IL FARO DEI SOGNI

Categoria:Inventori italiani

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Pagine nella categoria "Inventori italiani"

Questa categoria contiene le 178 pagine indicate di seguito, su un totale di 178.
A

Carlo Adamoli

B

Giuseppe Eugenio Balsamo
Luca Barnocchi
Eugenio Barsanti
Ettore Bellini
Enrico Bernardi
Alfonso Bialetti
Edoardo Bianchi
Augusto Bissiri
Gian Alberto Blanc
Francesco Antonio Broccu
Luigi Valentino Brugnatelli
Egidio Brugola
Ferdinando Brusotti
Carlo Felice Buzio

C

Luigi Caldera
Temistocle Calzecchi Onesti
Tullio Campagnolo
Matteo Campani
Giuseppe Candido
Alessandro Capra
Salvatore Carcano
Antonio Benedetto Carpano
Giovanni Caselli (abate)
Eugenio Cassani
Francesco Cassani
Filippo Cassola
Bernard Castro
Giovanni Cavalli
Filippo Cecchi
Mario Celso
Leonardo Chiariglione
Pio Chiaruttini
Giovanni Antonio Ciaschi
Teresa Ciceri Castiglioni
Gaetano Ciocca
Giovanni Codazza
Giuseppe Conti (abate)
Pietro Conti da Cilavegna
Salvatore Cortese
Adolfo Cozza
Silvio Crespi
Marcello Creti
Bartolomeo Cristofori
Alessandro Cruto

D

Corradino D'Ascanio
Marco Dané
Luca de Samuele Cagnazzi
Aldo Victor de Sanctis
Pietro de Zanna
Eufrosino della Volpaia
Girolamo della Volpaia
Giuseppe Di Giugno
Raimondo di Sangro

E

Giovanni Emanuele Elia
Luigi Emanueli

F

Francesco Faà di Bruno
Massimo Facchin
Federico Faggin
Pietro Antonio Falco
Guido Fassi
Francesco Fedi
Giovanni Paolo Feminis
Ettore Fenderl
Arturo Ferrara (imprenditore)
Andrea Ferretto
Beniamino Fiamma
Ubaldo Fiorenzi
Carlo Forlanini
Enrico Forlanini
Francesco ed Eugenio Cassani
Giuseppe Francini
Gaetano Fuardo
Ottavio Fuscaldo

G

Leon Battista Gaburri
Giuseppe Gabusi
Celestino Galli
Guido Gay
Vincenzo Geremia
Agostino Gerli
Emilio Ghisoni
Alberto Gianni
Giancarlo Giannini
Bartolomeo Gilardoni
Flavio Gioia
Dario Gonzatti
Gilberto Govi (fisico)
Pietrangelo Gregorio
Emilio Guarini
Guido da Vigevano
Luigi Gussalli

I

Francesco Illy

K

Pedro Kanof
Paolo Ketoff

L

Francesco Lana de Terzi
Baldassarre Lanci
Adelmo Landini
Enea Grazioso Lanfranconi
Leonardo da Vinci
Vito Leto
Lucio e Giuseppe Lozza
Vincenzo Lunardi

M

Francesco Malacarne
Arturo Malignani
Umberto Mandelli
Innocenzo Manzetti
Serafino Marchionni
Guglielmo Marconi
Tullio Marengoni
Giovanni Battista Marzi
Giuseppe Marzolo
Mario Masciulli
Domenico Mastini
Felice Matteucci
Erminio Meschini
Antonio Meucci
Antonio Michela Zucco
Eugenio Minisini
Peter Mole
Ernesto Montù
Leo Morandi
Giovanni Morbelli
Angelo Moriondo
Bruno Murari
Vincenzo Muricchio
Giuseppe Murnigotti

N

Giulio Natta
Ferdinando Negri
Leopoldo Nobili

P

Italo Pacchioni
Ercole Pace
Oreste Pasquarelli
Fabio Perini
Pier Giorgio Perotto
Giovanni Petronio Russo
Giovanni Battista Piatti
Pietro Pierini
Gaetano Pilati
Giuseppe Pino (inventore)
Biagio Pogliano
Ignazio Porro

R

Giovanni Rappazzo
Giuseppe Ravizza
Abiel Bethel Revelli di Beaumont
Mario Ricco
Massimo Rinaldi (inventore)
Giovanni Battista Rodella
Andrea Romagnoli
Raffaele Rossetti
Luigi Russolo

