IL FARO DEI SOGNI

Categoria:Gruppi etnici in Ecuador

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Pagine nella categoria "Gruppi etnici in Ecuador"

Questa categoria contiene le 12 pagine indicate di seguito, su un totale di 12.
C

Cofan

D

Demografia dell'Ecuador

Q

Quechua
Quijos-Quichua
Quitu

S

Saraguro
Secoya
Shuar
Siona

T

Tigua (Ecuador)
Tsáchila

W

Waorani





...........................................................................




Cofan


I Cofan (o anche Kofan) sono un gruppo etnico della Colombia e dell'Ecuador con una popolazione stimata di circa 1300 persone: 700 in Colombia e 500 in Ecuador. Questo gruppo etnico è per la maggior parte di fede animista e parla la lingua Cofan (D:Santa Rosa-CON02).

Vivono ai confini tra Ecuador e Colombia.





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Demografia dell'Ecuador


La maggior parte della popolazione dell'Ecuador ha radici genetiche in uno o più di tre grandi gruppi etnici stanziatisi nel territorio a seguito di grandi migrazioni umane: la popolazione indigena precolombiana, attestata in varie località ecuadoriane a partire da 15.000 anni fa, gli Europei - principalmente Spagnoli - arrivati grosso modo cinque secoli fa, ed infine i discendenti degli schiavi provenienti dall'Africa sub-sahariana tratti nel continente sudamericano nello stesso periodo. La mescolanza di uno o più di questi gruppi ha dato vita a nuove etnie miste.

I meticci, etnia formata dall'incrocio tra Europei (conquistadores o discendenti dei coloni spagnoli) con la popolazione aborigena, costituiscono di gran lunga il gruppo etnico più numeroso, abbracciando il 71.9% della popolazione. La popolazione bianca si aggira attorno al 6.1%; si tratta prevalentemente dei discendenti della classe predominante dei coloni, che non hanno contratto legami interrazziali[1]. La maggior parte della popolazione dell'Ecuador si originò durante l'era coloniale spagnola; il termine criollos fu coniato per distinguere gli spagnoli nati nella colonia dagli spagnoli peninsulares, cioè nati nella madrepatria. Il gruppo creolo comprendeva anche discendenti diretti di altri paesi europei, tra cui in particolare Italia, Germania e Francia. Gli amerindiani si attestano attorno al 7% della popolazione, e costituiscono il terzo gruppo etnico più numeroso. Il gruppo etnico degli Afro-Ecuatoriani comprende mulatti (incrocio tra Europei e Africani) e zambos (incrocio tra indigeni e Africani).
Popolazione
Censimenti

I censimenti in Ecuador sono condotti dall'istituzione governativa nota come INEC, Instituto Nacional de Estadisticas y Censos e hanno luogo ogni dieci anni.

L'ultimo censimento, effettuato nel 2011, aveva come obbiettivo una mappatura più precisa della popolazione rurale. Condotto tra novembre e dicembre del 2010, i risultati vennero pubblicati il 27 gennaio del 2011.

La tabella seguente mostra i dati dei due ultimi censimenti.

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segue

 
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Screenshot%202024-02-11%20at%2010-25-24%20Demografia%20dellEcuador%20-%20Wikipedia

Statistiche delle Nazioni Unite

Secondo le statistiche risalenti al 2015, consultabili nel rapporto World Population Prospects, la popolazione complessiva dell'Ecuador si attestava attorno ai 16,144,000, mentre nel 1950 si riscontravano solamente 3,470,000 persone censite. Nel 2015, la percentuale della popolazione sotto i 15 anni era del 29.0%, 63.4% della popolazione aveva tra i 15 e i 65 anni, mentre il 6.7% era più anziano di 65 anni.[4]

Screenshot%202024-02-11%20at%2010-26-35%20Demografia%20dellEcuador%20-%20Wikipedia


Statistiche riferite al genere[5]
I seguenti dati si riferiscono al 01.07.2013. Le stime escludono le popolazioni locali nomadi.

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Statistiche del CIA World Factbook

I seguenti dati demografici sono tratti dal CIA World Factbook (dove non diversamente indicato).

Popolazione: 15,007,343 (stima del luglio 2011)

Età media:

Totale: 25.7 anni
Uomini: 25 anni
Donne: 26.3 anni (al 2011)

Tasso di crescita della popolazione:

Tasso di migrazione:

-0.52 migranti/1,000 (2003)
-0.81 migranti/1,000 (2009)

Rapporto uomini/donne (2009):

alla nascita: 1.05 uomini/donne
sotto i 15 anni: 1.04 uomini/donne
15–64 anni: 0.97 uomini/donne
65 anni e oltre: 0.93 uomini/donne
totale popolazione: 0.99 uomini/donne

Tasso di incidenza di malati di HIV/AIDS:

0.3% (2007)

Religione:

Cattolici romani: circa 95%
Protestanti: circa 4%
Ebrei: meno del 0.002%
Cristiani ortodossi: sotto il 0.2%
Musulmani: circa 0.001%
Buddisti: sotto il 0.15%
Animisti: sotto il 0.5%
Atei e agnostici: 1%

Lingue

Spagnolo (ufficiale)

Lingue native americane:

Achuar-Shiwiar – 2,000 parlanti nella provincia di Pastaza. Anche conosciuti come: Achuar, Achual, Achuara, Achuale.
Chachi – 3,450 parlanti nelle provincie di Esmeraldas, Cayapas, los Rios. Anche conosciuti come: Cayapa, Cha' Palaachi.
Colorado – 2,300 parilannti nella provincia di Santo Domingo de los Colorados. Anche conosciuti come: Tsachila, Tsafiki.
Quechua – 1'460,000 parlanti divisi in 9 dialetti, diffusi in diverse aree del Paese
Shuar – 46,669 parlanti (2000). Provincia di Morona-Santiago. Anche conosciuti come: Jivaro, Xivaro, Jibaro, Chiwaro, Shuara.
Waorani – 1,650 parlanti (2004). Province di Napo e Morona-Santiago. Anche conosciuti come: Huaorani, Waodani, Huao.

Alfabetizzazione (percentuale della popolazione maggiore di 15 anni in grado di leggere e scrivere, al 2003):

totale: 91%
uomini: 92.3%
donne: 89.7%



fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Demografia_dell%27Ecuador

 
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Quechua


Per popolo quechua (termine spagnolo; italianizzato in checiua[1]) s’intende l'insieme degli individui che, pur appartenendo a differenti sottogruppi etnici, ha come lingua madre una lingua appartenente alla famiglia quechua. Costituiscono la maggioranza della popolazione di Perù e Bolivia.[2]

Descrizione
Nella valle sacra degli Incas, una donna quechua in abiti tradizionali porta sulla schiena il figlio

I quechua provengono probabilmente da una piccola regione nell'altipiano andino nel Perù meridionale. Hanno costituito il gruppo etnico più importante dell'impero Inca tanto che la loro lingua si è imposta come lingua ufficiale dell'impero. Le popolazioni quechua abitano una zona delle Ande centrali che occupa diversi stati sudamericani come Perù, Bolivia, Argentina ed Ecuador.
Storia e cultura
Mappa dei gruppi etnici in Sud America nel 1937. La distribuzione dei Quechua è evidenziata in giallo chiaro.

