IL FARO DEI SOGNI

Amazzonia – L’origine della notte

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view post Posted on 2/1/2024, 10:05     Top   Dislike
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tre-vecchie




All’origine dei tempi, la notte non esisteva. Il sole andava e veniva continuamente, gli uomini non lavoravano e dormivano in piena luce.
Un giorno tre ragazze sconsiderate e ribelli videro uno Spirito acquatico, di sesso femminile, che rapiva sotto i loro occhi un indio di nome Kadaua. Esse andarono per trattenerlo, ma la corrente le trascinò via e tutta la popolazione del villaggio, accorsa in aiuto, cadde nell’acqua dietro a loro e perse la vita, eccetto tre vecchie che erano rimaste tre-vecchiesulla riva.

Queste tre vecchie scorsero Kadaua che galleggiava in compagnia di una delle ragazze e gli gridarono di portarla a terra. Kadaua tornò a riva e affidò la ragazza scampata alle vecchie, giusto il tempo di andare a prendere le altre che si ostinavano a rimanere in mezzo al fiume.
Le vecchie ne approfittarono per consigliare alla ragazza di fuggire. Le dissero che Kadaua non aveva mai amato una donna, e che anche loro, un tempo innamorate di lui, erano state condannate proprio da lui a diventare decrepite.
La ragazza ascoltava senza rispondere.

Frattanto Kadaua cercava di raggiungere le altre due a nuoto, ma quelle non riconoscevano più la sua voce e fuggivano da lui. Alla fine annegarono, entrambe.
Kadaua tornò indietro piangendo. Uscì dall’acqua e vide la sua graziosa protetta che piangeva anche lei. A lui che gli chiedeva perché piangesse, la ragazza spiegò che temeva di invecchiare al suo avvicinarsi, come era accaduto alle tre donne che l’avevano preceduta.
Kadaua assicurò che non era mai stato il loro amante, ma quelle lo accusarono a loro volta di indifferenza verso le donne e, a questo punto, si precipitarono sull’eroina e le strapparono tutti i capelli.

La ragazza si gettò nell’acqua. Kadaua la seguì, mentre le vecchie si trasformavano in sarighe.
L’indio nuotava dietro alla ragazza, talmente vicino che le poteva sfiorare i calcagni. Ma quella conservava il suo vantaggio.
Nuotarono così per cinque lune. Kadaua a poco a poco perdeva i capelli, mentre quelli della fuggitiva rispuntavano tutti bianchi. Alla fine capitarono tutt’e due su un argine.

Böcklin-tritone-nereide

«Perché mi sfuggì», le domandò Kadaua.
Essa rispose che si comportava così per il timore che i propri capelli diventassero bianchi. Ma, poiché l’irreparabile era ormai accaduto, poteva farsi raggiungere; ma dov’erano finiti i capelli di Kadaua?
Egli si accorse allora di essere calvo, e ne dette la colpa all’acqua. La ragazza replicò che l’acqua aveva saputo «lavare» la sua «infamia», rappresentata dal «nero» dei suoi capelli, e che da allora in poi entrambi avrebbero dovuto vivere e farsi vedere in quello stato. Che Kadaua tornasse pure al villaggio: le sue amanti avrebbero riso del suo cranio pelato!

Ma l’uomo non la intendeva così: «È per causa tua – disse alla sua compagna – se l’acqua mi ha portato via i capelli. Fammeli rispuntare!».
«Sta bene – rispose la ragazza – ma a patto che tu mi faccia ritornare neri i miei, come erano prima che le tue amanti me li strappassero!».
Così litigando, avevano fatto un buon tratto di strada e finalmente arrivarono a una grande capanna vuota dove fecero cuocere e mangiarono il cibo che vi si trovava. Ed ecco apparvero i proprietari. Erano il padre e la madre della ragazza, che però non la vollero riconoscere a causa dei suoi capelli bianchi, e presero in giro con malanimo il Peters-capanna-incendio-lunacranio calvo del suo compagno. Kadaua si sentì così avvilito che dormì per due giorni di seguito.

Passarono altri due giorni e le due coppie si misero in cammino per il villaggio di Kadaua, con la speranza che le tre vecchie amanti guarissero i due giovani.
Ma la loro capanna mandava un odore così cattivo che non avevano il coraggio di entrarvi. All’interno, le vecchie gridavano «ken! ken! ken!» come fanno le sarighe. Kadaua appiccò il fuoco alla capanna e si sentì un odore acuto di bruciato.

«Mi incendi i capelli!», protestò la ragazza. E proprio in quel momento il giorno scomparve e regnò una densa notte, mentre il calore faceva scoppiare gli occhi delle sarighe.
Ben presto delle faville lucenti salirono al cielo e vi si fissarono. Kadaua balzò nella capanna, dove sperava di trovare la capigliatura della sua compagna; lei lo seguì con i genitori, ma tutt’e quattro furono preda delle fiamme.
I loro corpi esplosero e volarono fino al cielo dove, da allora, un fuoco e una brace incandescente abbelliscono la notte.