S

Angelo Sala
Dario Sala
William Salice
Salvino degli Armati
Ermenegildo Santoni
Gianni Sarcone
Aldo Settimio Boni
Alessandro della Spina
Aristide Staderini
Oscar Supino

T

Dino Terragni
Marco Terragni
Teseo Tesei
Luigi Torchi (inventore)
Gianello Torriani
Elios Toschi
Enrico Toti
Elio Trenta
Pellegrino Turri

V

Pietro Vassena
Marco Vegezzi
Giuseppe Vitali (generale)
Alessandro Volta

W

Guglielmo Walton

Z

Nicola Zabaglia
Giovanni Battista Zampironi
Giuseppe Zara
Vittorio Zonca





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260px-Carlo_Adamoli_-_Fotoritratto


Carlo Adamoli


Carlo Adamoli (Bellano, 7 novembre 1894 – Castano Primo, 31 agosto 1942) è stato un aviatore, inventore e imprenditore italiano.

Nacque a Bellano il 7 novembre 1894 da Francesco, ingegnere comunale. Pioniere dell'aeronautica, frequentò giovanissimo il corso per pilota nel battaglione aviatori dell'esercito (1914). Al 1º gennaio 1916 il Caporale Adamoli vola nella 10ª Squadriglia da ricognizione e combattimento che al 15 aprile 1916 diventa 27ª Squadriglia nella quale riveste il grado di Sergente. Decorato con medaglia d'argento nel corso della prima guerra mondiale, compì numerose ricognizioni sul terreno nemico, cadendo prigioniero, ma riuscendo a fuggire. La sua fuga ispirò due puntate di Luigi Barzini, intitolate Odissea, che furono pubblicate sul Corriere della Sera.

L'attività nell'industria

Nel corso del conflitto fu anche collaudatore nell'industria aeronautica torinese Pomilio, studiando la messa a punta del pattino di coda. Successivamente studiò un nuovo tipo di propulsore con l'ingegnere Hoche della Marelli, ed infine progettò e costruì nelle officine Farina (in seguito chiamate Pinin Farina), con l'ingegnere Enea Cattani, il prototipo di un innovativo tipo di caccia biplano con ala ad incidenza variabile, terminato nel 1919 presso le Officine Moncenisio. Tale modello fu noto con il nome Adamoli Cattani.
Gli studi sul berillio

Nel 1927 fondò con il conte Piero Ferretti l'Aerocentro da Turismo di Milano dell'Aero Club, di cui fu segretario fino al 1929, e successivamente si recò negli Stati Uniti per diffondere l'uso dell'elica metallica Rietti. Si dedicò poi alle esperienze sul berillio, finalizzate alla fabbricazione di leghe leggere di berillio-alluminio-magnesio, più leggere dell'alluminio e più resistenti dell'acciaio, conducendo gli esperimenti in un laboratorio di Milano. Tali studi, condotti dapprima con il professor Gino Panebianco e poi anche con il professor Luigi Losana del politecnico di Torino, sfociarono in brevetti industriali denominati procedimenti Adamoli.
Le imprese aviatorie

Tra il 1934 e il 1935 intraprese con un Caproni-Ca111 il volo Roma – Tananarive - Città del Capo, percorrendo in sei mesi circa 40000 km alla ricerca di giacimenti minerari, e fu accolto ufficialmente in Madagascar dal governatore di quel paese. Qui, dopo aver conosciuto i trasvolatori atlantici Assolant e Lefèbre, pensò di compiere un volo dalle coste del Madagascar fino a Salisbury senza scalo, che era da loro ritenuto irrealizzabile, ma che egli portò a termine con successo.[1]
L'attività metallurgico-industriale
Lo stabilimento aeronautico di Chivasso

Al suo ritorno in Italia fu promosso capitano per merito aeronautico e riprese gli studi di laboratorio sul berillio e sul magnesio, progettando e realizzando a Chivasso uno stabilimento industriale con criteri innovativi, nell'ambito della SAPPI (Società Anonima Processi Privative Industrialii, che ebbe la medaglia del Consiglio Nazionale delle Ricerche alla mostra delle invenzioni 'Leonardo da Vinci' di Milano) e la cui direzione fu affidata al chimico e deputato socialista professor Gino Panebianco. Con l'entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale questa attività industriale venne requisita e fu affidata alla Regia Aeronautica; ciò avvenne a causa dell'importanza strategico-militare che rivestiva il berillio, sia nella berilliatura degli acciai, sia nella produzione come elemento chimico, per le sue implicazioni nella nascente tecnologia atomica, essendo resistente alle alte pressioni. In seguito alla requisizione degli stabilimenti la direzione fu assunta dal generale Mario Infante, il quale impedì subito ad Adamoli, Losana e Panebianco l'accesso agli stabilimenti; di conseguenza la produzione rimase paralizzata.
La morte