Nonostante le diversità sul piano etnico e linguistico, i vari gruppi etnici quechua condividono numerose caratteristiche culturali comuni. Tradizionalmente l'identità quechua è orientata su base locale e, in ogni caso, fortemente legata al sistema economico della comunità. Nelle regioni meridionali degli altopiani il sistema economico è basato sull'agricoltura, mentre nelle regioni settentrionali di Puno è basato sull'allevamento e la pastorizia. La tipica comunità andina si trova in luoghi di elevata altitudine e ciononostante include la coltivazione di diverse varietà di cereali. La terra appartiene, in generale, all'ayllu, la comunità locale, ed è coltivata collettivamente oppure ridistribuita su base annuale.

I grandi proprietari terrieri, a cominciare dall'epoca coloniale e poi in maniera più intensa con la nascita degli stati sudamericani indipendenti, si sono appropriati di tutta o di gran parte della terra coltivabile e costretto le popolazioni autoctone a lavorare per loro. Le aspre condizioni di sfruttamento hanno portato ripetutamente a rivolte da parte dei contadini che sono state soppresse con la forza. La più grande di queste rivolte ebbe luogo nel biennio 1780-1781 sotto la guida di Túpac Amaru II.

Alcuni contadini indigeni occuparono le terre dei loro antenati e espulsero gli hacendados nella seconda metà del XX secolo, come per esempio nel 1952 in Bolivia sotto il governo di Víctor Paz Estenssoro o nel 1968 in Perù sotto il governo di Juan Velasco Alvarado. Le riforme agrarie inclusero espropriazioni ai danni dei grandi proprietari terrieri e in Bolivia la terra venne redistribuita alla popolazione indigena come proprietà privata. Questa redistribuzione marcò un momento di discontinuità con la tradizionale cultura quechua e Aymara basata sulla proprietà comune, anche se in alcune regioni remote sono stati ripristinati gli ayllu, come nella comunità peruviana dei Q'ero. La lotta per il diritto alla terra rappresenta una costante di tutte le comunità quechua ed è combattuta senza tregua ancora nel XXI secolo.

Per quanto riguarda la condivisione comune del lavoro nelle comunità andine esistono due modalità differenti: nel caso del Minka, le persone svolgono insieme un progetto per il comune interesse. Ayni, invece, è la reciproca assistenza, in cui i membri della Ayllu aiutano una famiglia a portare a termine un grande progetto privato, come la costruzione di una casa e in cambio viene promesso un aiuto dello stesso tipo per un progetto analogo.

La disintegrazione dell'economia tradizionale, per esempio, regionalmente con lo sfruttamento delle risorse minerarie, ha determinato la perdita progressiva di un'identità etnica comune ma anche dell'uso della lingua quechua. Tale perdita è inoltre il risultato di una continua e sostenuta migrazione verso le grandi aree urbane, specialmente Lima, che ha visto prevalere i modelli sociali della cultura spagnola sopra quelli della società andina.
Lingua
Distribuzione dei dialetti quechua

Secondo alcune stime la popolazione di lingua quechua è compresa tra nove e quattordici milioni di persone che abitano: Perù, Bolivia, Ecuador, Cile, Colombia e Argentina. I vari dialetti quechua odierni sono in alcuni casi tanto differenti tra loro che non è possibile alcuna mutua comprensibilità. Questi dialetti derivano dalla lingua quechua parlata nell'impero inca di cui era oltre che la lingua più diffusa anche la lingua ufficiale. Il quechua non era la lingua esclusiva degli Incas ma era parlata anche da alcune popolazioni che ne sono stati i tradizionali rivali: gli Huanca, i Chanka e i Cañaris. Il quechua era inoltre parlato già prima degli Incas di Cusco, per esempio, i Wanka, mentre altre popolazioni, specialmente in Bolivia ma anche in Ecuador, adottarono il quechua solo con l'avvento dell'impero Inca o in un periodo successivo. In epoca moderna il quechua è lingua ufficiale in Perù e in Bolivia.
Religione
Cusco, giovane danzatore durante la festività in onore di Taytacha Qoyllur Rit'i

Tutti i quechua delle Ande professano, almeno formalmente, la religione Cattolica sin dall'epoca coloniale. Ciononostante, forme religiose tradizionali persistono in diverse regioni, mescolate ad elementi cristiani[3][4]. Le tradizioni religiose dei quechua sono condivise da altri gruppi e sottogruppi etnici delle Ande, in particolare quella per Pachamama, la Madre Terra, dea della fertilità in onore della quale vengono bruciate offerte e libagioni in maniera regolare. Anche gli apu, gli spiriti della montagna, occupano una posizione privilegiata nella tradizione andina, così come altre divinità minori locali che sono ancora venerate specialmente nel Perù meridionale.

Alcuni miti sono poi collegati al genocidio subito ad opera dei conquistadores spagnoli. In particolare quello di Nak'aq o Pishtaco, il macellaio, un assassino bianco che succhia il grasso fuori dal corpo degli indigeni che uccide. Nel mito di Wiraquchapampa, i Q'ero, descrivono la vittoria degli apu sopra gli invasori spagnoli. Dei miti ancora diffusi, quello di Inkarrí è particolarmente interessante e forma un elemento culturale di collegamento fra i quechua che abitano la regione compresa tra Ayachuco e Cusco. Un altro esempio tipico è quello del pellegrinaggio verso il santuario del signore di Qoyllur Rit'i, nella valle del monte Sinakara, vicino a Cusco, e che mescola elementi panteistici a motivi tipicamente cristiani.
Episodi di discriminazione

Ancora in tempi recenti, i quechua continuano ad essere vittima di conflitti politici e di persucuzioni etniche. Durante la guerra civile che ha insaguinato negli anni Ottanta il Perù, la lotta tra il governo centrale e i terroristi di Sendero Luminoso ha fatto innumerevoli vittime tra i civili. Secondo alcune stime i quechua hanno subito oltre settantamila morti, dove le parti in guerra hanno coinvolto prevalentemente creoli e mestizos.

La politica di sterilizzazione forzata, durante la presidenza di Alberto Fujimori, coinvolse quasi esclusivamente donne quechua ed Aymara su un totale di duecentomila trattamenti. Il regista boliviano Jorge Sanjines cercò di portare all'attenzione del grande pubblico la questione delle sterilizzazioni forzate già nel 1969 attraverso il film in lingua quechua Yawar Mallku.
Hilaria Supa Huamán, attivista quechua per i diritti civili e politica peruviana.