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L’interpretazione di questo solleva varie difficoltà.
Anzitutto, la storia narrata è assai complessa; inoltre ignoriamo la sua provenienza. […] Condurremo dunque il nostro ragionamento con prudenza, contentandoci di sollevare certi aspetti del mito, primo fra tutti l’uso che esso fa di una doppia triade femminile.
Questo motivo richiama la triade maschile di servi che compare in un mito Toba, anch’esso sull’Origine della Notte, che abbiamo già discusso, e sullo sfondo del quale abbiamo riconosciuto il leitmotiv di tutto un gruppo di miti che collegano la castità al giorno e la sensualità alla notte, dall’Amazzonia fino alla Terra del Fuoco – miti che sono altresì concordi nel vedere nell’alternanza regolare del giorno e della notte la condizione normale dei rapporti coniugali.

Queste triadi ci ricordano anche un’indicazione di Stradelli a proposito di una triade femminile e notturna formata da creature soprannaturali: Kerepyua, Kiriyua e Kiririyua, rispettivamente «madre dei sogni», «madre del sonno» e «madre del silenzio». I Tupi Orozco-nudovedono nella prima una vecchia discesa dal cielo, «ma altre tribù dicono che quella che discende dal cielo non è una vecchia, ma una ragazza senza gambe, chiamata Anabanéri in baniwa e che viaggia di preferenza sui raggi delle stelle, attraverso il sentiero dell’arcobaleno…».
Questo personaggio mutilato ne ricorda altri che abbiamo già incontrato.

Come l’eroe maschile di tutti i nostri miti, Kadaua si trova tra due tipi di donne e due forme di matrimonio.
L’originalità del nostro mito consiste nello sdoppiare questa immagine, che era già quella di una dualità. All’inizio il mito ci presenta Kadaua attirato da una creatura soprannaturale, la Madre delle acque, verso una unione lontana e irrevocabile, mentre tre ragazze sfrontate, appartenenti alla sua gente, cercano di trattenerlo vicino a loro.

A questa espressione spaziale del rapporto tra il vicino e il lontano, ne segue un’altra sul piano temporale; essa oppone le tre vecchie dalle quali Kadaua si allontana, alle tre ragazze cui si avvicina, ma questa volta nel registro della durata.
Infatti, allontanandole da sé, l’eroe trasforma le vecchie in sarighe – cioè da anziane in putrefatte; e avvicinando a sé le giovani, le trasforma: una in vecchia, le altre in morte.

La seconda parte del mito non fa che integrare questo aspetto.
Infatti, l’invecchiamento accelerato, nel lasso di tempo di cinque lune, sopravviene durante un inseguimento a nuoto che è il contrario di un viaggio in piroga: i due protagonisti, uomo e donna, sono immersi direttamente nell’acqua invece di galleggiare sull’acqua dentro un’imbarcazione. La donna precede l’uomo, invece di essere seduta a poppa.
Infine, ed è il particolare più importante, l’uomo, che sfiora con la mano il calcagno della donna, dovrebbe raggiungerla ma non ci riesce: invece, nel viaggio in piroga (e su questo punto, la testimonianza del mito Toba è fondamentale), i passeggeri colpevoli si riuniscono al centro della piroga, mentre non dovrebbero farlo. Questi tre viaggiatori sconsiderati si raccolgono intorno a uno di loro, che riveste dunque la funzione di mediatore spaziale. La nuotatrice irraggiungibile, poiché rifiuta di essere il soggetto di una mediazione temporale (l’invecchiamento, fra la giovinezza e la morte), è l’unica che sopravviva di un trio di nuotatrici sconsiderate.

La ragione di queste inversioni è chiara: in quanto miti a prevalenza diurna, entrambi i nostri miti oppongono nello stesso modo l’ipotesi del lungo giorno a quella della lunga notte, ma concepiscono diversamente la mediazione fra questi due termini estremi: essa è diacronica nel mito Toba, in cui consiste nell’alternanza regolare del giorno e della notte; è sincronica nel nostro mito amazzonico, nel quale, attraverso la congiunzione (che non è un’alternanza) del putrido e del bruciato, la notte assoluta che avrebbe potuto regnare si trova temperata fin dal momento in cui esiste, grazie alla creazione concomitante della luna e della Via Lattea.

Di conseguenza, il nostro mito (data la sua probabile provenienza «dotta» e non «popolare») si viene a situare all’intersezione di diversi miti.
Continuando l’analisi, potremo certamente verificare che le sarighe che gridano «ken! ken! ken!» all’interno della capanna incendiata, si trasformano negli animali notturni del mito Toba, che gridano «ten! ten! ten!» all’interno di una prigione di noce, da cui il fuoco li farà uscire contemporaneamente all’oscurità.

