| Formulata in questo modo, la trasformazione diventa praticamente identica a se stessa, e conosciamo alcuni popoli che se ne rendono conto, dal momento che descrivono l’elemento base della loro società in termini di «barcata» piuttosto che di famiglia o di focolare. I Malesi chiamano «casa» della lama la parte a forma di barca con cui termina il fodero del kriss. Essi esprimono così in maniera simbolica una corrispondenza che trova la sua piena applicazione in Siberia: l’unità sociale dei Ciucki marittimi consiste nella «barcata», equipaggio i cui membri vanno insieme a caccia e a pesca. Gli indigeni perciò dicono che un villaggio ha molte barcate, ciascuna composta di famiglie imparentate fra loro. Analoghe osservazioni sono state fatte per gli Eschimesi.
Non meno significativo è il caso di quelle tribù della Nuova Guinea in cui ogni clan possiede in proprio una vasta capanna e un grosso canotto, che vengono utilizzati esclusivamente dai membri dello stesso clan, l’una per dormire di notte, l’altro per viaggiare o per riunirsi di giorno. La stessa capanna spesso ha la forma di un canotto, ed entrambi portano un nome invariabile che si trasmette alla nuova abitazione costruita per sostituire quella vecchia, e al canotto nuovo che succede a quello messo fuori uso. In certe regioni del Delta, un’unica parola significa al tempo stesso «clan» e «barca»: per sapere a quale clan appartiene uno sconosciuto gli si domanda infatti «qual è la sua barca».
La barca costituisce dunque l’unità sociale per eccellenza, funzione svolta altrove dalla casa comune in cui si riuniscono i membri del gruppo. Infine, il fatto che gli Indios sudamericani si preoccupino, imbarcandosi, di portare con sé in una zucca o una spata di palma qualche tizzone che mantengono acceso, non trasforma forse la piroga in un focolare domestico, diventato mobile, la cui relativa sicurezza si oppone ai rischi e alle incertezze del viaggio e offre un equivalente approssimativo della casa?
(Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola)
… dimmi il tuo Passato, e ti dirò chi sei. Dimmi su quale barca hai fin qui viaggiato per il mondo, e ti dirò quali paesi hai visto e quali climi hai abitato. Dimmi che lingua parli, e ti dirò tra quali stelle ti dovrai arrampicare appena squillerà la tromba o rullerà il tamburo.
Che cosa, in fondo, sta facendo il Maestro passando in rassegna i miti e i racconti «dei tempi antichissimi»? – cosa, se non «studiare» la lingua dell’Altro per carpirne i segreti meccanismi all’opera, e misurarne la distanza – sempre che una distanza ci sia, oltre che nella «materia» e nella «forma» dei racconti, anche nella loro struttura. La doppia distanza: non solo quella dei miti e dei racconti fra di loro, ma anche e soprattutto (segretamente) l’altra, ovvero la distanza della lingua del Maestro da tutta la babele in cui si sono declinate le immaginazioni di popoli esotici, alieni e lontanissimi, da lui come da noi.
Se il Maestro non parlasse una lingua «capace» di qualcosa in comune con le lingue dei miti più remoti, sai dirmi tu come solo potrebbe pensare di imbarcarsi in questo viaggio periglioso? In realtà, ogni lingua è «capace» di tradurre a sé le altre – malgrado tutte le distorsioni, le menomazioni e perfino le incomprensioni in cui incappa. La tesi «strutturalista» è proprio questa: che, al di là degli «errori» grammaticali, al di là delle «riduzioni» Kay-Sage-piccolo-ritrattolessicali, in tutte le lingue o, diciamo così, nella Lingua dell’Uomo è all’opera una stessa «struttura». Aristotele amava chiamarla «sostanza», «substantia», ipostasi – sottesa alle proposizioni, alle frasi e… /ci siamo/ ai Periodi.
Perché il punto nevralgico è questo: se non trovasse una periodicità – la Lingua dell’Uomo non avrebbe una culla. Se non intuisse il Periodo, il Giro circolare e il Ritorno – nessun cucciolo della nostra specie uscirebbe dal balbettio linguistico, ovvero: dall’interminabile. Sicché il Maestro dice: c’è una periodicità breve (l’alternanza quotidiana del giorno e della notte, della luce e del buio, del sole e della luna), una periodicità media (l’alternanza delle stagioni) e una periodicità lunga (la vita umana). Perciò la Lingua dell’Uomo, tanto più produce sapere, quanto più si avventura nella costruzione di una scala periodica: di un «reticolo», dice il Maestro, in cui s’intrecciano e si combinano periodi di livelli diversi.