Una costante discriminazione etnica continua ad essere perpetuata anche a livello parlamentare. Quando i neoeletti membri del parlamento peruviano, Hilaria Supa Huamán e María Sumire, prestarono giuramento per il loro incarico in lingua quechua, il presidente del parlamento, Martha Hildebrandt, e il parlamentare Carlos Torres Caro rifiutarono il loro discorso di accettazione.
Caratteristiche somatiche

Tra i caratteri fisici più distintivi si possono citare: la carnagione bruno-olivastra, la testa grossa, la faccia ovale, la fronte convessa, le mascelle forti, gli zigomi sporgenti, gli occhi orizzontali, piccoli, neri con cornea giallastra e sopracciglia arcuate; i capelli neri, spessi, lunghi e lisci, la quasi totale mancanza di barba; i muscoli sviluppati, il petto largo, le estremità piccole, le caviglie sottili; una macchia dermopigmentata polimorfa temporanea sacro-coccigea.
Personaggi notevoli

Atahualpa Yupanqui, cantante e musicista argentino
Alejandro Toledo, primo Presidente del Perù di origine quechua
Martín Chambi, fotografo
Diego Quispe Tito, pittore
Túpac Amaru II, rivoluzionario
Tránsito Amaguaña, attivista ecuadoregna
Juan Santos Atahualpa, ribelle
Garcilaso de la Vega, storico peruviano
Simón Iturri Patiño, uomo d'affari boliviano
Hernán Huarache Mamani, scrittore peruviano
Doña Rosa Sisalima, famosa curandera ecuadoregna.



fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Quechua

 
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Quitu


I quitu erano gli abitanti originari della provincia del Pichincha, in Ecuador. Il loro stanziamento nella zona è testimoniato a partire dal 500 d.C. fino alla loro assimilazione da parte dei Quechua in epoca poco precedente alla conquista spagnola.

Storia

Le teorie archeologiche più recenti sostengono che nella zona di Quito fossero localizzate undici signorie (señoríos) indipendenti, che formavano un anello attorno a un centro di baratto e commercio. Anche se non esistono prove definitive, è possibile che queste signorie fossero confederate in quattro gruppi, tra i quali quelli del sud erano i più popolosi e organizzati. Sono stati evidenziati alcuni stanziamenti importanti, circondati da altri di minore rilevanza. Nella zona di Tumbaco erano stanziate le signorie di L'Inga, Puembo e Pingolquí; nella zona di Chillos quelle di Ananchillo (Amaguaña), Urinchillo (Sangolquí) e Uyumbicho; al nord quelle di Zámbiza (probabilmente stanziati dove oggi si trova lil distretto parrocchiale Zámbiza), Pillajo (nella zona di Cotocollao) e Collahuazo (vicino a Guayllabamba); nella zona di Machachi quella di Panzaleo. La relazione tra le signorie della regione di Tolgo non era gerarchica, ma basata su alleanze paritetiche nelle quali il baratto era fondamentale.

Vi erano importanti differenze culturali, demografiche, politiche e linguistiche tra le signorie. Ad esempio, le signorie stanziate nell'area dei Chillos disponevano di terreni ampi e piani, caratterizzati da alta piovosità, particolarmente adatti alla coltivazione di mais. Nel nord, la regione di Tumbaco è più secca e meno propizia per la coltivazione. Per questo motivo, l'area meridionale corrispondente alla valle dei Chillos era maggiormente popolata. Gli stanziamenti in questa zona (llactas) erano formati da gruppi tra le 500 e le 1200 persone, mentre in Tumbaco si limitavano a 350 persone.

Le signorie quitu erano caratterizzate da un alto sviluppo economico, sociale, politico e avevano raggiunto una notevole abilità ingegneristica, come testimoniano ritrovamenti archeologici quali le terrazze agricole nella zona del Pichincha, e sistemi di irrigazione di tipo Waru Waru nella zona di Turubamba e Iñaquito. La presenza di queste opere testimonia l'intensificazione dell'agricoltura, probabilmente allo scopo di sostenere la crescita demografica.

Dove oggi sorge la città di Quito si trovava un centro di commercio nel quale convergevano i mindalaes, che quotidianamente si mettevano in movimento dalle regioni abitate dai yumbos stanziati nel nord (Nanegal) e nel sud (Alluriquín), dai panzaleos (di Tumbaco), dei Quijos e degli Otavalos.[1]

I quitu potrebbero essere etnicamente imparentati con la Cultura di Cotocollao, cultura che si sviluppò tra il 1500 a.C.-300 A.C. Si suppone che la lingua parlata dai quitu prima dell'invasione incaica fosse l'idioma panzaleo. Questa supposizione è motivata da numerosi toponimi terminanti in: -(h)aló (Pilaló, Mulahaló); -leo (Tisaleo, Pelileo) e -ragua / -lagua (Cutuglagua, Tunguragua).[2]

I quitu, così come la vicina popolazione cañaris, tentarono di opporsi all'invasione inca proveniente da sud. Sul finale del secolo XV furono tuttavia conquistati dall'Impero Inca. Il processo di annessione politica dei quitu terminò con il matrimonio esogamico dell'Inca Túpac Yupanqui. Traccia delle popolazioni locali rimase nel nome del territorio, Quitu o Quito, che sopravvisse alla conquista degli incas e dei spagnoli.
Urbanizzazione

Rumicucho e Rumipamba sono due centri importanti della cultura quitu.
Regno di Quito

Nella sua opera Regno di Quito, scritta alla fine del XVIII secolo, il gesuita Juan de Velasco colloca la conquista dei quitu nell'anno 980 d.C.; Juan de Velasco definisce i quitu un popolo primitivo e mal governato.

Juan de Velasco scrisse la storia del regno di Quito basandosi sui racconti di alcuni indigeni quetchua nel secolo XVIII, ossia ben 230 anni dopo la conquista. A queste fonti orali aggiunse le informazioni provenienti dai libri, oggi perduti, del Padre Marcos di Nizza. L'opera non fu pubblicata che a metà del secolo XIX.

La storia narrata nel regno di Quito fu messa in dubbio approssimativamente un secolo fa dallo storico e sacerdote Federico González Suárez. Le sue osservazioni vennero sostenute in epoca più recente dallo storico e archeologo ecuadoriano Giacinto Jijón e Caamaño il quale, appoggiandosi su studi archeologici, sostenne che il regno di Quito non fosse mai esistito.[3]



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Saraguro

I Saraguro sono una comunità di Nativi americani stanziata in Ecuador. Abitavano le montagne della Sierra Equatoriana e più precisamente, la Provincia di Loja in Ecuador.

Lingua

I Saraguro parlavano la lingua Inca, suddivisa in vari dialetti a seconda dei villaggi.
Storia

I Saraguro furono probabilmente portati dalla Bolivia o dal Perù dagli Inca. Poi, con l'arrivo degli europei, i Saraguro vennero conquistati e sottomessi. Nel XX secolo i Saraguro cominciarono ad emigrare verso la Spagna in cerca di lavoro. Oggi questa tribù sopravvive sia in Ecuador, sia in Spagna, a Vera, nella Provincia di Almería.
Economia

I Saraguro basarono la loro economia sul turismo sostenibile e comunitario. Grazie a questa economia i Saraguro riescono a difendere varie specie di animali che vivono in Ecuador.
Voci correlate

Classificazione dei nativi americani
Nativi americani
Ecuador
Cantone di Saraguro



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Secoya

I Secoya (conosciuti anche come Angotero, Encabellao) sono un gruppo etnico indigeno vivente in Ecuador, nella regione amazzonica dei dipartimenti orientali, e in Perù. La popolazione di questa gente è stimata intorno a 297 persone in Ecuador (Vickers 1987), e circa 144 in Perù (SIL 1982). Parlano la lingua secoya, parte del gruppo linguistico Tuconoano. Condividono un territorio presso il fiume Shushufindi, Aguarico e Cuyabeno con i Siona, e vengono a volte considerati come un gruppo indigeno unico.

