| VII. Ritornare nel mondo
Anche se non vi è conformità di opinioni, si dovrebbe distinguere fra una metempsicosi propriamente detta e una «rigenerazione» o palingenesia, differenziazione già ben presente nell’insegnamento di Pitagora (Serv. Ad Aen. 3, 68 = Aug. Civ. Dei 22, 28). Il termine metempsicosi è poco usato dai Greci e pressoché ignorato dagli ermetisti. Questi ultimi parlano di ensomatosi o di metensomatosi, transcorporatio, additandone la causa nella punizione per le colpe commesse. Un’altra parola metangismos, più rara, designa la «trasfusione» o il «travasamento» della sostanza luminosa attraverso gli uteri acquei. Un’espressione che diventerà parte del lessico manicheo: è lungo la fascia dello Zodiaco che ha luogo il metangismos, la metempsicosi, il «travasamento» della sostanza animica. Le anime degli Uditori sono trasfuse in nuove identità somatiche (piante, animali, corpi umani), «in cinque specie di corpi», gli stessi corpi a cui gli autori de L’artificio supremo riconducono la possibilità di rigenerazione della vita.
In altre parole, nella loro dotta – e un po’ psichedelica – esposizione i nostri vogliono raccontare come sia possibile condizionare la metempsicosi attraverso una oculata pratica di laboratorio che sappia unire il residuo minerale del corpo alla coscienza, attraverso una evoluzione di quest’ultima, precisando che «la conoscenza di questo segreto della trasmissione psichica… è il fondamento di ogni specie di stregoneria, ma anche degli atti di vera magia, nonché dei precetti teologici dei modi di inumazione.» (L’artificio supremo, p. 108). Al che dovremmo dedurne – come pare ammettano anche i nostri autori – che esisterebbe una metempsicosi «naturale», totalmente legata al fato e al caso «di destino in destino», in cui l’anima è riciclata in una infinita serie di esistenze individuali, e una metempsicosi «magica» o alchemica che dir si voglia, determinata dall’artifex praticante l’opera. Certo una bella chimera! Dall’utero funerario scaturirebbe il «pargolo», il brephos, versione palingenetica del neotestamentario Lazzaro. L’evento della resurrezione, il risveglio ad una nuova modalità di esistenza, si riattualizza nella nascita del bambino, che è appunto una specie di resurrezione. L’uscita dal mondo è l’uscita dall’utero, la fuga dal cetaceo dracontico, cioè la balena di Pinocchio e del Barone di Münchhausen.
Alcuni Padri della Chiesa ascrivevano le origini delle dottrine sulla metempsicosi a Platone (Ir. Adv. haer. 2, 33, 1-2), oppure lo ritenevano il suo esponente più autorevole (Min. Fel. Oct. 34, 6-7). Altri indicavano come maestri della disciplina gli antichi orfici (Clem. Alex. Strom. III, 3, 16, 4-5), mentre oggi sappiamo che il punto di partenza più verosimile è negli insegnamenti di Pitagora.
Non a caso nella biografia leggendaria di un estatico d’eccellenza, Abaris ricorre un singolare episodio: si narra che Abaris portasse sempre con sé una freccia donatagli dal dio Apollo, che usava per attraversare fiumi e superare altri ostacoli posti sul suo cammino. Giunto in Italia (cioè in Magna Grecia), probabilmente a Crotone, incontrò Pitagora; porgendogli la freccia riconobbe la presenza del dio in lui. Pitagora, per nulla sorpreso, prese in disparte Abaris, rivelandogli di essere veramente il dio Apollo, giunto sulla terra per aiutare l’umanità. Si denudò la parte superiore della gamba, mostrandogli la coscia, che in realtà era d’oro (Iamblich. Vit. Pyth. 19, 92). La nudità di Pitagora svela la parte del corpo dove ha sede il femore – l’osso che le scimmie paleolitiche scagliano contro il monolite di 2001: Odissea nello Spazio di Kubrick, e che secondo Schwaller De Lubicz è la sede corporea dove nell’uomo si forma il «sale fisso del suo essere».
Su Pitagora così la pensavano anche Tertulliano (Test. anim. 4,2; De anim. 31-33) e San Girolamo (Adv. Rufin. 39, 64-72). La testimonianza di San Girolamo è tarda, ma nell’attribuire a Pitagora la dottrina che ritiene l’anima immortale de aliis corporibus transire ad alia viene richiamato un frammento dal sesto libro dell’Eneide. L’autorità di Virgilio, o meglio le sue fonti neopitagoriche, attestano che trascorso un ciclo di mille anni le anime nell’aldilà sono richiamate sulle sponde del Lete, il fiume dell’oblio, vogliose di ritornare nei corpi (Aen. 6, 748-751). Ma, secondo Clemente Alessandrino (Strom. VI, 4, 35, 1), i saperi sulla metempsicosi giunsero a Pitagora e ai Greci attraverso l’Egitto, patria della sapienza misterica antica. Così sembrano pensarla anche gli autori de L’artificio supremo.
