersi in un mare, in un vasto mare, di problemi.
E se si danno da fare, se prendono la decisione e agiscono, è per porre alle Simplegadi che li hanno «feriti», le domande sulle proprie «cicatrici».
Le Simplegadi, in tanto simboleggiano la frontiera tra sintesi passive e sintesi attive, in quanto è intorno ai loro Scogli che si sviluppa il primo campo da gioco, il primo posto degli indovinelli, il primo luogo problematico su cui gli Argonauti hanno da tornare, chissà quante volte, a riproporre la loro domanda: il loro bisogno, il loro desiderio di passare. Di venire a vivere quest’altro Presente, il presente che passa.

Il fondo di questo «campo» è lastricato di sintesi passive. L’abisso di questo «tratto di mare» incognito è abitato da un primitivo «io», tutto passivo, tutto patetico, da un «io» che è stato già tatuato da chissà quanti e quali segni «naturali», che ha ricevuto chissà quanti colpi dagli scogli del Reale, ma che non li ha semplicemente ricevuti, ma ogni volta – nel riceverli – si è contratto, si è ammaccato, si è guastato e, soprattutto, si è contemplato, si è visto frantumare, smembrare, stuprare, fare a pezzi.
Quest’Io passivo – è il fondo senz’organi, senza memoria, senza passato – che contempla Murphy-naufragiola propria Nave infranta, la Piroga delle sue avventure immaginali rovesciata dalle onde. Ogni frantumo, ogni scheggia, ogni «pezzo di legno», da laggiù dov’è affondata la Nave (delle passioni naturali), ha da porre una sua domanda. E tutte queste domande assieme, una per ogni ego di questo «io passivo», una per ogni larva dei molteplici pezzi naufragati laggiù sul fondo patetico del mare, costituiscono, dice Deleuze, il sistema dell’«io dissolto».

Costituiscono il campo problematico dal quale sorgerà poi un altro «io», un io che pretenderà d’essere «assolto» dal naufragio. Costituiscono il fondo oscuro dei bisogni, delle domande, dei desideri che quest’altro «io», questo signor Giasone, s’incaricherà di tradurre attraverso gli Scogli Cozzanti.
Per farlo, dovrà saper cogliere a volo il momento buono, dovrà essere bravo a «sottrarre» alla ripetizione smemorata del «tutto scorre» il kairós, l’attimo, lo squarcio di una «differenza», dal cui spioncino contemplare lo scorrere del tutto, e magari significarlo in due sole parole. Qualcosa come: qui problema. Qui onde confondere tutto, sintesi attive e passive, fondi che vengono in superficie, e superfici che sprofondano nel vuoto da cui erano emerse.





fonte https://lartedeipazzi.blog/2018/12/06/dele...lle-simplegadi/

 
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