La gente Siona è organizzata politicamente. Sono stati in conflitto con la Occidental Petroleum a causa di scavi avvenuti nel Blocco 15 in Ecuador.[1]




fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Secoya

 
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Shuar


Gli Shuar o Jívaro sono una tribù indigena ubicata nel sud ovest della foresta Amazzonica, nella zona di Ecuador e una parte del Perù. I termini Jívaros o Jibaros sono dispregiativi, perché significano "barbari"; essi si autodefiniscono Nujínmanya Shiwiár (ossia Shuar) nella lingua Shuar, che veniva pronunciato Shiva o Shiua e significa "popolo"; vengono chiamati anche "difensori della natura"[1]. Il popolo Shuar è riuscito a resistere al dominio dell'impero Inca e a quello degli spagnoli. Attualmente si trovano a lottare per il proprio territorio e le proprie credenze contro l'occidentalizzazione e l'espansione delle multinazionali.

Abili guerrieri, usavano cerbottane, archi, lance e scudi e sono famosi per l'usanza di conservare rimpicciolite le teste dei nemici uccisi in battaglia, chiamate tsantsas, affumicate con un complicato procedimento.

Storia

Gli Shuar, già prima della conquista spagnola, occupavano la regione amazzonica e in particolare confinavano a ovest con l'Impero Inca. All'inizio del XVI secolo l'imperatore Inca Huayna Cápac cercò di conquistare la regione Bracamoros, ubicata a quei tempi nella parte superiore dei fiumi Zamora e Chinchipe. Il popolo Shuar però seppe resistere a tale minaccia, mettendo in fuga massiva tutto l'esercito comandato da Huayna Capac.[2]

L'Impero Inca non fu però l'unico interessato a dominare tale territorio. Dopo l'invasione spagnola e la sconfitta dell'impero Inca intorno al 1534, Hernando de Benavente scese fino alle rive del Rio Paute. Benavente si vide costretto a fuggire, insieme al suo esercito, dopo aver trovato gli indigeni del territorio, gli Shuar. Egli stesso scrisse una lettera alla Real Audiencia de Espana, cercando di giustificarsi poiché non riuscì a portare a termine la sua impresa.[3]

Dopo vari anni il Viceré del Perù, Antonio de Mendoza, intorno al 1552, decise di avviare una nuova spedizione[3]. Insieme a suoi uomini riuscì a stabilire un accordo con gli Shuar, basato sul commercio: tali trattati avrebbero aiutato i conquistadores ad addentrarsi nel territorio indigeno (in prossimità del Rio Paute, Zamora e Upano) per poi estrarre l'oro dalle miniere. L'avidità dei conquistadores, però li portò a pretendere un contributo in polvere d'oro dagli abitanti, sia dagli indigeni, sia dagli spagnoli stessi che “lavoravano” per il Governatore di Macas, come dimostrazione di fedeltà al re.

Questo, provocò l'immediata ribellione sia tra i nativi sia tra i coloni; a questi ultimi, che nominarono diversi rappresentanti, il Governatore rese il contributo volontario; gli Shuar, però, non furono informati di questa notizia e la cosa scatenò una violenta ribellione contro gli spagnoli.

Gli Shuar uccisero i colonizzatori, nelle loro stesse case. Il governatore, si racconta, fu condannato a una tragica morte: gli fu fatto ingoiare oro fuso.[3] Fu così che xìbaro (e poi jìvaro) divenne un termine significante selvaggio, barbaro; il terrore provocato dalla notizia di tale impresa, in realtà probabilmente un topos rappresentativo della ferocia degli indigeni, si sparse con il nome di chi l'avrebbe compiuta.

Da quel momento solo qualche missionario, come il gesuita Juan Lorenzo Lucero, si avventurò in nelle zone shuar, spesso con esiti infausti; solo nel 1767 una spedizione di missionari spagnoli ricevette doni dagli Shuar, incluse alcune teste di bianchi uccisi nelle precedenti spedizioni[3]. Fino al 1870, quindi, Macas rimase l'unico insediamento bianco in terre ostili; attraverso il lungo e pericoloso sentiero prima citato che portava a Riobamba, riuscivano a procurarsi machete, asce, armi e tutti i beni necessari alla comunità; furono ripetutamente attaccati dai guerrieri indigeni e diverse volte dovettero ricostruire il loro insediamento; ma il possesso delle armi da fuoco rese possibile la loro sopravvivenza finché verso la metà del XIX secolo non iniziò un pacifico commercio tra le due popolazioni che consisteva soprattutto in scambi di maiali per armi e attrezzi.[2]

Il commercio tra gli abitanti di Macas, e gli Shuar aumentò al punto che alcuni di questi ultimi cominciarono a fare da mediatori. Dopo l'arrivo dei gesuiti e la divisione del territorio in provincie, le quali furono spartite tra Francescani e Domenicani nel 1887, tocco ai Salesiani addentrarsi all'interno del territorio, oramai non più del tutto Shuar. Essi fondarono le prime missioni nelle vicinanze del Rio Paute intorno al 1924 e rimarranno lì per vari decenni questa volta però cercando di creare una vera e propria comunità di tipo cristiano[3] Fu proprio partendo dalla missione di Macas che il salesiano di origine italiana (Parma) don Angelo Rouby, divenne l'amico del popolo Shuar allora forzatamente costretto a ritirarsi in un territorio sempre più limitato per l’avanzare dei coloni bianchi che miravano a fare schiavi. Don Rouby, cui è attualmente dedicato l'omonimo villaggio oltre il fiume Upano, fu il primo a imparare perfettamente la lingua Shuar, con la quale aveva costruito legami profondi con gli abitanti delle foreste, e quindi anche a metterla per iscritto romanizzandola, e compilandone la grammatica, la sintassi e il vocabolario. Divenuto uno di loro, ne curò gli ammalati, rappacificò odi inveterati e impedì le frequenti rivalità fratricide facendosi amare da tutti, finché nel 1939 fu riconosciuto dal governo dell’Ecuador come proprio inviato, per riportare pace nella zona e consentire ai Kivari di reggersi autonomamente, mediante la concessione di un’area protetta (reducción) che impedisse ai bianchi di entrare per qualunque motivo. Risulta che fosse proprio il governo a finanziare con una somma ragguardevole l’ultimo viaggio del Rouby, necessario per esplorare le zone interne del Paese e fissare la delimitazione dei confini del nuovo territorio. Ma fu proprio in questo viaggio che le acque del fiume Yaupí-Unta-Mangosiza travolsero la canoa sulla quale don Rouby che aveva allora 31 anni ed era partito da Macas il 14 agosto viaggiava, facendolo scomparire tra i flutti insieme al confratello laico salesiano Isidoro Bigatti. Il Senato dell’Ecuador e il presidente della Repubblica ecuadoriana lo commemorarono con parole di grande stima.
Territorio

Gli Shuar attualmente, si ubicano nella regione Oriente dell'Ecuador e una parte nel Perù settentrionale, sui pendii delle Ande sudorientali e nel bacino dei fiumi Marañón, Santiago e alto Pastaza, una parte della comunità arriva fino al parco nazionale Yasunì.