Una Lingua, per es., che non avesse mai favoleggiato di un Amore che dura tutta la vita, e che mai avesse osato sfidare l’Immortale (non è proprio questo il caso di Dante e Beatrice, di Giulietta e Romeo, di Laylâ e Majnûn?), non si sarebbe mai misurata, mai sarebbe giunta sino a «studiare» Se Stessa guardandosi nello specchio delle altre lingue di babele. Non avrebbe cioè mai fatto parlare un quarto Periodo – non quotidiano, non stagionale e neppure umano: il Periodo dell’Eterno Ritorno del Più Lontano, dell’Essere come lo chiamavano i Greci, quell’Essere che è il Passato Più Remoto, il Più Distante dal nostro «esserci», dal nostro Dasein, dice il Filosofo, dal nostro Presente Umano.
Quel Passato è il Reale primitivo dell’Essere senza memoria e senza simboli in mente. Quel Reale /il Cielo/ si è separato dalla nostra Realtà Umana /la Terra, la storia, il linguaggio. Quel Reale è linguisticamente irraggiungibile: la Lingua, ogni lingua, è condannata a «idealizzarlo» per nominarlo. Nessuna opposizione, né del Focolare né della Barca, né del Fuoco né dell’Acqua, le basterà a «dire» il suo Rimosso.
La Lingua gioca dunque col Vicino e col Lontano. La Lingua nasce nella distanza che pone tra sé e il Reale che fino a un attimo prima ha balbettato. Eraclito realmente scorre nel Fiume, come tutte le «cose», ma la sua lingua si pone estaticamente fuori dal Fiume simulando di poterlo navigare coi suoi periodi brevi e lunghi. Un aforisma: tutto scorre – se lo dice è perché ha indovinato un ritorno, una ricorrenza, una ripetizione, un ciclo, un periodo, un ritmo nel reale inarrestabile scorrere indifferenziato e caotico. Ha riconosciuto il Vicino di un’onda e la Lontananza di tutte le altre. Il suo è, forse, l’aforisma più nostalgico che sia mai stato pensato.
Il Maestro intanto ci alfabetizza, per renderci atti a seguire le sue istruzioni: c’è la lontananza nel tempo, dice, e c’è quella nello spazio, c’è l’asse orizzontale e c’è l’asse verticale – nella Struttura narrativa. Nello spazio, un sole troppo vicino ci brucerebbe, mentre un sole troppo lontano ci lascerebbe a imputridire nelle acque stagnanti di una notte senza fine. La Lingua accende allora il suo prometeico «fuoco di cucina»: accende il sole del suo simbolismo a quella che per essa è la giusta distanza tra il Reale /il Sole invisibile, eterno e inconsumabile/ e l’Inferno che la nostra vita sarebbe, se lasciata andare ai capricci degli Magritte-Giove-Vergine«umori» della Luna /visibilmente cangiante ogni notte, e pronta a ricominciarsi ogni mese.
Nei miti dell’America tropicale il «Fuoco» simbolico funge dunque da mediatore tra i due estremi «spaziali»: cielo/terra. La stessa funzione mediatrice, stavolta, tra i due estremi «temporali»: allora/ora – la ricopre la Piroga nei miti della Guayana amazzonica. Il Fuoco non è la Piroga – ma tra il Fuoco di cucina e la Barca per navigare i fiumi dell’Amazzonia Lévi-Strauss coglie una «omologia formale». Il che lascia intendere che, quale che sia l’infrastruttura sociale e ambientale (una tribù di agricoltori o di pescatori), la Struttura rilascia comunque una «mediazione» tra i due Estremi, siano essi spaziali o temporali, o tutt’e due fusi assieme.
Perciò, se vieni dal Mare o dal Fiume, dimmi su quale barca hai navigato e dirò da quale Passato ti «presenti» a me, qui e ora. Se vieni dalla Terra o dalla Montagna, dimmi piuttosto se usi ancora i bastoncini maschio e femmina per accendere il fuoco sotto le tue pentole, e ti dirò quale oscuro Rimosso, senza il fuoco di un qualunque ricordo, è il Sottostante, l’Ipostatico Sottinteso, che alimenta i segni e le parole delle tue rappresentazioni simboliche.
Da quale però che sia il mondo da cui provieni, solo in quell’istante in cui ti ho guardata senza e prima che tu mi rispondessi, è ritornato a farsi vedere – qui e ora – l’aperiodico. È tornato a «presentarsi» il mio Passato dopo un lungo periodo di assenza. Mi mancava, e non lo sapevo. Non sapevo che solo ciò che mi mancò nel mio Passato senza parole – poteva ritornarmi. Non sapevo che, per ciascuno di noi, il Reale è appeso all’orlo di una nostalgia per lo Sconosciuto che «passava» allora. Non sapevo che il Reale è allora – che il Reale c’era una volta…
fonte https://lartedeipazzi.blog/2018/12/27/levi...lare-domestico/
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