| Adamo precipita
Per alcune scuole di pensiero, perfettamente ortodosse nell’ambito teologico contemporaneo, non solo l’anima, bensì tutta la creazione erano, in origine, di natura sovrasensibile e non avrebbero assunto forma sensibile senza gli eventi occorsi a seguito del comportamento della coppia primordiale: fu la “caduta” a distruggere l’armonia dei primordi e provocare la discesa di tutti i mondi, ovverosia il concretarsi della manifestazione. Questa concezione è condivisa dai cristiani, come dagli ebrei, anche se l’importanza antropologica di una simile conclusione sembra sfuggire agli stessi credenti che sono tutt’altro che propensi a struggersi convenientemente della propria condizione. Da questa lettura degli avvenimenti delle origini si potrebbero dipanare una serie di suggestive comparazioni con altre forme di pensiero soprattutto di scuola orientale. Per queste filosofie la realtà, anche quella extra mondana, è frutto della proiezione immaginifica della mente umana, essa non ha, in altre parole, uno status ontologico proprio. E’ pertanto utile sottolineare come, rimanendo nell’ambito della tradizione ebraico cristiana, possiamo leggere una riflessione proposta da Elio e Ariel Toaff, eminenti personalità della cultura ebraica, che a proposito dell’evento della caduta delle origini scrivono: «La colpa di Adamo, interrompendo il naturale flusso creativo nella natura, ha provocato il suo allontanamento dal creato. Dio è divenuto così trascendente ed il mondo è andato differenziandosi, sfumando e stemperando sempre di più il proprio “colore” divino. Nell’Eden infatti la realtà non era materiale e solo la colpa di Adamo l’ha fatta precipitare dal livello spirituale a quello sensibile» (dal commento introduttivo a “Il libro dello splendore” di Elio e Ariel Toaff pag. XX). La considerazione ci sembra essenziale se non addirittura topica perché attribuisce all’uomo, non a Dio, la creazione del mondo e quindi la sua “imperfezione”.
Adam torna, il Re ritorna
Il “momento” in cui avvenne la trascendenza di Dio è il momento chiave di tutta la tematica religiosa, di tutti i rapporti successivi tra Dio e uomo, l’attimo di separazione che ha segnato per sempre, o comunque per questo ciclo, le scansioni del ritmo cosmico e che, in alcune forme religiose, ha trasposto il “giardino”, ormai operativamente irraggiungibile, nel mero territorio della fede. Mircea Eliade ha fatto di questo momento il nocciolo della sua ricerca complessiva snodatasi nel corso dei decenni e alimentata con il contributo di migliaia di pagine, tanto che, alla fine della sua carriera, colto dallo scrupolo di non essersi espresso con sufficiente chiarezza su questo tema, annotò sul suo Giornale una riflessione che ha quasi il sapore di una confessione: «Sfoglio oggi il mio Trattato soffermandomi soprattutto sul lungo capitolo sugli dèi del cielo; mi chiedo se il messaggio segreto del libro sia stato capito…i miti e le “religioni”, in tutta la loro varietà, sono il risultato del vuoto lasciato nel mondo per essersi il dio ritirato, trasformato in Deus Otiosus e scomparso dall’attualità religiosa… ma si sarà capito che la “vera” religione inizia solo dopo che Dio si è ritirato dal mondo? Che la sua trascendenza si confonde e coincide con il suo eclissarsi?…» (dal Giornale dell’8 novembre 1959). Forti di queste essenziali considerazioni, riprendiamo il nostro ragionamento sul testo biblico con ulteriori riflessioni focalizzando ancora di nuovo l’attenzione sull’episodio della “caduta”. In questo accadimento è narrato “il dramma” per antonomasia, l’origine di tutti i successivi catastrofici eventi che sono conseguenti alla perdita della perfezione originaria, eventi che hanno la capacità di riverberarsi fino al mondo presente il cui smarrimento e il cui rotolamento verso ere sempre più plumbee, continua a procedere con sempre maggior speditezza verso il punto finale del ciclo. Il processo degenerativo ha imposto che un corpo grossolano abbia rivestito il “corpo spirituale”, presenza interiore che rimane, nella coscienza oscurata dei contemporanei, allo