IL FARO DEI SOGNI

Lévi-Strauss – La piroga e il focolare domestico

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view post Posted on 14/12/2023, 10:05     Top   Dislike
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Nell’Amazzonia si racconta che una volta il sole e la luna si fidanzarono, ma il loro matrimonio risultò impossibile: l’amore del sole avrebbe bruciato la terra, le lacrime della luna l’avrebbero inondata. Si rassegnarono così a vivere isolati. Troppo vicini l’uno all’altra, il sole e la luna avrebbero dato origine a un mondo putrido, o a un mondo eclissi-solebruciato, o a entrambe le cose insieme; troppo distanti, avrebbero compromesso l’alternanza regolare del giorno e della notte e avrebbero provocato sia la lunga notte, che sarebbe stato un mondo alla rovescia, sia il lungo giorno, che avrebbe portato il caos.

Il dilemma è risolto dalla piroga: gli astri sono insieme sulla barca, ma le funzioni complementari assegnate ai due passeggeri, che si trovano rispettivamente nella parte anteriore per remare, e in quella posteriore per governare l’imbarcazione, obbligano a scegliere fra la prua e la poppa e a rimanere così separati.

Ma allora non dobbiamo ammettere che la piroga, la quale unisce la luna e il sole, la notte e il giorno, pur mantenendoli a distanza ragionevole durante il tempo del viaggio più lungo, riveste una funzione simile a quella del focolare domestico nello spazio circoscritto dalla capanna familiare?
Se il fuoco di cucina non effettuasse la mediazione fra il sole e la terra unendoli, si avrebbe il regno del mondo putrido e della lunga notte; e se non ne garantisse la separazione, interponendosi tra loro, si avrebbe invece il regno del mondo bruciato conseguente alla conflagrazione.
La piroga mitica adempie esattamente alla stessa funzione trasferendola dalla verticale all’orizzontale, e dalla distanza alla durata.

In fin dei conti, la trasformazione che interessa la sovrastruttura ideologica quando si passa dall’altopiano del Brasile all’area guayano-amazzonica (nel primo caso tale sovrastruttura è infatti incentrata sul fuoco di cucina e sulle piante coltivate, nel secondo sulla piroga e sulla pesca), corrisponde tanto più esattamente ai caratteri differenziali dell’infrastruttura in quanto sia la pesca sia l’agricoltura costituiscono l’attività tecnica maggiormente legata alla periodicità stagionale.
Ora, quest’ultima si pone a metà strada tra la periodicità quotidiana, che ha cicli più brevi dei suoi, e quella della vita umana, che ha cicli più lunghi.

Apriamo una parentesi per dimostrare in maniera indiretta l’omologia formale che abbiamo riconosciuto fra la piroga e il focolare domestico.
Il mito amazzonico sull’Origine della notte si presenta come un mito sulla calvizie e sulla canizie, inconvenienti che assai raramente affliggono gli Indiani d’America e di cui la letteratura etnografica non offre quasi nessun esempio accertato. Così è ancor più degno fuoco-troncodi nota il fatto che, nell’America tropicale e nelle regioni nordoccidentali dell’America settentrionale, i miti sulla calvizie si distribuiscano press’a poco come altri motivi comuni ai due emisferi e che la spiegazione proposta sia sempre la stessa: l’immersione dei capelli nell’acqua o in un ambiente acquoso li fa imputridire.
In Sudamerica gli Uitoto raccontano la storia di un uomo diventato calvo a contatto con i cadaveri decomposti giacenti nel ventre di un serpente che lo aveva inghiottito. Nel Chaco si conosce un mito choroti sullo stesso tema. Gli Yupa del Venezuela dicono che i nani del mondo ctonio sono calvi a forza di ricevere in testa gli escrementi degli esseri umani.

Il motivo dell’uomo inghiottito da un mostro e diventato calvo, già presente in Siberia, è diffuso, in Nordamerica, dall’isola di Vancouver fino allo Stato dell’Oregon. Secondo i Déné Peaux-de-Lièvre, il signore della pesca ha la testa calva. Abbiamo segnalato presso gli Yupa la nozione di una calvizie generata dagli escrementi che ricoprono la testa: questa nozione s’incontra anche fra i Chinook.
Queste brevi indicazioni non esauriscono il problema. Un personaggio, completamente o parzialmente calvo, raffigura il tuono per i Cashinawa del Sudamerica, e in Nordamerica per i Pawnee; infine gli Ojibwa possiedono un mito, in cui una donna calva diventa la luna benefica dopo che il sole le ha restituito i capelli.