Anche i giapponesi avevano mostrato grande interesse per l'importanza strategico-militare degli studi sul berillio, ed intendevano avvalersi della collaborazione di Carlo Adamoli, il quale però cadde con l'aereo, essendo egli stato insolitamente richiamato in servizio a quasi cinquant'anni di età, e destinato come ufficiale pilota sugli stukas, pericolosissimi modelli ad elevata velocità (detti anche “tuffatori” o “picchiatelli”) che si prestavano alle picchiate. Tale circostanza, insieme alla morte, costituisce un elemento di mistero, a causa degli importanti segreti militari di cui Carlo Adamoli era depositario. Egli cadde a Castano Primo il 31 agosto 1942, ricevendo gli onori militari. Il governo italiano gli tributò solenni funerali di stato.
L'archivio

Alla sua morte la vedova Teresa Garavini, sfollata a Bellano (Lago di Como), venne posta sotto sorveglianza dal generale Carlo Favagrossa del Fabbriguerra, nel timore che gli importanti documenti tecnici di Carlo Adamoli potessero finire nelle mani dei tedeschi. Il suo archivio infatti era stato smembrato: parte di esso fu trasferito d'ufficio a Torino, mentre il resto fu sistemato in alcuni magazzini a Bellano ed a Musso. Qui la guardia repubblichina tentò inutilmente di entrare in possesso di alcuni di questi documenti che furono abilmente celati dalla vedova. Il cospicuo archivio di Carlo Adamoli, oggi conservato dal conte Carlo Piola Caselli che lo ha ricevuto dalla nonna materna Teresa Garavini, comprende circa 30 000 documenti e si compone di varie sezioni: grande guerra, aereo Adamoli Cattani, progettazione automobilistica con l'ingegner Molino, studi ed esperienze, repertorio brevetti, finanziamenti, giacimenti minerari in varie parti del mondo, cartografia, industria europea, progetti vari e dello stabilimento di Chivasso, soggiorni e corrispondenza all'estero, relazioni con le autorità militari dell'esercito, della marina e dell'aviazione, oltre che civili e politiche.




fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Adamoli

 
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Giuseppe Eugenio Balsamo



Giuseppe Eugenio Balsamo (Lecce, 5 aprile 1829 – 1901) è stato un docente, inventore e politico italiano.


Biografia

Compiuti gli studi inferiori presso un collegio dei Gesuiti consegue a Napoli la laurea in diritto civile e diritto canonico. Compie gli studi scientifici alla Sorbona, dove ha modo di conoscere studiosi e ricercatori con cui collabora negli anni seguenti. Nel 1861 è titolare di fisica e chimica presso il real liceo Giuseppe Palmieri di Lecce.

Alternando l'insegnamento alla ricerca pubblica diversi studi sulla produzione di elettricità con pile di nuova tipologia, dotate di elettrodi di ferro trattato elettroliticamente in sostituzione di rame e zinco, ben più costosi. Il grande valore scientifico delle sue ricerche gli vale il sostegno dell'Accademia delle scienze di Parigi, dove il chimico francese Eugène-Melchior Péligot da lettura di un'apposita memoria. Grazie a tale risultato il ministero della pubblica istruzione promuove un potenziamento delle strutture del liceo. Nel 1859 collabora col gesuita Nicola Miozzi all'esperimento di illuminazione elettrica del palazzo dell'Intendenza di finanza di Lecce, attuato in occasione della visita del Re Ferdinando II.

Negli anni della maturità si dedica ad attività affaristico-economiche e politiche. Nel 1859 figura tra i fondatori della Banca Agricola Commissionaria e nel 1882 viene eletto per la prima volta deputato.
Bibliografia

Giuseppe Eugenio Balsamo, su scienzasalento.unile.it. URL consultato il 12 agosto 2020.





