| Nel mondo antico, per accedervi, occorreva compiere un sacrificio rituale, in cui il sacrificato si lasciava immolare per amore: quando l’archetipo appare ,ecco sciogliersi la distinzione tra il cosiddetto bene e il cosiddetto male. Parlano degli archetipi I Ching, ma anche nella sua poesia John Keats. Lo sciamano giunge ad impersonare l’archetipo e lo fa a costo della propria stessa vita fisica e mentale. Uscite dal Mondo è un corposo testo composto da numerosi saggi brevi accomunati da un ideale comune, che è appunto quello del titolo: esperienze, culture, personaggi storici che testimoniano l’uscita dal mondo, dal determinismo dello spazio e del tempo, dall’ego-centrismo, dai doveri sociali, “fenditure e varchi via via aperti verso i possibili”. Gli argomenti sono assai vari, e vengono ripresi temi già trattati più ampiamente in passato in altri testi, veri e propri “cavalli di battaglia” dell’autore: lo sciamanesimo con tutto ciò che lo contorna (la trance, gli allucinogeni ecc.), la valorizzazione del pensiero mitico, la ricerca degliarchetipi nella natura, le corrispondenze scoperte attraverso le etimologie, l’illusorietà delle escatologie terrene (quasi pregiudizio nei confronti della politica in generale), i limiti degli intellettuali progressisti, i pericoli del fantasticare, la tentazione moderna del “satanismo” ecc.. Zolla affronta anche il tema del sincretismo: a differenza del senso comune religioso, che lo condanna, egli ne mostra la diffusione universale. In Thailandia, ad esempio, buddismo, induismo e sciamanesimo si fondono armoniosamente. Nell’Occidente cristiano invece il sincretismo è l’eccezione: l’unico momento di successo fu durante il Rinascimento del Quattrocento, grazie a filosofi come Pletone e Pico della Mirandola. Qua e là Zolla esprime riserve sul misticismo cristiano, che aveva ampiamente studiato: permeato da un forte dualismo, lo sconta con ossessioni diaboliche e perversioni (come dimostrano le vite degli asceti), ombra speculare della moralità. Ne è invece immune chi è coscio della coincidenza degli opposti e li trascende, come Eckart o Cusano, o come nel tantra indiano. edica una dissertazione a Tolkien, il quale infranse le regole dello studio accademico della letteratura, cercando non semplicemente di studiare e schedare l’antico, ma di farlo rivivere, evidenziando ciò che ha di perenne, dunque “più presente a noi del presente”. Le fiabe non parlano di cose transitorie, ma permanenti: non di lampadine elettriche, ma di fulmini. Ne Le Tre Vie (1995), Zolla discute il principio della liberazione in vita, l’apice del sistema di conoscenza indiano, finalizzato all’abolizione della coscienza stessa, seguendo le tre vie dell’India: il Vedanta, forse la più complessa e alta compagine metafisica dell’India, la via dell’intelletto; la bhakti («devozione»), la via del cuore e dell’abbandono, dell’effusione mistica e lirica; e infine il tantrismo, paradossale, misteriosa e spesso equivocata via dell’oltraggio, dove l’infrazione della regola può diventare elemento intensificante, esaltante e, da ultimo, liberatorio. La Via del Vedanta è la via della conoscenza, ed è adatta all’uomo privo di fede che si fonda solo sul modo della conoscenza, nel modo più puro e rigido. Si distanzia dai propri sentimenti, fondandosi solo sul ragionamento, sulla valutazione, senza alcun elemento di disturbo. Chi percorre questa via riesce a modificarsi seguendo la propria ragione, la conoscenza pura. Advaita Vedanta è «conoscenza non duale»; la dualità è la formula entro cui l’uomo percepisce l’esistenza, come bene-male e maschio-femmina. Per tale filosofia questo modo di percepire è falso poiché non esistono dualità: tutto va visto triadicamente, ossia la saggezza indiana invita a introdurre un terzo termine che medi fra i primi due, opposti: così la realtà comincerà a essere più duttile e vera, partendo dal presupposto che la verità non si lascia ingabbiare tra due opposti. Le dualità, quindi, non attengono al funzionamento della ragione, alla logica che lega i concetti. Ma la maggior parte degli uomini non si appaga della conoscenza e vuole rispondere ai propri sentimenti, quali che siano. Esiste un’altra via di liberazione che consiste nello spingere alla massima intensità i propri sentimenti: ciò si ottiene volgendo quelli d’amore verso un dio, fino a smarrirsi, ad esistere solo nell’adesione al dio: è la via della «devozione», o «bhakti», celebrata nella Baghavad Gita, in cui Krishna dice ad Arjuna: agisci dedicando tutto a me. La terza via è considerata «ereticale» dal più degli indù: la via «tantrica», le cui prime testimonianze di pose risalgono addirittura al 3000 a. C.. Negli scavi di Mohenjodaro vennero rinvenute delle statuine di uomini seduti sui talloni uniti premendo sul perineo per produrre una condizione fisica usata nel Tantra per determinati fini. La pratica tantrica prevede anche uno yoga, diverso dal classico, fondato sull’idea essenziale per cui si ottiene la liberazione facendo svolgere il nodo del serpente avvolto intorno al coccige. Questo serpente, chiamato «Kundalini», incarna tutti i sentimenti fondamentali e inconsci dell’uomo, sentimenti fonte di un’energia quasi soprannaturale che si può scatenare grazie agli esercizi di questo yoga. Si tratta di contratture violente dell’addome, spingendo con forza nella direzione dove si suppone sia avvolto il serpente, sì da scatenarlo. In tal modo