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Araucan – Origine della calvizie

In tempi antichissimi, un diluvio distrusse l’umanità. Secondo certe versioni, esso costituiva la punizione di costumi dissoluti. Ma tutte lo attribuiscono a un serpente mostruoso, signore dell’oceano, chiamato /caicai/ dal suo grido.
Per sfuggire alle acque che continuavano a crescere e all’oscurità che regnava dappertutto, gli uomini, carichi di viveri, scalarono una montagna con tre vette di cui era signore un altro serpente, nemico del primo. Si chiamava /tenten/, anch’esso dal suo grido; forse aveva addirittura preso l’aspetto di un povero vecchio per avvertire gli capelli-fuocouomini del pericolo che li minacciava.

Quelli che non riuscirono ad arrampicarsi abbastanza rapidamente annegarono; poi si tramutarono in pesci di varie specie, i quali, più tardi, fecondarono le donne che erano andate a pescare durante la bassa marea.
Così furono concepiti i capostipiti dei clan che portano nomi di pesci.

Man mano che i sopravvissuti salivano sul fianco della montagna, anche questa si alzava oppure, secondo altre versioni, galleggiava sulla superficie delle acque. /Caicai/ e /Tenten/ cercarono a lungo di superarsi a vicenda. Alla fine, vinse la Montagna: quest’ultima aveva però avvicinato gli uomini al sole in modo che essi si dovettero proteggere la testa con i vassoi sui quali avevano ammucchiato le provviste.
Malgrado questi parasoli improvvisati, molti perirono e parecchi altri divennero calvi. Questa è l’origine della calvizie.
Quando /Caicai/ si dichiarò vinto, c’erano soltanto una o due coppie di sopravvissuti. Un sacrificio umano permise loro di ottenere che le acque si ritirassero; ed essi ripopolarono la terra.

***

Questo mito attribuisce l’origine della calvizie al calore cocente del sole invece che all’imputridimento causato dall’acqua. Fermiamoci su quest’ultimo aspetto.
Nel mito amazzonico e in altri miti, la calvizie risulta da un’immersione nell’acqua nel corso di una traslazione sull’asse orizzontale. Qui invece essa risulta da un avvicinamento al sole causato da un’elevazione sull’asse verticale.
Nel primo caso, essa sarebbe stata evitata se, invece di tuffarsi nell’elemento liquido, alcuni viaggiatori attivi (nuotano infatti vigorosamente) avessero navigato in una piroga, che è un vascello di legno. Nel secondo caso, la calvizie sembra evitabile per alcuni viaggiatori passivi (è la montagna che serve loro da ascensore) che fuggono l’acqua e si difendono dalla vicinanza del sole per mezzo del vasellame (cioè di vassoi) di legno.

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Infatti gli antichi Araucan, pur non ignorando il vasellame di terracotta, fabbricavano piatti di legno per la tavola. I missionari ai quali dobbiamo la prima versione del mito scherzavano sulla sua incongruenza: com’era possibile proteggersi da un cielo di fuoco con piatti di materia combustibile?
Per noi, al contrario, questa particolarità tecnologica sembra quadrare perfettamente con una inversione mitica che attribuisce a dei vassoi di cucina, ma di legno, una funzione protettiva contro una calvizie di origine solare: la stessa funzione che, se la nostra ipotesi è esatta, i miti amazzonici attribuiscono per preterizione alla piroga monossile, in questo caso contro una calvizie di origine acquatica.
Per questa via si confermerebbe quindi l’equivalenza della piroga e del focolare domestico, come rispettivi mediatori fra il vicino e il lontano sull’asse orizzontale, o fra il basso e l’alto sull’asse verticale.



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Lo studio dei miti sull’Origine della cucina ci aveva portato a concepire una opposizione fra il mondo putrido, che risulta da una disgiunzione del cielo e della terra, e il mondo bruciato, che risulta dallo loro congiunzione.
Per la mitologia Araucan, questi due mondi corrispondono a quelli di Caicai e di Tenten. E tutti gli altri miti che abbiamo discusso finora sono penetrati in questa opposizione fontana-capellifondamentale che essi diffrangono, se così possiamo dire, su diverse zone, ciascuna delle quali lascia filtrare una particolare sfumatura di significato.