Nel mito Yabarana sull’Origine del giorno e della notte, la gabbia dell’uccello-sole inverte tanto più chiaramente il precedente motivo in quanto gli eroi dei tre miti illustrano altrettanti casi di impotenza sessuale: l’uomo senza gambe (Yabarana), l’ermafrodito Kadaua del nostro mito, o il marito che non può giacere con la moglie perché essa si rifiuta (Toba).
Dalla Terra del Fuoco all’Amazzonia, la carenza da cui sono colpiti questi personaggi è messa in rapporto con uno stato primordiale in cui regnava una luce continua.



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Il nostro mito ha, infine, in comune con un altro mito già esaminato (Arekuna, Lo snidatore di rane) un’ossatura che è al tempo stesso sincronica e diacronica e che articola Iida-tre-ninfeil tema dell’invecchiamento prematuro, cioè della vita breve, con quello di un’oscurità temperata dalla presenza degli astri notturni: luna, stelle e Via Lattea.
Abbiamo un eroe il cui nome [Akalapijeima] potrebbe indicare la calvizie, e un altro [Kadaua] che presto diventerà calvo: entrambi diventano la posta in gioco di una rivalità fra le graziose figlie del sole e le puzzolenti figlie dell’avvoltoio, oppure fra amanti in giovane età e sarighe, anch’esse puzzolenti. Entrambi viaggiano per via d’acqua, trasportati da un rospo mostruoso l’uno, da uno spirito acquatico l’altro. Il matrimonio con le figlie del sole significherebbe per l’uno una giovinezza prolungata; il matrimonio con l’altro costerebbe alla giovane sposa un invecchiamento prematuro. Ogni volta, la conclusione deriva da una vittoria riportata dalle creature puzzolenti: abbandonate da Akalapijeima, le figlie del sole si mutano in Via Lattea; insieme a Kadaua che le è rimasto fedele, l’eroina del nostro mito amazzonico si muta negli astri della notte.

Benché nessuno dei miti esaminati sia perfettamente esplicito, abbiamo proceduto a tentoni per sovrapporli in modo che coincidessero e lasciassero così apparire, come in una trama, il messaggio comune di cui ognuno nascondeva un frammento o un aspetto.
Condensiamo ora, ma più chiaramente, questo messaggio come lo enuncia il già ricordato mito Tamanac: non potendo neutralizzare l’opposizione tra matrimonio vicino e matrimonio lontano col metodo del fiume a duplice direzione, Amalivaca e il fratello Wochi determinarono per mezzo di un’incisione rupestre la distanza ragionevole fra la luna e il sole (a garanzia che l’incesto non si verificherà); successivamente poterono vincolare a matrimoni relativamente vicini, spezzando loro le gambe, le proprie figlie, che erano inclini a unioni troppo lontane.

Si vengono parimenti consolidando fra loro i messaggi disgiunti di altri miti.
Se un eroe lunare, respingendo l’incesto con la zia, avesse acconsentito a sposare una principessa troppo lontana, il giorno sarebbe stato luce senza calore (Warrau, La storia della bella Assawako) a immagine della notte che viene rischiarata con una pallida luce dalle figlie del sole, principesse lontane e abbandonate (Arekuna, Lo snidatore di rane).
Tornando tra i suoi, compiendo quindi un viaggio di andata e ritorno, l’eroe permette l’apparizione del sole sotto forma della calda luce del giorno; in altre parole, l’astro diurno si stabilisce d’ora in avanti a buona distanza, così come il compagno del sole che, se non vuol soffrire il freddo e il caldo nella piroga, non deve stare né troppo vicino né troppo lontano.

(Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola)

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All’origine dei tempi, la notte non esisteva e perciò… non si faceva mai all’amore.
All’origine dei tempi, il giorno non esisteva e perciò… non si veniva mai fuori dall’oscura promiscuità dei propri sogni «erotici».
Ecco due modi di dire l’Estremo. Due modi di nominare l’Indifferenziato da cui, attraverso le peripezie dei suoi personaggi, il Racconto prova a ricostruire l’origine della nostra esistenza «umana» e della sua perenne «oscillazione» nell’alternanza del giorno e della notte – o, per parlar più franco – del digiuno e del consumo sessuale.