il serpente si ergerebbe lungo la colonna vertebrale fino al cervello, trasformando radicalmente l’uomo, che attingerebbe la liberazione. Il Tantra prevede anche degli accoppiamenti rituali che avviano alla suprema liberazione. Tali rituali hanno luogo tra il maestro e una o più donne: l’uomo dovrebbe riuscire, nel momento supremo dell’avvitamento tantrico, a proiettare all’interno dell’uretra il flusso del seme, dando luogo a un’intima trasformazione. Non si tratta, comunque, di una pratica puramente maschile, poiché la donna ha il primato nel Tantra, in quanto è lei a guidare il rito. Il Tantra prevede anche un abbandono completo di tutte le leggi morali, compresa la divisione in caste, tanto che veniva praticato in segreto, in templi oramai abbandonati. Questa è la terza via predisposta per l’uomo che non rientra nella società, animato da sentimenti troppo violenti per potersi inquadrare nella vita civile, ma capace di una profonda filosofia. Non è un caso che Abhinavagupta, uno dei massimi metafisici indiani dell’XI secolo, fosse un maestro di Tantra. Ora, più in generale, la «liberazione» non consiste nell’esclusione della conoscenza: è la conoscenza portata al suo fine ultimo, cioè a una totalità nella quale non c’è più bisogno della tecnica concettuale. Il fatto di essere andati oltre la tecnica concettuale, per intuire direttamente la realtà, per fondersi nella realtà, per non distinguere più fra l’io e il soggetto d’osservazione, non significa rinunciare alla conoscenza. Significa goderne pienamente, perché rinunciare alla tecnica che occorre per ottenere un oggetto, non vuol dire che non si abbia più la padronanza dell’oggetto. Definire cos’è la «liberazione» è, a un tempo, molto facile e molto difficile. È facile definirla perché chiunque ha esperienza della liberazione almeno due volte al giorno: quando si sveglia e quando si addormenta, ovvero il dormiveglia. Infatti il momento in cui, cessando l’attenzione della veglia si trapassa nel sonno, e il momento in cui dal sonno si esce e si riaffronta la veglia, rappresentano un’intercapedine fra i due ordini dell’esistenza nella quale si è perfettamente liberi, poiché non si è soggiogati dalle leggi della coscienza di veglia, né si è nell’ignoranza del sonno. È ben altra cosa riuscire ad espandere questo spazio, cioè riuscire ad allargare nel pieno della giornata questa libertà di cui si è goduto per un frammento di istante. Per ottenere ciò si può anche sacrificare tutto. Secondo Zolla, di vie occidentali alla liberazione ce ne son poche e discutibili: Meister Eckhart è quello che si è avvicinato di più a un apprendistato liberatorio. Nel 1998 ne Il Dio dell’ ebbrezza, Zolla riprende ed articola la simbologia di Dioniso, descrivendo anche esperienze dionisiache cui ha personalmente assistito nei numerosi viaggi che da tempo compie verso i luoghi dei suoi studi. Attraverso il tema dell’ androginia dionisiaca, questo breve saggio si allaccia direttamente a The Androgyne, opera del 1982 nuovamente in inglese, uscita in Italia solo nel 1989. Il tema dell’ androginia è centrale negli studi di Zolla delle metafisiche e cosmogonie arcaiche e nelle loro mitologie. Né uomo né donna, ma uomo e donna insieme: questo è l’androgino. Fanciullo malioso, nel mito greco assunse in un solo nome, Ermafrodito, quello dei divini genitori, Ermes e Afrodite, e si fuse in un liquido abbraccio con una ninfa. Ma non è solo fra gli dei della Grecia che troviamo una traccia inquietante della differenza negata. Nel resoconto che Zolla ci offre in questo libro, l’androgino è una costante nella cultura di tutti i popoli, traspare nelle immagini leonardesche di San Giovanni Battista, assume le vesti di personaggi letterari come l’Orlando di Virginia Woolf, dona una fisionomia indimenticabile agli sciamani di Castaneda. In Discesa all’Ade e Resurrezione (2002) Zolla si chede cosa ci aspetta dietro la soglia della morte, dopo la discesa agli inferi. Alla catabasi seguirà l’anastasi? Quali sono le vie per prepararci al periglioso passaggio? Si deve amputare il nostro io fin da questa vita per accedere a uno stato di luce perenne? È centrale il tema della morte come martirio: “la formula del martirio è la fusione della anabasi o resurrezione con salita nei cieli, e della catabasi o sprofondamento nell’Ade, nella tortura, nello strazio mortuario”. Zolla fa emergere inaspettatamente la figura di Gesù in una cornice non certo ortodossa, poiché vi affiorano non casualmente molte suggestioni gnostiche insieme con altre cabbalistiche e alchemiche, sottolinea due convinzioni: in primo luogo che alla radice del nostro Occidente ci sia «una tradizione spirituale celata, concepita dai fondatori originari delle nostre scienze, ma poi travisata e cancellata con cura, sicché ben pochi ne conoscono oramai i nomi stessi, salvo i rarissimi che sappiano di avere in tasca la storia delle stelle e di poter andare in direzione del futuro guardando al passato». E ne adduce molti esempi che spaziano dall’Oriente fino a san Paolo. In secondo luogo, in una prospettiva che nega la sopravvivenza dell’anima in senso cristiano, invita a rinunciare alla centralità del nostro io come condizione indispensabile per accedere a quel bacile di carità e di luce del Buddha che secondo Coomaraswamy altro non era che il Graal.
fonte https://mikeplato.myblog.it/2019/02/23/1000054515/
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