Così noi contempliamo, da un lato, unioni troppo lontane o scapoli irriducibili, mariti avventurosi, ragazze scostumate o spose animali, visitatori troppo fiduciosi e ospiti perfide, che illustrano tutti certi aspetti della comunicazione quando essa diviene pericolosa o impossibile.
Dall’altro lato, troviamo le unioni troppo vicine, i parenti incestuosi, le donne-rampone, ossia modalità che illustrano una comunicazione troppo rapida. Opponendo anche l’uomo dal lungo pene, favorito della luna, e l’uomo senza pene, favorito del sole, i miti ritrovano la strada di una dialettica anatomica congruente con le precedenti, e di cui abbiamo messo in rilievo svariati esempi: personaggi bucati o otturati, che bucano o che otturano; in quest’ultimo caso, troppo pesanti o troppo grossi, e con la funzione sia di commutatori, sia di ruttori…

Ebbene, tutte queste opposizioni si dispongono per coppie in una gerarchia logica.
L’opposizione del mondo putrido e del mondo bruciato dipende dall’ordine cosmico, che ammette esso stesso due modalità principali, una astronomica e l’altra geografica, a seconda che i suoi elementi vengano ripartiti su un asse verticale che oppone il cielo e la terra, oppure su di un asse orizzontale che oppone il vicino e il lontano.
I poli dell’asse verticale, li possiamo poi proiettare sulla scala ridotta del corpo umano, in cui le membra e gli organi si ripartiscono allora fra l’alto e il basso; e queste membra e questi organi possono essere anche qualificati sotto il profilo sessuale o alimentare.

In questo caso, l’opposizione dei sessi non ha una funzione pertinente, e lascia il campo libero per altri contrasti: orifizi del tubo digerente distinti in inferiore e superiore e che, separatamente o insieme, possono essere sia aperti, sia chiusi.
Nel secondo caso, l’opposizione dei sessi richiede, per esprimersi, mezzi lessicali appropriati: vulva chiusa o spalancata nella donna, pene troppo corto o troppo lungo nel suo corrispondente maschile.

Se i miti si situano dal punto di vista dell’umanità, l’opposizione fondamentale diventerà quella fra la cultura e la natura, che coincide con il polo geografico della dicotomia Picasso-donna-poltrona-rossacosmica.
Ma questa categoria di natura ammette a sua volta due modalità: una biologica, il cui posto è già assegnato, l’altra tecnica, che coincide con uno dei termini dell’opposizione sorta dalla categoria di cultura. L’altro termine, quello sociologico, genera a sua volta l’opposizione: nel gruppo / fuori del gruppo, da cui si passa, attraverso nuove biforcazioni, all’endogamia, all’esogamia o alla guerra; oppure al celibato, all’incesto, all’imparentamento o all’alleanza, ecc.

Tutte le opposizioni con cui abbiamo avuto a che fare fin qui si distribuiscono sui punti di intersezione di un reticolo di cui possiamo distinguere l’intelaiatura e che un’analisi più approfondita, comprendente altri miti, potrebbe prolungare in nuove direzioni colmando, qua e là delle lacune.
In fin dei conti, le differenze che si notano fra i miti dipendono dai livelli da cui essi prelevano le opposizioni utilizzate e dalla maniera originale con cui ogni mito ripiega il reticolo su se stesso, in senso orizzontale, verticale o in diagonale per far coincidere questa o quella coppia e rendere palese, in una certa prospettiva, l’omologia che prevale fra varie opposizioni. […]

Il contrasto tecnologico che i miti istituiscono fra il focolare domestico e la piroga viene dunque a iscriversi fra altri contrasti sovrapponibili: fra l’alto e il basso, il vicino e il lontano, lo spaziale e il temporale, il senso proprio e il senso figurato.
Di conseguenza, possiamo dire che la trasformazione del focolare domestico è riconducibile, da un punto di vista logico, alla proiezione sull’asse orizzontale di una struttura verticale di mediazione, da cui risulta che i poli cielo/terra dell’uno vengono a coincidere con i poli qui/laggiù dell’altro. Non mancano poi i miti che documentano in maniera più diretta che il viaggio al cielo costituisce la suprema avventura di un eroe viaggiatore, il quale ha commesso l’imprudenza di andare troppo lontano.

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view post Posted on 22/12/2023, 10:23     Top   Dislike
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Formulata in questo modo, la trasformazione diventa praticamente identica a se stessa, e conosciamo alcuni popoli che se ne rendono conto, dal momento che descrivono l’elemento base della loro società in termini di «barcata» piuttosto che di famiglia o di focolare.
I Malesi chiamano «casa» della lama la parte a forma di barca con cui termina il fodero del kriss. Essi esprimono così in maniera simbolica una corrispondenza che trova la sua piena applicazione in Siberia: l’unità sociale dei Ciucki marittimi consiste nella «barcata», equipaggio i cui membri vanno insieme a caccia e a pesca. Gli indigeni perciò dicono che un villaggio ha molte barcate, ciascuna composta di famiglie imparentate fra loro. Analoghe osservazioni sono state fatte per gli Eschimesi.