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Luca Barnocchi



Luca Barnocchi (Verchiano, 21 ottobre 1905 – Foligno, 14 gennaio 1974) è stato un inventore e ingegnere italiano.
Biografia
La vettura realizzata da Luca Barnocchi nel 1947, a fianco il tecnico meccanico Luigi Cavallini
Disegno originale della carrozzeria della vettura realizzata da Luca Barnocchi nel 1947
La vettura di Luca Barnocchi (alla guida), senza carrozzeria durante le prove nel 1947

Compì i primi studi presso il collegio Rosi di Spello e poi studiò a Camerino. In seguito si dedicò sempre a studi di fisica ed ingegneria meccanica.

Gli studi di fisica ed ingegneria meccanica lo portarono a dedicarsi anche alla meccanica automobilistica: nel 1947 realizzò, tra l'altro, un'automobile con caratteristiche avveniristiche sia per aerodinamica che per meccanica. Questo veicolo aveva quattro ruote motrici e sterzanti e sospensioni idropneumatiche (simili a quelle che adottò, tempo dopo, la Citroën), ma restò solo un prototipo. Modificò la Fiat 600 dotandola di motore e trazione anteriori e donò vari brevetti per autoveicoli all'Esercito Italiano. Altri suoi brevetti riguardarono un metodo per la produzione del deuterio, una tecnica per la realizzazione di solai in cemento armato, l'accensione elettronica per i vari motori a combustione interna, un metodo per la produzione sotto vuoto di paste alimentari, un differenziale in bagno di mercurio ed altri ancora.

A cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta ideò la realizzazione degli stabilimenti aeronautici dell'O.M.A. che furono poi realizzati dal cugino, l'ing. Umberto Tonti, ma non entrò mai nella società.

Una sua attività fu per anni quella d'imprenditore edile, la sua impresa contava oltre 300 dipendenti. Tra le più importanti realizzazioni, tutte nel comune di Foligno, sono da annoverare la centrale idroelettrica di Rasiglia (riattivata di recente), di cui curò anche la parte elettromeccanica, il quartiere "INA Casa", la Scuola Elementare "Santa Caterina", la scalinata del Parco dei Canapè e la ristrutturazione della Cattedrale di San Feliciano gravemente danneggiata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale.

Nel 1958 si trasferì per alcuni anni a San Paolo del Brasile, dove conseguì la laurea in ingegneria meccanica e lavorò presso l'industria automobilistica Willys do Brasil.

Tornato a Foligno, si dedicò ancora ai suoi studi, tra cui uno (mai pubblicato) sulla gravitazione universale.

Nel 1946 è stato anche promotore, insieme ad Emilio De Pasquale e ad altri concittadini, della moderna edizione della Giostra della Quintana, di cui curò anche l'aspetto scenografico e l'ambientazione, noleggiando a proprie spese i costumi per i figuranti.

È stato il primo Presidente dell'Ente Giostra della Quintana, carica che ricoprì per alcuni anni.
Bibliografia

Sergio Giustozzi, "Lo sapevate che..." vol. 10, Foligno, 2008
Vanda Tonti, "Tanto è mercante chi guadagna, tanto è mercante chi rimette", Tuderte, Todi, 1994, IT\ICCU\UM1\0000602





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Eugenio Barsanti



Nicolò Barsanti, meglio conosciuto come Eugenio (Pietrasanta, 12 ottobre 1821 – Seraing, 18 aprile 1864), è stato un presbitero, ingegnere e inventore italiano, l'ideatore e costruttore del primo motore a combustione interna funzionante.


Biografia

Gracile di corporatura e di cagionevole salute, venne inviato dalla famiglia presso i padri scolopi a Pietrasanta, allo scopo di poter frequentare l'interno istituto ad orientamento scientifico, dove prese i voti nel 1844,[1] assumendo il nome di padre Eugenio.

Nel 1841 Barsanti iniziò la sua attività didattica insegnando matematica e fisica al Collegio San Michele di Volterra.[1] Qui, illustrando agli allievi un esperimento sull'esplosione di una miscela incendiaria di aria e idrogeno (usando una pistola di Volta di sua costruzione) ebbe l'idea di sfruttare l'espansione rapida del gas per sollevare un pistone. Trasferitosi ad insegnare fisica e idraulica nel 1845 all'Osservatorio Ximeniano di Firenze, di livello universitario, ebbe la possibilità di sviluppare la sua idea, dedicandosi dopo alcuni anni a tempo pieno alla realizzazione del progetto di motore a scoppio. Barsanti fu uno sperimentatore geniale e precoce: un manoscritto conservato presso l'Osservatorio ximeniano, dettato da lui stesso, dimostra come già nel periodo della sua residenza a Volterra tentasse di ricavare forza motrice dallo scoppio di una miscela di idrogeno e aria.[1]
Motore a scoppio Barsanti e Matteucci, 1854 (riproduzione ante 1962, Museo nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci, Milano). Fu il primo esempio di motore a combustione interna usato per azionare macchine utensili.