Dalla metà del novecento l'autonomia culturale degli Shuar e i loro diritti sulla terra sono stati messi in pericolo dai programmi nazionali e regionali di colonizzazione nel territorio di loro tradizionale appartenenza. Per far fronte a questa situazione è stata costituita nel 1964 la Federazione dei centri Shuar con l'aiuto dei missionari salesiani.[4]

Uno dei pericoli fondamentali che devono affrontare le diverse culture oltre a quella degli Shuar e le milioni di specie animali e vegetali dell'Oriente ecuadoriano è senza dubbio la minaccia petrolifera da parte delle multinazionali, che cercano di sfruttare il suolo senza tener conto delle conseguenze ambientali che possono causare.[5]

Varie iniziative sono state create per difendere l'ecosistema, cercando di lasciare il petrolio sotto terra, la più importante è stata l'iniziativa Yasuní-ITT, la quale sin dal 2013 ha iniziato a perdere posizione, poiché il presidente dello stato nazionale ecuadoriano Rafael Correa ha deciso di portare avanti un progetto di sfruttamento del petrolio amazzonico, sostenendo che potrebbe portare benefici economici a tutto il Paese.[6]

“Gli Shuar hanno deciso di prendere in mano il problema e affrontarlo come guerrieri difensori della natura”[1] e loro fanno ricorso anche a una lotta estremista, insieme ad altre tribù della zona in questione.
Economia

Gli Shuar si occupano del settore economico primario e secondario, consumano ciò che producono. Praticano la caccia e l'orticultura, la quale è uno dei principali ruoli della donna all'interno della comunità poiché i prodotti che vengono ricavati non servono soltanto alla propria famiglia, essi sono un bene comune. I prodotti principali che vengono ricavati sono la manioca, il mais, i fagioli e la patate dolci. Questi vengono scambiati reciprocamente tra i diversi membri della comunità e costituiscono uno dei principali mezzi di sussistenza.[1][4] Negli ultimi decenni del novecento è stata introdotta la moneta come mezzo di scambio ma la maggior parte preferisce continuare con lo scambio reciproco dei prodotti ovvero il baratto.
Religione

Gli Shuar seguono un profondo cammino spirituale pagano e politeista, ricco di miti e storie; le loro credenze si basano sugli spiriti che governano le leggi della natura, la volontà degli uomini e le loro vite quotidiane. Secondo il modello cosmologico degli Shuar, l'universo è diviso in cielo, terra e sottosuolo. La terra è un'isola dove prevalgono le lotte e le guerre, cagionate dall'uomo. Il cielo è il mondo di un essere potente, Ayumpùm, padrone della vita e della morte. Nel cielo vivono anche il sole, Etsa, i cui poteri aiutano gli uomini nella caccia, e Shakaim che dà agli uomini la forza per svolgere il loro lavoro nella foresta ed ha insegnato loro a costruire le case, a tessere, a seminare il mais e a tagliare la foresta. Si pensa che nei primi tempi una liana connetteva il cielo e la terra permettendo agli uomini di viaggiare fra i due mondi. Il sottosuolo è il regno di Nunkui, che è il responsabile dell'abbondanza nell'orticultura e grazie al quale la donna shuar imparò a partorire e a lavorare.[4]

Oltre alle figure già citate esistono anche: Tsunki il cui potere prevale sull'acqua e aiuta gli uomini con la pesca e Shakaim invece è l'incaricato della terra e del lavoro agricolo. Il male viene rappresentato da Iwia e poi ci sono anche gli Arùtam. Insieme sono una potenza divina immensa che permea l'Universo e la Terra, che produce effetti concreti e che modella questa realtà. L'Arùtam assume forme diverse in questo mondo, e ciascuna ha con sé differenti Poteri e che pure vengono chiamate "gli arútam". Gli arútam sono in un certo senso degli dèi primordiali che governano il potere, la fortuna e la sfortuna, la felicità e l'infelicità degli esseri viventi. Gli arútam assumono le forme di alcuni animali della Selva Amazzonica o di altri poderosi fenomeni naturali, come il fulmine e l'uragano, sono anche gli antenati degli Shuar che si mantengono in continuo contatto con gli uomini.[7]

Il momento più importante a livello spirituale per lo Shuar avviene quando egli va in cerca dei propri antenati alla Cascata Sacra, in quel momento gli arútam entrano in contatto diretto con lo Shuar.
Il concetto di anima

Secondo gli Shuar, oltre all'anima vera, detta nekás wakán (nel cristianesimo sarebbe l'anima ordinaria), che ci accompagna fin dal principio e con cui ci identifichiamo, ce ne sono almeno altre due che si creano in determinate condizioni.

Una è detta muísak wakán (wakán o wakáni significa "anima, ombra, immagine") ed è un'anima di vendetta. Si genera pochi giorni dopo la morte, se la persona è stata uccisa. Va in cerca di compensazione e desidera uccidere a sua volta l'omicida. Ha soltanto il desiderio di vendicarsi e non possiede nessun tipo di ricordo tranne quello della propria morte mediante il quale riesce a trovare l'aggressore.[8]
La seconda delle "anime acquisite" è chiamata arútma wakán, "anima dell'arútam", poiché è paragonata al potere dell'arútam. Consiste nel dono di un antenato. Questo dono viene consegnato a uno degli uomini Shuar durante un rituale. Se ad esempio otteniamo l'arutam del Giaguaro, significa che un nostro antenato in una delle sue esistenze è stato un Giaguaro e dispone del potere di quell'arútam.[7][8]

Riguardo alla morte, egli pensa che una volta che il corpo inizia a scomporsi anche lo spirito lo fa. Esiste un confine tra la pelle del corpo umano e quello spirituale per cui quando la pelle inizia a consumarsi col passare del tempo anche lo spirito si consuma in pari misura. Anche l'anima, non più tenuta insieme dal corpo spirituale, percorre destini diversi. Corpo e anima diventano polvere ma l'anima è in grado di risalire sulla terra sotto forma di vita animale o umana ovvero si reincarna.[8]
L'inculturazione

La fede degli Shuar ha subito una mutazione notevole a causa di un processo di evangelizzazione e di inculturazione tra le popolazioni indigene. Questo processo normalmente permette uno scambio e arricchimento “reciproco” tra culture diverse che si incontrano, in questo caso non è stato di tipo reciproco poiché gli unici a subire una modifica delle proprie credenze sono stati gli shuar. Il tentativo è quello di legare le credenze ancestrali al cristianesimo, arricchendo questa fede di elementi tradizionali autoctoni. Ecco che la traduzione del Vangelo nella lingua indigena e la lettura dei miti in chiave cristiana producono una nuova cultura, in cui la Santa Trinità occupa il primo posto. Questa strada si è intrapresa con decisione nella Chiesa dopo il Concilio Vaticano II, prima era la Santa Inquisizione ad imporre i propri riti occidentali.

La nuova via è appunto quella di utilizzare e di “valorizzare” la cultura religiosa locale, sicché anche i miti indigeni sono trasformati in storie di salvezza. Il Cristianesimo non è più allora una religione degli stranieri, ma entra nella comunità, diviene una dimensione che gli appartiene.[9]
Società

Il nucleo sociopolitico fondamentale nella cultura tradizionale shuar è la famiglia. Prima la famiglia era composta da un uomo, le sue mogli e i suoi figli, potevano aggiungersi i genitori dei coniugi, i mariti delle figlie e i parenti orfani. Era comune praticare la poligamia e durante i primi anni di matrimonio la residenza era uxorilocale (che si stabilisce nel luogo di residenza della moglie). La poligamia non viene più praticata tranne che in pochi casi, l'insediamento della Chiesa nel territorio Shuar ha avuto una notevole influenza anche da questo punto di vista.