Non meno significativo è il caso di quelle tribù della Nuova Guinea in cui ogni clan possiede in proprio una vasta capanna e un grosso canotto, che vengono utilizzati esclusivamente dai membri dello stesso clan, l’una per dormire di notte, l’altro per viaggiare o per riunirsi di giorno. La stessa capanna spesso ha la forma di un canotto, ed entrambi portano un nome invariabile che si trasmette alla nuova abitazione costruita per sostituire quella vecchia, e al canotto nuovo che succede a quello messo fuori uso. In certe regioni del Delta, un’unica parola significa al tempo stesso «clan» e «barca»: per sapere a quale clan appartiene uno sconosciuto gli si domanda infatti «qual è la sua barca».

La barca costituisce dunque l’unità sociale per eccellenza, funzione svolta altrove dalla casa comune in cui si riuniscono i membri del gruppo.
Infine, il fatto che gli Indios sudamericani si preoccupino, imbarcandosi, di portare con sé in una zucca o una spata di palma qualche tizzone che mantengono acceso, non trasforma forse la piroga in un focolare domestico, diventato mobile, la cui relativa sicurezza si oppone ai rischi e alle incertezze del viaggio e offre un equivalente approssimativo della casa?

(Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola)


… dimmi il tuo Passato, e ti dirò chi sei. Dimmi su quale barca hai fin qui viaggiato per il mondo, e ti dirò quali paesi hai visto e quali climi hai abitato. Dimmi che lingua parli, e ti dirò tra quali stelle ti dovrai arrampicare appena squillerà la tromba o rullerà il tamburo.

Che cosa, in fondo, sta facendo il Maestro passando in rassegna i miti e i racconti «dei tempi antichissimi»? – cosa, se non «studiare» la lingua dell’Altro per carpirne i segreti meccanismi all’opera, e misurarne la distanza – sempre che una distanza ci sia, oltre che nella «materia» e nella «forma» dei racconti, anche nella loro struttura. La doppia distanza: non solo quella dei miti e dei racconti fra di loro, ma anche e soprattutto (segretamente) l’altra, ovvero la distanza della lingua del Maestro da tutta la babele in cui si sono declinate le immaginazioni di popoli esotici, alieni e lontanissimi, da lui come da noi.

Se il Maestro non parlasse una lingua «capace» di qualcosa in comune con le lingue dei miti più remoti, sai dirmi tu come solo potrebbe pensare di imbarcarsi in questo viaggio periglioso?
In realtà, ogni lingua è «capace» di tradurre a sé le altre – malgrado tutte le distorsioni, le menomazioni e perfino le incomprensioni in cui incappa. La tesi «strutturalista» è proprio questa: che, al di là degli «errori» grammaticali, al di là delle «riduzioni» Kay-Sage-piccolo-ritrattolessicali, in tutte le lingue o, diciamo così, nella Lingua dell’Uomo è all’opera una stessa «struttura». Aristotele amava chiamarla «sostanza», «substantia», ipostasi – sottesa alle proposizioni, alle frasi e… /ci siamo/ ai Periodi.

Perché il punto nevralgico è questo: se non trovasse una periodicità – la Lingua dell’Uomo non avrebbe una culla. Se non intuisse il Periodo, il Giro circolare e il Ritorno – nessun cucciolo della nostra specie uscirebbe dal balbettio linguistico, ovvero: dall’interminabile.
Sicché il Maestro dice: c’è una periodicità breve (l’alternanza quotidiana del giorno e della notte, della luce e del buio, del sole e della luna), una periodicità media (l’alternanza delle stagioni) e una periodicità lunga (la vita umana).
Perciò la Lingua dell’Uomo, tanto più produce sapere, quanto più si avventura nella costruzione di una scala periodica: di un «reticolo», dice il Maestro, in cui s’intrecciano e si combinano periodi di livelli diversi.

Una Lingua, per es., che non avesse mai favoleggiato di un Amore che dura tutta la vita, e che mai avesse osato sfidare l’Immortale (non è proprio questo il caso di Dante e Beatrice, di Giulietta e Romeo, di Laylâ e Majnûn?), non si sarebbe mai misurata, mai sarebbe giunta sino a «studiare» Se Stessa guardandosi nello specchio delle altre lingue di babele.
Non avrebbe cioè mai fatto parlare un quarto Periodo – non quotidiano, non stagionale e neppure umano: il Periodo dell’Eterno Ritorno del Più Lontano, dell’Essere come lo chiamavano i Greci, quell’Essere che è il Passato Più Remoto, il Più Distante dal nostro «esserci», dal nostro Dasein, dice il Filosofo, dal nostro Presente Umano.