stato latente, e l’occulta presenza di questa latenza spirituale consente comunque la possibilità di un ritorno allo stato originario, perché la sapienza divina, almeno secondo la visione cabalistica ebraica, mutuata anche nel cosiddetto cabalismo cristiano, predispose per l’uomo una possibilità autonoma di comunicazione con l’Altissimo. Il fondo di tutti i miti e le leggende che parlano di un regno usurpato e di una restaurazione da compiersi in definitiva si articolano tutte intorno al medesimo tema, un “Io”, con l’apparenza del “Sé”, s’è impadronito del complesso anima-spirito e lo tiene in soggezione e il ritorno del Re legittimo non è altri che la restaurazione dell’ordine primordiale delle cose e quindi il ritorno del Re (il Sé) nel suo legittimo reame, da dove è stato scacciato con la “caduta”. Nel corpo dell’Adam Kadmon (Uomo Superiore Celeste) sono quindi incise le 32 vie di sapienza, che sono formate da dieci luci sefirotiche e da 22 lettere i cui caratteri sono veri e propri sigilli e di cui nomi inintelligibili, se pronunciati, possiedono un Suono percepibile soltanto attraverso la folgorazione dello Spirito. Il “suono” delle trentadue lettere, divine manifesta la forza creatrice dello Spirito, e questo suono che può condurre alla salvezza è celato dentro di noi perché il nostro organismo “è intessuto di cosmiche Parole”. Come sostengono i cabbalisti non è senza conseguenze il fatto che Dio abbia creato l’uomo “a propria immagine e somiglianza” dal momento che in questo modo le sefhirot debbono necessariamente agire anche sull’uomo e ancora perché all’immagine del mondo delle sephirot si può risalire attraverso l’immagine dell’uomo. Ci si trova pertanto di fronte a delle vere e proprie “Signaturae rerum” (cioè “forze plasmatrici”, ecco il senso più profondo della similitudine dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio) e anche qui, volendo fare delle comparazioni, non si può non richiamare l’antico Egitto in cui a un sacerdozio specializzato era affidato il compito di svegliare con una forma di teurgia sonora, il “dio” che era occultato nelle membra dell’uomo. Ecco quindi che, come le membra del Figlio dell’Uomo, “veri organi del Re”, che sono intessute dell’essenza della Torah (essenza di Luce che il Verbo ha manifestato con sapienza, secondo il volere del Padre) così anche noi, investiti dallo spirito, da quel Soffio che alita nel profondo dell’essere, possiamo risvegliarci alla nostra vera natura, ricordarci, non rammentare, la nostra intrinseca regalità. Quando il Cristo pronuncia l’enigmatica frase “Il figlio dell’uomo” è a questo uomo primordiale e cioè all’Adam Kadmon che si può pensare che egli si riferisca. E’ stato proprio il dotto gesuita Athanasius Kircher, complessa e dominante personalità del XVII secolo, a tracciare, per la prima volta apertamente, il parallelo tra la teoria cabalistica dell’Adam Kadmon e il concetto di Gesù, quale “uomo primordiale” della teologia cristiana. Questa redenzione però non riguarda solo l’adepto ma anche la natura. Seguiamo questa riflessione proposta da Manuel Insolera nel suo saggio La Trasmutazione dell’uomo in Cristo: «Il mistico e il cabalista rigenerando se stessi riscoprono automaticamente una Natura essa stessa rigenerata: giungono cioè a percepire l’essenziale verginità della natura – al di là della sua apparente “corruzione” essenzialmente riconducibile allo stato di “corruzione” dello sguardo umano che vi si posa – solo al momento del raggiungimento della propria personale purificazione. L’alchimista, invece, procede rigenerando parallelamente se stesso e una determinata porzione di elementi naturali: ossia interagisce – nel laboratorio esterno della sua arte manipolatoria – sulla apparente “corruzione” sia della sua personale microcosmica facoltà percettiva che della macrocosmica Natura da lui percepita; e questo continua incessantemente a ripetere, fino a “restituire” ad entrambe tali dimensioni il loro stato di verginità quintessenziale».
segue L’osservazione crea la realtà
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