Tuttora, però, attraverso il matrimonio si formano alleanze tra differenti gruppi di famiglie anche se ogni famiglia deve sopravvivere con le proprie forze e le proprie capacità.

La divisione del lavoro è determinata dal sesso: le donne coltivano, preparano gli alimenti, accudiscono ai figli e producono ceramiche; gli uomini cacciano e pescano, possono avere il ruolo di sciamani, fanno la guerra, producono oggetti di legno e cesti, tessono e costruiscono le case. Nella società Shuar le attività neutre non esistono: ogni attività di qualsiasi tipo (produttivo, sociale o rituale) è assegnata ad un sesso specifico.[4][10]
La Jibaria

Jibaria è il nome con il quale veniva identificata la casa Shuar nella letteratura. La jibaria era un'ampia struttura di forma ovale in grado di contenere al suo interno una varietà di persone. La jibaria era più che una casa un habitat, poiché gli uomini stabilivano un rapporto con essa. Era considerata qualcosa di vivente, qualcosa che possedeva uno spirito e si pensava che avesse dei poteri soprannaturali così come gli animali o le piante. Sotto la costruzione venivano sotterrate ossa di animali per evitare che lo spirito della casa producesse dei danni agli abitanti.[2]

Era divisa in due settori al suo interno: il dominio femminile ovvero ekent in cui vivevano le mogli del proprietario, i figli e le figlie sposate e si attuavano le preparazioni del cibo e le cure dei bambini; l'unico uomo autorizzato ad entrare in questa area è il capo della famiglia, e tankàmash, il dominio maschile dove c'erano i letti, i beni del padrone di casa e dei suoi figli maschi adulti. Nel tankàmash si portavano avanti tutte le celebrazioni rituali, le sedute sciamaniche e in un certo senso tutte le attività che coinvolgevano ospiti. Gli uomini potevano decidere se dormire nell'ekent oppure da soli nel tankàmash.[4]

Rappresentava anche una specie di modello dell'universo secondo la cosmologia Shuar. Il tetto della casa rappresentava il cielo, lo spazio interno della casa la terra. Il sottosuolo era simboleggiato dal terreno su cui poggiava e dagli orti che circondano la jibaria. Il pau, ovvero il palo centrale della casa, rappresentava la liana che collegava i due mondi nel passato, il cielo e la terra.[4]
Centro Shuar
Comunità Shuar nell'attualità

Il centro Shuar è in sé una comunità composta da varie famiglie, possono arrivare fino ad un totale di 40. È nato negli anni sessanta per mano dei missionari salessiani. Il Centro Shuar è uno spazio collettivo in cui si trovano: la scuola, la chiesa e una casa comunale.[4] Dopo gli anni sessanta le tradizioni, le credenze, e l'educazione degli Shuar ha subito un forte cambiamento a causa dell'occidentalizzazione. Le case delle singole famiglie sono disperse nella comunità, c'è anche un notevole spazio dedicato alla coltivazione e al pascolo (l'allevamento non era prima praticato dagli Shuar). Ogni centro appartiene a una associazione di Centri Shuar che costituisce un'unità amministrativa più vasta; è amministrato dalle autorità ed è affiliato alla federazione Shuar.

Le attività rituali non avvengono più all'interno della struttura domestica (la jibaria), quindi non è più necessario costruire case capaci di contenere un ampio gruppo di persone, anche perché non è più usuale portare avanti i rituali all'interno delle proprie case.

Con la creazione di queste nuove comunità cambia anche la formazione della famiglia, mediante l'avvenire della monogamia si attua, quindi, anche la riduzione dello spazio, le case vengono ridotte a uno spazio necessario per una donna e i suoi figli. Vengono costruite anche scuole che si sovrappongono alla funzione educatrice dei genitori e degli anziani e, in tal modo, la scuola sostituisce la casa come punto focale delle attività educative.[4]

Gli effetti della modernizzazione hanno penetrato in tutte le aree della cultura Shuar. Negli anni sessanta del novecento i missionari salesiani, arrivati e insediati nel territorio Shuar, pensavano che gli indigeni fossero un popolo che avesse bisogno di un'istruzione di tipo scolastico, per cui prendevano i bambini Shuar e li portavano via dalle proprie case e dalle loro famiglie, essi venivano internati e ricevevano un'educazione cattolica. Questo è stato uno dei fenomeni principali causa della perdita delle tradizioni del popolo Shuar. Inoltre il nucleo comunitario ha sostituito la famiglia estesa come base dell'organizzazione sociopolitica, la moneta è diventata il mezzo di scambio e l'origine di molte rivalità all'interno della comunità stessa e, oltre a quanto già detto, i prodotti provenienti dalle grandi industrie hanno sostituito i prodotti artigianali, è cambiato anche il modo in cui vengono costruite le case, in esse vengono adoperati chiodi di ferro e tetti di zinco.
Medicina

Lo sciamano nella cultura Shuar così come in altre culture native di America rappresenta uno degli enti più importanti di ogni società, lo sciamano (Uwishìn in lingua Shuar) è l'incaricato di stabilire un contatto tra il mondo terreno e quello ultraterreno, possiede dei poteri che vengono accompagnati da un'ampia gamma di conoscenze.[7] Più esattamente però l'aspirante sciamano acquisisce nel primo periodo dei poteri con poche scarne istruzioni su cosa farne e nessuna informazione su cosa essi siano in realtà. In seguito avrà delle istruzioni più approfondite sul Potere che ha acquisito e sta acquisendo, le istruzioni che nascondono dei segreti di cui, l'uomo Shuar, non è ancora consapevole. Solo nell'ultimo periodo, quando già da tempo si sta esercitando, spiriti di grande forza e saggezza gli si presenteranno e gli daranno la vera, completa sapienza sciamanica. Durante questo processo di acquisizione del Potere, alla fine del quale lo sciamano riceverà la sabiduria (sapienza) da parte dei grandi spiriti, lo Shuar si reca nella natura per lunghi periodi, in questo tempo lui riesce a capire la relazione esistente, a livello spirituale e materiale, tra uomo e terra.[8]

Per gli Shuar così come per altre culture, l'origine di tutte le malattie sono di origine spirituale. Esse, nel caso della cultura Shuar, provengono da un'Altra Realtà, possono essere “manipolate” però dall'Uwishìn, durante il processo di cura del “paziente”, l'Uwishìn porta con se i Tunchi ovvero una specie animale, solitamente insetti i quali vengono considerati aiutanti dello sciamano, ma non solo, possono svolgere anche una funzione protettiva dettata da chi è nel suo possesso, oltre ai Tunchi lo sciamano tende a invocare l'aiuto dei Pasuk ovvero spiriti che guidano l'Uwishìn a trovare un'anima smarrita oppure l'origine di qualche male.[7]