Quel Passato è il Reale primitivo dell’Essere senza memoria e senza simboli in mente. Quel Reale /il Cielo/ si è separato dalla nostra Realtà Umana /la Terra, la storia, il linguaggio. Quel Reale è linguisticamente irraggiungibile: la Lingua, ogni lingua, è condannata a «idealizzarlo» per nominarlo. Nessuna opposizione, né del Focolare né della Barca, né del Fuoco né dell’Acqua, le basterà a «dire» il suo Rimosso.

La Lingua gioca dunque col Vicino e col Lontano. La Lingua nasce nella distanza che pone tra sé e il Reale che fino a un attimo prima ha balbettato.
Eraclito realmente scorre nel Fiume, come tutte le «cose», ma la sua lingua si pone estaticamente fuori dal Fiume simulando di poterlo navigare coi suoi periodi brevi e lunghi. Un aforisma: tutto scorre – se lo dice è perché ha indovinato un ritorno, una ricorrenza, una ripetizione, un ciclo, un periodo, un ritmo nel reale inarrestabile scorrere indifferenziato e caotico.
Ha riconosciuto il Vicino di un’onda e la Lontananza di tutte le altre. Il suo è, forse, l’aforisma più nostalgico che sia mai stato pensato.

Il Maestro intanto ci alfabetizza, per renderci atti a seguire le sue istruzioni: c’è la lontananza nel tempo, dice, e c’è quella nello spazio, c’è l’asse orizzontale e c’è l’asse verticale – nella Struttura narrativa.
Nello spazio, un sole troppo vicino ci brucerebbe, mentre un sole troppo lontano ci lascerebbe a imputridire nelle acque stagnanti di una notte senza fine. La Lingua accende allora il suo prometeico «fuoco di cucina»: accende il sole del suo simbolismo a quella che per essa è la giusta distanza tra il Reale /il Sole invisibile, eterno e inconsumabile/ e l’Inferno che la nostra vita sarebbe, se lasciata andare ai capricci degli Magritte-Giove-Vergine«umori» della Luna /visibilmente cangiante ogni notte, e pronta a ricominciarsi ogni mese.

Nei miti dell’America tropicale il «Fuoco» simbolico funge dunque da mediatore tra i due estremi «spaziali»: cielo/terra. La stessa funzione mediatrice, stavolta, tra i due estremi «temporali»: allora/ora – la ricopre la Piroga nei miti della Guayana amazzonica.
Il Fuoco non è la Piroga – ma tra il Fuoco di cucina e la Barca per navigare i fiumi dell’Amazzonia Lévi-Strauss coglie una «omologia formale». Il che lascia intendere che, quale che sia l’infrastruttura sociale e ambientale (una tribù di agricoltori o di pescatori), la Struttura rilascia comunque una «mediazione» tra i due Estremi, siano essi spaziali o temporali, o tutt’e due fusi assieme.

Perciò, se vieni dal Mare o dal Fiume, dimmi su quale barca hai navigato e dirò da quale Passato ti «presenti» a me, qui e ora. Se vieni dalla Terra o dalla Montagna, dimmi piuttosto se usi ancora i bastoncini maschio e femmina per accendere il fuoco sotto le tue pentole, e ti dirò quale oscuro Rimosso, senza il fuoco di un qualunque ricordo, è il Sottostante, l’Ipostatico Sottinteso, che alimenta i segni e le parole delle tue rappresentazioni simboliche.

Da quale però che sia il mondo da cui provieni, solo in quell’istante in cui ti ho guardata senza e prima che tu mi rispondessi, è ritornato a farsi vedere – qui e ora – l’aperiodico. È tornato a «presentarsi» il mio Passato dopo un lungo periodo di assenza.
Mi mancava, e non lo sapevo. Non sapevo che solo ciò che mi mancò nel mio Passato senza parole – poteva ritornarmi. Non sapevo che, per ciascuno di noi, il Reale è appeso all’orlo di una nostalgia per lo Sconosciuto che «passava» allora. Non sapevo che il Reale è allora – che il Reale c’era una volta…



fonte https://lartedeipazzi.blog/2018/12/27/levi...lare-domestico/

 
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