Incontrò nel 1851 l'ingegnere Felice Matteucci con cui collaborò per il resto della vita.[1] I due presentarono l'invenzione il 5 giugno 1853 presso l'Accademia dei Georgofili di Firenze[1][2] e, nell'anno successivo, riuscirono a brevettarla in Inghilterra (Obtaining Motive Power by the explosion of Gases). Negli anni successivi l'invenzione ottenne il brevetto nel Regno di Sardegna, in Francia, Austria, Belgio, di nuovo in Inghilterra (1857) e in altri Paesi.[1] L'Italia dell'epoca non era ancora unita e non era in grado di offrire sufficienti garanzie per la tutela internazionale.

I due collaborano allo sviluppo di un motore a due cilindri con potenza di cinque cavalli vapore nel 1856, poi due anni dopo costruiscono (con l'ausilio di un meccanico di Forlì, Giovanni Battista Babacci) il modello a due pistoni contrapposti che fu realizzato a Zurigo dalla ditta Escher-Wyss.

La "Società del nuovo motore" fu fondata nel 1860.[1] La costruzione del motore ebbe inizio lo stesso anno presso le officine di Pietro Benini. Quello stesso anno, durante l'Esposizione Nazionale di Firenze delle Arti e delle Industrie, fu messo in funzione un modello del motore Barsanti-Matteucci, costruito dalle Officine meccaniche del Pignone.[3]
Modello del motore Barsanti-Matteucci all'osservatorio Ximeniano di Firenze

Il vantaggio del motore Barsanti-Matteucci rispetto ad altri inventati in anni immediatamente successivi, tra cui quello elaborato nel 1859 dal belga, naturalizzato francese Étienne Lenoir, era di sfruttare il moto di ritorno del pistone dovuto al raffreddamento del gas piuttosto che la spinta dello scoppio, difficilmente governabile per l'epoca. Prove dinamiche dimostrarono un rendimento cinque volte più elevato per il nuovo motore rispetto agli altri e per questo ottenne la medaglia d'argento dall'Istituto Lombardo delle scienze.in che anno?

Barsanti era molto convinto della sua idea, che riteneva superiore alla macchina a vapore perché più sicura, meno ingombrante e più pronta nell'avviamento. Non era però sufficientemente leggera per l'uso su veicoli stradali. Gli impieghi previsti erano la produzione di energia meccanica per fabbriche e officine e la propulsione navale.

Furono inoltre costruiti nuovi motori sempre più perfezionati e potenti, utilizzati nei trasporti ferroviari e in quelli marittimi. Nel 1861, insieme al Matteucci e a G.B. Babacci, Barsanti ottenne un nuovo brevetto, in base al quale la ditta Escher Wiss & C. di Zurigo costruì un motore di 12 HP, che ebbe un notevole successo anche a livello commerciale.[1]
Lapide e busto nella basilica di Santa Croce

Dopo diverse ricerche Barsanti e Matteucci decisero di affidare la produzione industriale di un motore da quattro cavalli alla società John Cockeril di Seraing in Belgio, a partire dal prototipo costruito nelle Officine di Precisione Bauer e C. di Milano. Le richieste giunsero da tutta Europa e il successo commerciale sembrava imminente.

Per la sua realizzazione in serie, Barsanti decise di rivolgersi allo stabilimento di John Cockeril a Seraing e pertanto nel 1864 si recò in Belgio, dove contrasse una febbre tifoide che lo portò alla morte il 18 aprile 1864.[1]

Matteucci da solo non riuscì a fare fronte alla gestione aziendale e alla tutela dei brevetti e la commercializzazione del motore fallì. Egli tornò ad occuparsi della sua materia, l'idraulica.