Per portare avanti la guarigione lo sciamano, per riuscire ad invocare gli spiriti aiutanti e protettori, porta avanti una sorta di rituale, perciò lui utilizza una determinata serie di piante ed altri materiali. Questo è il motivo per cui lo sciamano deve avere un'ampia conoscenza del territorio e della natura. [8] Il vero scopo dello sciamano però non è in se la guarigione fisica del singolo individuo ma bensì è quello di aiutarlo a trovare (o ritrovare) un senso nella propria vita, per far passare il volere buono degli spiriti più alti entrando in equilibrio coi propri avi e i propri discendenti, con la propria comunità, con gli uomini, gli esseri viventi e con tutto il cosmo. A questo equilibrio appartiene anche la guarigione fisica. In molti casi si parte da quella per dare un segno alla persona su quale sia la via da seguire, in altri casi invece la guarigione a un malessere non viene considerata opportuna o necessaria.
Tsantsa
Tsantsa o Cabeza Reducida nel Museo Pitt Rivers, Oxford

Una delle caratteristiche principali della cultura Shuar è il rituale della testa ridotta, ovvero la tsantsa. Attualmente il rituale della tsantsa avviene molto raramente poiché le leggi dello stato nazionale dell'Ecuador lo vietano, ma non solo, questa tradizione è stata persa a causa dell'intervento dei salesiani nella comunità Shuar che ritengono questo rituale barbaro e senza senso così come il resto del mondo occidentale.

Il rituale poteva avvenire soltanto per mano di un guerriero di grande coraggio e con un'ampia preparazione, non tutti potevano farlo. Per gli antichi guerrieri della cultura Shuar tagliare la testa al nemico di un'altra tribù simboleggiava la fine della guerra tra di esse. La testa veniva utilizzata come trofeo ma la ragione principale per cui veniva portato a fine questo rito, era perché si pensava, e si pensa tuttora, che lo spirito del nemico continuasse a vivere anche dopo la morte fisica della persona, uno spirito in grado di tormentare chi l'ha ucciso e la comunità intera, per cui lo spirito vendicatore doveva venire imprigionato dentro la propria testa. Il rituale avveniva nel seguente modo: dopo aver ucciso il nemico il guerriero Shuar procedeva a tagliare la testa, a separare il cranio dalla pelle e di conseguenza a levare tutti gli organi interni (cervello, occhi ecc...). Per riuscire a levare il cranio e gli altri organi veniva fatto un taglio nella parte posteriore della testa, dopo di che veniva ricucito, così come gli altri fori restanti (occhi, orecchie e bocca). A questo punto all'interno della borsa di pelle veniva inserita una roccia tonda di dimensioni ridotte. La testa a questo punto veniva sommersa dentro un recipiente con acqua bollente ed erbe aromatiche. Questo rituale veniva accompagnato da una serie dei canti spirituali e avveniva in un luogo nascosto all'interno della giungla. Più tardi veniva cambiata la roccia per una di dimensioni ancora più piccole. Finalmente si tingeva la testa di nero con carbone e dopo essersi asciugata essa diventava di una consistenza simile a quella del cartone. Col passare del tempo i capelli della tsantsa continuavano a ricrescere anche se di poco e conservava i lineamenti originali del volto.[11]

La tsantsa suscitò un forte interesse negli etnologi, antropologi e collezionisti, arrivando al punto di creare un vero e proprio mercato nero di tsantsas. Per un certo periodo gli Shuar erano disposti a uccidersi a vicenda pur di soddisfare la domanda degli interessati, che senza scrupolo acquistavano questi simboli spirituali come oggetti di collezione.
Artigianato

Tra gli Shuar una delle attività di più alto rilievo è quella del tessuto. Diversamente dal mondo occidentale, nel mondo Shuar chi si occupa di questa funzione è il maschio. Grazie ai diversi macchinari creati da loro stessi, in modo naturale, essi sono in grado di produrre non soltanto i propri vestiti ma anche prodotti di uso quotidiano per la pesca, come per esempio le reti, o per la raccolta dei prodotti agricoli. Insieme a tessuti vengono impiegate anche le pellicce degli animali le quali prima di essere utilizzate devono essere ben asciutte grazie a dei grossi rettangoli di legno sui quali la pelle viene appoggiata e lavorata. I fili impiegati vengono ricavati dalla pianta di cotone (uruch). Quando il cotone viene radunato in quantità sufficiente esso viene avvolto con foglie di diversi tipi, dopo di che il tutto viene legato. I fili prodotti dal cotone si arrotolano intorno al chimpì, ovvero un palo di legno la cui dimensione varia dai 50 ai 60 centimetri, dopo di che si creano i tessili impiegando diverse tecniche di nodi.[12]
Diffusione nella cultura di massa
Degli Shuar parla lo scrittore Luis Sepúlveda nel suo romanzo Il vecchio che leggeva romanzi d'amore, in quanto il protagonista Antonio José Bolivar ne entra in contatto imparandone tradizioni e metodi di caccia. Nello stesso libro viene citato il rituale Tsantsa.


https://it.wikipedia.org/wiki/Shuar
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Siona

I Siona (o anche Pioje) sono un gruppo etnico della Colombia e dell'Ecuador, con una popolazione stimata di circa 550 persone (300 in Colombia e 250 in Ecuador). Questo gruppo etnico è principalmente di fede cristiana e parla la lingua Siona (codice ISO 639: SIN).

Vivono lungo il fiume Putumayo. I Siona in Ecuador si considerano a tutti gli effetti colombiani. Distinti dai Siona-Secoya.



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Tigua (Ecuador)

Tigua è una comunità nativa delle Ande dell'Ecuador, appartenente al gruppo indigeno più numeroso dell'America meridionale attuale, i Quechuas, sparsa nelle immediate vicinanze del lago formatosi nel cratere del vulcano Quilotoa (3914 m), circa 150 km a sud ovest di Quito, la capitale dell'Ecuador.

Note etniche e artistiche

Alle altissime quote dove la comunità Tigua risiede fin oltre i 4000 metri, la natura è severa, il paesaggio imponente, il cielo particolarmente azzurro e le piogge violente.

I Tigua sono agricoltori e allevatori di pecore e capre. Coltivano i terreni inclinati senza terrazzamenti, creando una sorta di patchwork di una vasta gamma di colori: verdi le foglie di patata e melloco, un tubero locale, gialle le segale, rossa la quinoa, un cereale nutriente.

Abitano edifici (chiamati chucllas) costruiti con mattoni in argilla cruda essiccati al sole (chiamati abobe) e tetti in paglia.

La comunità agricola di Tigua si formò nel 1945 e la riforma agraria varata in Ecuador negli anni '60 non ebbe effetti rilevanti: le condizioni di vita non migliorarono e molti contadini e pastori emigrarono. Alcuni si trasformarono in musicisti e formarono piccole bande di suonatori di bombos (grossi tamburi) e rondadores (flauto di pan).

Nell'ambito di queste nuove professioni prese vita l'attività artistica che rafforzò l'identità e diede notorietà alla comunità: quella della pittura su pergamena di pecora[1].