La sposina, dice il Racconto, si vergognava di fare all’amore di giorno, perciò convinse il marito a mandare una triade di servi in cerca della notte. I servi andarono a prendere la notte, e la notte la stavano portando a destinazione quando, durante il viaggio in piroga, uno dei tre fu preso dalla curiosità di aprire la cassa in cui era racchiusa. E così la notte venne fuori, e fu di botto ovunque buio e freddo. I servi avevano combinato un guaio – la cassa non era stata aperta alla giusta distanza, alla distanza cioè tra un «coito» e l’altro dei due sposini a cui era destinata.
Solo in un secondo momento la donna, grazie ai suoi poteri magici (era la figlia del Gran Serpente, antico «proprietario» della Notte), pose rimedio al disastro, introducendo l’alternanza del giorno e della notte. Perciò, Lévi-Strauss parla, a proposito del mito Toba, di una mediazione diacronica – differita.

Diverso è il caso del nostro mito, in cui invece l’apparizione della Notte si rivela, da subito, difettosa: quando calò la prima notte, in cielo già brillavano le stelle, e c’era già la via-lattea-alberoluna, e c’era pure la Via Lattea. La notte «nacque» dunque insieme diacronica e sincronica – separata sì dal giorno, ma non per questo priva di luce. Separata dunque solo dal «calore» del sole. In ogni caso, «nacque» con una sua propria, per quanto piccola e fredda, dote di luce.

S’intravede dunque una serie ordinata di connessioni.
Luce continua = impotenza sessuale in tutte le sue forme «narrative» (vecchi decrepiti, bambini precoci, o adolescenti inizialmente, come Narciso, imberbi e riluttanti, nonché donne a cui sono state tagliate le gambe e ridotte a essere poco più di un Volto, o spose «intere» che però si vergognano di fare all’amore se non c’è il buio, possibilmente temperato dalla luce di una bella luna).
Buio perpetuo = dissoluzione sessuale in tutte le salse di fantasia (relazioni incestuose, avventure a occhi chiusi, farfalle che suggono nettare da tutti i fiori che svolazzando sfiorano, senza mai sposarsi con lo Scelto, ininterrotta sequenza di incontri e accoppiamenti mai però «illuminati» dal Miraggio di uno zenit «ideale»).

Sappiamo come la pensavano i Narratori a noi più vicini. Essi narravano, infatti, che Psiche – la quale tutte le notti giaceva col suo amato al buio (per ordine di lui tassativo) – si decise, un bel dì, ad accendere la fioca luce di una candela. L’accese, è vero su istigazione delle sorelle gelose, ma perché era curiosa anche lei di «vedere» con chi s’intratteneva la notte. Curiosa di sapere la Forma del suo «notturno» compagno di letto.
La sua temeraria «disobbedienza», così simile a quella dei tre servi in piroga – il suo eccesso di «curiosità» – segna, sappiamo anche questo, il confine tra l’«essere senza storia», l’«essere inconscio» della nostra primissima età, e la Stagione dell’Umano «psicologico», del Presente storico, della memoria e dell’intelligenza finalmente in azione.

C’è poco di artificioso nelle nostre come nelle più remote narrazioni: il Racconto non pretende d’imporre alla Luce e alla Tenebra la nostra condizione umana o, in particolare, le nostre «regole coniugali». È, semmai, il contrario: a ogni latitudine il Racconto si limita a prendere atto dell’habitat dell’Umano e, per interrogarsi intorno alla sua arkhé, gioca a simulare i due Termini dell’Indifferenziato – il Giorno e la Notte senza alternanza, il Giorno e/o la Notte senza nessuna periodicità!
Va da sé che l’Origine di tutte le «differenze» presenti tra noi non può sorgere che da un Popp-figlie-solePassato «indifferente». Il nostro Inizio, l’inizio che ci differenzia, e che ci scippa più o meno brutalmente all’Indifferenziato, presuppone che sia successo un «guasto» nel regime dell’originaria «indifferenza».

A questo punto, non ci sono che due possibilità da prendere in considerazione: questo «guaio» che «guastandoci» ci ha spinto verso l’Umano, può essere sorto assieme al suo «rimedio» (allora avremo nel Racconto un personaggio che funge da mediatore sincronico del trapasso), oppure per rimediare ad esso bisogna mettersi in cammino (in una distanza) e camminare per un certo tempo (in una durata, nel qual caso il mediatore non potrà essere che diacronico, tardivo: è il caso di Psiche).
Distanza e durata, dice il Racconto, fanno tutto lo spazio e tutto il tempo dei nostri desideri umani. Umano non è astenersi dal desiderio, checché ne dicano le chiese – ma non è nemmeno consumarlo all’istante e senza sapere, o meglio: senza vedere con chi lo si condivide, fosse anche nella Notte più nera.
L’Uomo non abita nella Mezzanotte Eterna, ma neanche nella Luce che mai tramonta. Il modo d’essere «umano» è possibile solo nella distanza e nella durata che dà esistenza ai nostri desideri. Sono dunque il Sole, la Luna e le stelle, col loro andare e venire periodico, sono loro a dettarci le «regole sentimentali», e non viceversa.



fonte https://lartedeipazzi.blog/2018/12/20/amaz...ne-della-notte/

 
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