Nel 1877 Felice Matteucci, di fronte all'attribuzione dell'invenzione del motore a scoppio a Nikolaus August Otto, rivendicò l'invenzione a sé e a Barsanti, facendosi forte del brevetto depositato in Inghilterra, Francia, Piemonte e all'Accademia dei Georgofili a Firenze. Ma non riuscì a farsi riconoscere l'invenzione, nonostante il disegno di Otto fosse palesemente simile al loro.

Nel 1954 le ceneri di Barsanti furono traslate dalla Chiesa di San Giovannino degli Scolopi nella Basilica di Santa Croce, dove ora riposano insieme a quelle di altri illustri italiani e fiorentini.
Archivio

Il Fondo Barsanti Eugenio[4] è stato acquistato dalla Biblioteca Universitaria di Pisa nel 1939 dall'erede Isolina Barsanti, dove è conservato.

Numerosi documenti relativi a tutti i brevetti richiesti dalla Società anonima del nuovo motore Barsanti e Matteucci sono conservati presso l'archivio della biblioteca del Museo Galileo.[5]





fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Eugenio_Barsanti

 
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Ettore Bellini


Ettore Bellini, detto Etonie (Foligno, 13 aprile 1876 – Ray-sur-Saône, 1943), è stato un ingegnere e inventore italiano.

Biografia

Compiuti gli studi di ingegneria presso l'Università di Napoli, nel 1901 venne assunto come ingegnere elettrotecnico dalla Regia Marina Italiana e nel 1906 divenne capo del "Laboratorio elettrico navale" a Venezia dove fu responsabile delle ricerche sulle applicazioni delle onde radioelettriche a navi da guerra e sottomarini.

Diventò poi allievo e assistente di Guglielmo Marconi e successivamente suo collaboratore nelle prime applicazioni pratiche della radiotelegrafia; per questo seguì il grande scienziato in Francia e Inghilterra.[1]

Nel 1906 venne inviato in Francia al fianco di Alessandro Tosi per effettuare ricerche sulla direzionalità delle onde hertziane. Il progetto venne patrocinato da Giovanni Agnelli e dalla FIAT[2][3]

Durante questi viaggi conobbe e sposò una francese e dopo il matrimonio si stabilì in Francia: è qui che venne chiamato "Etonie" e tuttora è noto come "Etonie Bellini". Perfezionando le disposizioni di Alessandro Artom, inventò il radiogoniometro assieme al capitano Alessandro Tosi della Regia Marina, rivoluzionario strumento per la radionavigazione costituito da una catena di antenne e stazioni distribuite sul tutto il territorio che emettono continuamente segnali elettromagnetici tradotti dagli strumenti di bordo di aerei e navi per dare una posizione ed una direzione rispetto alla stazione; nel 1910 il sistema Bellini-Tosi fu installato all'ufficio postale francese di Boulogne-sur-Mer oppure, per altre fonti, nel 1906 in quello di Dieppe.[4]

Il sistema Tosi-Bellini si basava sulle MF (medie frequenze) e subiva le interferenze atmosferiche; probabilmente per questa ragione fu soppiantato dal più efficiente sistema Adcock HD DF nel 1939.[5]

Pur oramai "francesizzato", nel 1918, a testimonianza del proprio "orgoglio" italiano e del proprio costante attaccamento alla città natale, chiese ed ottenne che i figli fossero cittadini italiani e iscritti nei registri anagrafici del Comune di Foligno.
Bibliografia
Ernesto Simion, Il contributo dato dalla Regia Marina allo sviluppo della radiotelegrafia, a cura dell'Ufficio Storico della Regia marina, Roma 1927





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Enrico Bernardi


Enrico Zeno Bernardi (Verona, 20 maggio 1841 – Torino, 21 febbraio 1919) è stato uno scienziato italiano. Contribuí al miglioramento della meccanica delle prime automobili.

È uno dei precursori dell'invenzione dell'automobile azionata da motore a scoppio, assieme agli italiani Eugenio Barsanti e Felice Matteucci, all'ingegnere Aristide Faccioli e all'ingegnere belga Étienne Lenoir e agli ingegneri tedeschi Nikolaus August Otto, Karl Benz e Gottlieb Daimler. In particolare è stato il primo ingegnere al mondo a realizzare nel 1884 un veicolo azionato da motore a scoppio a benzina.[1]


Studi di meccanica

Nato a Verona, in via San Paolo 4 (dove il 28 giugno 1963 è stata posta una lapide commemorativa), da Lauro e da Bianca Carlotti. Compì gli studi primari a Verona. La sua intelligenza e la sua creatività erano veramente precoci, se, appena dodicenne, egli aveva incominciato a pensare all'autoveicolo e, con l'aiuto di alcuni compagni di scuole e di giochi, aveva costruito un rilevatore per studiare la differenza delle traiettorie in curva delle ruote esterne e interne. Nel 1856 il quindicenne Enrico Bernardi presentò alla Esposizione Veronese di Agricoltura e Industria alcuni modelli meccanici da lui realizzati presso le Officine Ferroviarie di Verona.