«Si ritiene che sia stato uno di questi transumanti coatti – bracciante, mercante, musico e quant'altro gli permette di sopravvivere – il primo a dipingere un quadro di Tigua. Il suo nome è Julio Toaquiza[2] (classe 1946)… Lo stesso Julio racconta che, in una certa occasione, acquistò per le sue rappresentazioni musicali un tamburo in pergamena di pecora, dipinto con scene popolari, come lui le definisce. Incuriosito per l'interesse che lo strumento suscitava tra alcuni collezionisti di oggetti folcloristici, comprò altri tamburi per rivenderli e imparò lui stesso a dipingerli.»[3]

Julio Toaquiza entrò in contatto con Olga Fisch, un'artista ungaro-ebrea residente a Quito, impegnata a promuovere e commercializzare l'artigianato artistico ecuadoriano. Ella fece comprendere le limitazioni commerciali dei tamburi voluminosi, suggerendo di dedicarsi alla medesima pittura su quadri, facilmente trasportabili.[4]

Alla fine degli anni '70 i quadri di Tigua, eseguiti quasi sempre con smalti commerciali su pergamene rustiche in pelle di pecora, provvisti di cornici dipinte con motivi geometrici o floreali, iniziarono a destare interesse. Il Museo de Artesanias di Quito organizzò varie esposizioni su questo tipo di arte, successivamente definita primitivista. Nel 1980 al Salon Nacional de la Casa de la Cultura in Quito, i quadri di Tigua vinsero un premio speciale della giuria e iniziarono a riempire le gallerie. Mai in precedenza, comunità indios dell'Ecuador si erano occupate di pittura.

"L'arte di Toaquiza ha reso celebre Tigua, e oggi sono più di 300 i pittori all'opera sugli altopiani, con circa 20 atelier nella sola Tigua".[5]
Caratteri della pittura di Tigua

I dipinti di Tigua raffigurano la vita quotidiana della comunità contadina impegnata nei lavori agricoli e domestici, unitamente alle ricorrenze sacre e profane (il Natale, l'Inti Raimi festa del Sole), ai rituali e alle leggende (leggenda del Condor) che costituiscono il patrimonio culturale e l'insieme delle credenze locali. Con colori forti e vivi, trasmettono sensazioni di gioia e di allegria, perché la terra produce alimenti e rigenera la vita.

«Il paesaggio è raffigurato con assenza totale di prospettiva e di proporzioni e da un punto di osservazione fisso. Tutto si trova a livello dello spettatore , come se molti occhi osservassero la scena nello stesso momento e si mantenessero di fronte alle figure»[6] una persona può essere molto più grande di una casa o di un albero. Ogni dipinto, pienissimo in ogni angolo di personaggi e figure, è un racconto collettivo che giunge a rivelare l'intimo legame che unisce il simbolismo religioso precolombiano (l'atto creativo della Pacha Mama, la Madre Terra, oppure il volto attribuito allo spirito delle montagne conosciute e amiche) con l'ambiente naturale.

«I pittori primitivisti di Tigua... rappresentano il loro paesaggio solitario, i loro costumi, il loro folclore.»[7]

Dipinti corali realistici e concreti nei propositi dei pittori, ma che appaiono come metafore magiche dell'esistenza. «Ogni particolare dei dipinti pulsa di vita e ogni elemento del paesaggio ha uno spirito che si esprime come volontà autonoma, che trascende il pensiero degli uomini e, con il suo accadere, anima il territorio e genera lo stupore. Per i pittori di Tigua l'arte è strettamente legata al destino della comunità, perché è parte della vita stessa.»[8]

«Los temas representados con mayor frecuencia son las fiestas religiosas, las actividades cotidianas tradicionales y el ciclo vital, pero también encontramos Tambor en proceso de creación con decoración de danzante. Temáticas más reivindicativas, como los levantamientos indígenas. En definitiva, son obras en las que aparecen reflejadas la cultura y cosmovisión kichwas, y su tradicional modo de vida.»[9]
Pittura Tigua in occidente
Molto amati e collezionati dai maggiori pittori indigenisti dell'Ecuador, come Eduardo Kingman e Oswaldo Guasyasamin, i dipinti di Tigua sono stati presentati per la prima volta in Italia alla fine degli anni '90, in occasione della mostra curata da Lorenzo Bersezio e Maria Augusta Perez per il Museo Nazionale della Montagna con il titolo Ecuador - le Ande dipinte. La mostra è stata allestita in Torino dal dicembre '98 al febbraio '99, a Courmayeur (marzo 2000), Breuil Cervinia (estate 2000) e successivamente a Locarno in Svizzera e al forte di Exilles.



fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Tigua_(Ecuador)

 
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Tsáchila


Gli Tsáchila sono un popolo indigeno che vive nelle province di Santo Domingo de los Tsáchilas e di Esmeraldas in Ecuador.

Tradizioni

Gli uomini vestono semplicemente con un mantello e un gonnellino, gli indumenti delle donne sono maggiormente colorati e decorati con frange.
Leggenda sull'origine degli ornamenti

Gli uomini di questo gruppo etnico sono facilmente distinguibili per i vestiti che portano e per la propria pettinatura, che consiste nel tagliarsi i capelli completamente nelle zone temporali e lasciare alla fine una sorta di caschetto nella parte superiore della testa. Utilizzano grassi animali e il frutto di achiote per colorare i capelli di rosso. Questa usanza deriva da una tradizione che narra di un santone del passato che, per curare un'epidemia, venne guidato da uno spirito verso una pianta di achiote e spinto a coprirsi interamente con il succo del frutto. Dopo vari giorni i casi di morte diminuirono e venne così portata avanti la tradizione di coprirsi col succo di questo frutto.

Gli Tsachilas si dedicano soprattutto alla raccolta di frutta e di medicine naturali, queste ultime usate da tempi remoti per curare varie malattie, quando non esistevano altre medicine. Gli ecuadoriani riconoscono che questi indigeni sono perfetti conoscitori di queste medicine alternative e naturali.
Lingua

Gli Tsáchilas parlano una lingua denominata tsafiki o tsáchila.
Storia
Dall'epoca coloniale, gli Tsáchilas vennero chiamati "Colorados" dagli stranieri, spagnoli in particolar modo, per via dei capelli tinti di rosso e al vestiario colorato. In onore di questo popolo la città di Santo Domingo de los Colorados, dove peraltro vive la maggioranza di questo popolo indigeno, prese il suo nome attuale.



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Waorani

I Waorani o Huaorani o Waodani (in passato Aucas) sono una popolazione amerinda dell'Ecuador, precisamente della zona del Curaray, costituita da circa 2500-3000 individui.[1][2] Nella loro lingua il loro nome significa: Siamo persone[3], mentre le loro terre d'origine sono quella tra il fiume Curaray e il fiume Napo, circa 80 km a sud di El Coca, a partire dagli anni settanta hanno iniziato a disperdersi uscendo dalle zone protette messe a disposizione dal governo. Si muovono continuamente in più aree isolate, attraversando anche i confini peruviani. Vivono di caccia e pesca, anche se negli ultimi anni l'arrivo delle compagnie petrolifere ha spinto alcuni di loro a uscire dalle comunità e lavorare per i petrolieri, mentre sono aumentati i matrimoni tra donne Wao e i Quechua.[3]

Si dividono in numerosi gruppi, come i toñampary, quenahueno, tihueno, quihuaro, damointaro, zapino, tigüino, wamono, dayuno, quehueriuno, garzacocha (Presso il Rio Yasuní), quemperi (Rio Cononaco), mima, Caruhue e Tagaeri.[4]


https://it.wikipedia.org/wiki/Waorani
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