VIII. Bagatelle
Non c’è fine né nel tempo, né fuori dal tempo; nessuna singolarità, nessun attimo è irripetibile. Fuori dal tempo non c’è nulla che possa essere considerato come fondamento della temporalità: né un dio né un anti-dio possono teologicamente o metafisicamente governare il tempo e la realtà. E, spostandoci di artifizio in artifizio, in un altro spazio e in un altro tempo, ci viene incontro la figura, opaca e poco frequentata, dello scrittore russo Michail Kuzmin (1872-1936) e del suo Le avventure di Aimé Leboeuf (in Viaggi immaginari, trad. D. Di Sora, Voland, Roma 2000, pp. 21-67). Con compiaciuto cinismo, Kuzmin descrive l’esoterismo come un vezzo da classi agiate, coltivato da adepti effeminati in fuga da fanciulle infoiate, un luogo comune che ha le sue origini in un certo mondo cortigiano rinascimentale (incancrenitosi nell’universo barocco). Un modo carino per dire che l’ermetismo a partire da una certa data si trasforma in una grande cazzata.
Kuzmin ricostruisce un immaginario Settecento francese, un mondo in declino, agonizzante nella sua nullità. In uno scenario condito di afrori erotici e vacui illuminismi, il signor Scalzarocca, astrologo e alchimista, coltiva la folle aspettativa di creare un «grande Perpetuum mobile» (p. 54). Un complicato congegno, fatto di perni e ingranaggi, che dovrebbe generare il moto eterno, perpetuo. Nell’attesa che questo possa concretizzarsi, il meccanismo è però tenuto in movimento dai muscoli e dal sudore di una vecchia domestica. Un segreto che è una bufala, un inganno fra i numerosi praticati dal signor Scalzarocca. Fra i tanti c’è il sonno magico, l’ipnosi indotta su due donne, le signorine Bianca e Caterina, attraverso le quali lo Scalzarocca predice un futuro fatto di evidenze e di banalità.
Ma nel languore, a metà fra l’erotico e l’illuminato, che pervade una società molesta e malinconica, una esplosione manda in frantumi il laboratorio alchimico del nostro. Lo Scalzarocca schiatta all’istante, ma la sua identità, per così dire, «iniziatica» è salvata: immantinenti il protagonista della novella prende il suo posto, ma non in senso «spirituale». Il discepolo sostituisce il Maestro alchimista in carne e ossa (p. 55), giustificando e realizzando anche la palingenesi: il vecchio signor Scalzarocca ridiventa giovane nelle fattezze di Aimé Leboeuf. L’arte alchimica rovina così nel sottotetto del ridicolo, negli inferi della parodia. È il dilatarsi del vuoto su cui sono edificate le società occidentali, evolute e blasfeme.
Questo «vuoto» che pervade le società contemporanee, colmato dalla violenza, dal consumismo e, in ultimo, dall’evasione forzata in paradisi artificiali, in realtà mutate dal mercimonio psichedelico, ha quale approdo terminale anch’esso la giustificazione dello stile di vita, del bios presente. La ricerca dell’immortalità è il fine del cosiddetto «transumanesimo», che cerca di ricreare, attraverso i benefici della tecnologia e del progresso, il Paradiso in terra. Un desiderio ricercato anche nell’antichità in molte di quelle ricette che troviamo ne L’artificio supremo.
Nella cosiddetta «Liturgia mithriaca», che con gli ellenistici misteri di Mithra ha poco a che spartire, più affine invece a tematiche raccontate nel Corpus Hermeticum, troviamo una efficace descrizione della palingenesia, la nascita di un uomo nuovo, spirituale e quindi immortale: già in questa vita, grazie all’estasi in cui si abbandona il corpo, l’anima ascenderebbe in cielo fino a congiungersi col dio assoluto, precorrendo le sorti ultime. Un anelito espresso con immagini, simboli, mitologie estrapolate da almeno tre differenti ambiti religiosi: egiziano, iranico e greco-ellenistico.
Inizialmente, il myste si rivolge a due entità che in realtà sono uno: l’anima del mondo, che a partire dal Timeo di Platone figura l’elemento intermedio rispetto al dio supremo, e la pronoia o provvidenza, che è la reale presenza del dio nel governo del mondo. La voce narrante proclama di aver ricevuto i misteri dal sommo dio grazie ad un suo mediatore; inoltre, invoca le potenze affinché gli concedano l’immortalità. La prima preghiera evoca gli elementi che all’inizio formano il corpo del dio cosmico: attraverso di essa il myste ritrova in se stesso frammenti di una creazione spirituale dimenticata nelle profondità del proprio io. L’esperienza estatica gli permetterà di far rivivere in sé il mondo smarrito degli dèi, edificando un corpo spiritualizzato e immortale. La «grazia» concessa dal Dio sommo è il dono recato al myste per compiere un viaggio verso una nuova identità, verso la palingenesi. L’estasi è suscitata attraverso specifiche tecniche respiratorie: esiste un rapporto sostanziale tra lo pneuma o soffio individuale e il respiro cosmico; la tecnica respiratoria stabilisce un nesso diretto fra lo pneuma dell’uomo e lo pneuma cosmico, la materia di cui sono composti i corpi superiori. Una vera noia se paragonata ai fantasmagorici scenari prospettati ne L’artificio supremo…
fonte https://mikeplato.myblog.it/2018/12/13/il-...dellalchimista/
|