Studiò poi all'università di Padova e si laureò in matematica nel 1863. Insegnò prima nell'istituto tecnico di Vicenza e poi fu assistente e professore universitario a Padova presso la Regia Scuola di Ingegneria - Istituto di Macchine. In questo ambito approfondì gli studi intrapresi secoli prima da Erone alessandrino e da Leonardo da Vinci sugli assi e i criteri di trasmissione del moto nelle macchine, che portarono all'invenzione del differenziale; inoltre, nel 1896 Bernardi compì studi specifici sul differenziale e portò innovazioni importanti sullo sterzo applicato alle ruote direttrici di una carrozza a quattro ruote.

Nel 1896 ebbe inizio anche l'attività imprenditoriale dell'inventore, quando entrò in società nella Miari & Giusti, prima azienda automobilistica italiana, che da due anni aveva iniziata la produzione di un'automobile, progettata da Bernardi.

Dopo il ritiro dalla vita accademica, svolta soprattutto presso l'ateneo padovano, si trasferì a Torino nel 1917, dove trovò la morte due anni dopo a seguito di una trombosi cerebrale. Enrico Bernardi si sposò a Verona, dove abitò a lungo con la famiglia, ed ebbe due figli: Pia e Lauro.
Bernardi precursore dell'automobile
Enrico Bernardi, insieme alla moglie, prova la vettura a tre ruote sulle strade della Lessinia.
Prototipo di motore a scoppio di Enrico Bernardi. Esposto al Museo nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci, Milano.

Fin dal 1874 aveva iniziato studi sperimentali approfonditi sul motore a scoppio, inventato a Firenze da Eugenio Barsanti e Felice Matteucci nel 1853.

Nel 1882 ottenne un Brevetto industriale per il tipo di motore a scoppio da lui progettato e realizzato (n.14.460) anticipando di qualche mese sia il tedesco Benz che Daimler. Nel 1880 e 1884 mise a punto due prototipi di applicazione del motore a scoppio ad oggetti domestici.

Dapprima nel 1880 applicò la sua motrice Pia (nome di sua figlia) ad una macchina per cucire costruita per la figlia. Poi nel 1884 realizzò un veicolo a triciclo in legno per il figlio Lauro che aveva cinque anni, il quale fu azionato nelle strade di Verona (frazione di Quinzano). Questo si può considerare uno dei primi veicoli al mondo azionati da motore a benzina, che il creatore presentò all'esposizione internazionale di Torino del 1884.

Un analogo triciclo metallico a motore fu messo a punto da Benz solo nell'anno successivo 1885, anche se risulterebbe che il modello di Benz aveva maggiore potenza.

La realizzazione della prima automobile di Bernardi è ricordata da una lapide posta sulla sua casa di Verona dove è scritto: “In questa casa Enrico Bernardi ideò e sperimentò geniali opere della scienza e della tecnica e nel 1884 realizzò il primo veicolo con motore a benzina della storia” (la lapide è stata posta in occasione del centenario dell'invenzione). In quegli anni costruì motori a scoppio che avevano consumi minori e potenza maggiore dei corrispondenti prodotti tedeschi realizzati dagli ingegneri Karl Benz e Nikolaus August Otto. Nel trentennio di insegnamento all'Università di Padova (dal 1879 al 1910) elaborò i più importanti lavori scientifici e ideò i ritrovati più efficaci nel campo della meccanica della locomozione con motori a benzina. Si dedicò anche a studi e prototipi sulla trazione della bicicletta e della motocicletta.
Triciclo del 1896

Dal 1895 al 1898 brevettò dispositivi sulla meccanica interna del motore, sul suo sistema di raffreddamento e sulla trasmissione dei movimenti a ruote e sterzo. Contemporaneamente costruiva le sue prime automobili a tre e a quattro ruote, che cominciarono ad essere prodotte industrialmente a Padova nel 1896 dalla ditta “Miari e Giusti”.

La vettura Bernardi, con motore di 2,5 cv. di potenza presentava, sia nel motore sia nei meccanismi di trasmissione e guida, dispositivi originali che in parte precorsero i tempi e in parte sono rimasti nelle costruzioni automobilistiche successive: è opportuno ricordare che il ciclo Bernardi, a differenza del ciclo Otto, prevedeva l'incrocio delle fasi. La automobile con motore a scoppio di Bernardi raggiungeva i 35 km all'ora e con questa velocità vinse le prime corse. Tuttavia la produzione dell'azienda "Miari e Giusti" di Padova fu quantitativamente limitata.

A partire dal 1899 iniziò a Torino la produzione della Fiat che invece riuscì a svilupparsi su grande scala. Bernardi collaborò attivamente con i tecnici della Fiat nel primo ventennio del novecento fino alla sua morte avvenuta a Torino nel 1919. Il figlio Lauro Bernardi continuò l'attività del padre come dipendente e tecnico della FIAT di Torino.
Musei con macchine di Bernardi

Numerosi sono i musei italiani che conservano prototipi realizzati da Enrico Bernardi, assieme a documentazione sui suoi studi di meccanica applicata alla trazione automobilistica. Fra questi si citano:

Il "Museo E. Bernardi" dell'Università di Padova - Dipartimento di Ingegneria Industriale - via Venezia, 1 - esposizione di diversi prototipi di veicoli azionati da motore a scoppio alimentato a benzina, ampia documentazione originale sugli studi e scoperte e la vettura a 3 ruote del 1894 originale, personale di Enrico Bernardi con la quale percorse ben 60.000 km., donata dal figlio Lauro al Dipartimento, perfettamente funzionante e restaurata nel 2007 dai tecnici del Dipartimento completa di targa "42-2" (Padova-2) e libretto immatricolata nel 1901.
Il Museo Nicolis a Villafranca - viale Postumia (provincia di Verona) con una ampia esposizione di tutti i tipi di automobile realizzati in Italia ed in Europa all'inizio del Novecento e con i prototipi ottocenteschi. È esposto il motore a scoppio azionato a Benzina realizzato da Bernardi nel 1884 con la relativa documentazione storica.
il museo Moto & Ciclomotori DEMM a Porretta Terme ( in provincia di Bologna) è esposta la “motrice Pia “ prodotta nel 1884 , forse l’unico esemplare completamente conservato con descrizione di funzionamento operante dal vivo.
Esposizione a Verona - alcuni prototipi di veicoli di Bernardi di proprietà del Comune di Verona (Museo Civico di Storia Naturale), sono esposti temporaneamente presso l'Automobile Club di Verona, in via Valverde 34 (piano terra). In particolare sono esposti il primo veicolo al mondo del 1884 azionato da motore a scoppio a benzina (triciclo in legno realizzato secondo la minuzionsa relazione tecnica del figlio ing. Lauro Bernardi, dotato di motore a scoppio originale) e il prototipo della vettura a 3 ruote Bernardi.
Museo dell'automobile di Torino - nel museo Carlo Biscaretti di Ruffia, ora intestato a Giovanni Agnelli, in corso Unità d'Italia 40 ci sono alcune testimonianze dei prototipi realizzati alla fine dell'Ottocento.
Museo nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci - documenti e prototipi e un esemplare della vettura a 3 ruote Bernardi.
"Museo Storico della Motorizzazione Militare della Cecchignola Roma" - un esemplare della vettura a 3 ruote Bernardi.
Altri musei tecnico-scientifici italiani.

Biografia sintetica

1841: nasce a Verona, in via San Paolo 4 (dove il 28 giugno 1963 è stata posta una lapide commemorativa), dove risiederà con la famiglia fino all'inizio del Novecento e, nei periodi estivi nel paese limitrofo (poi divenuto frazione) di Quinzano.
1863: Laurea in matematica a Padova e assistenza nelle cattedre di geodesia, idrometria, meccanica razionale e fisica sperimentale.
1870: pubblicazione di Studio sull'eclisse solare con conseguente aggregazione all'Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti.
1873: studio su un nuovo motore a gas illuminante, funzionante secondo il ciclo Barsanti e Matteucci.
1879: cattedra di macchine idrauliche termiche e agricole presso I'Università di Padova.
1882: deposito del brevetto relativo a motore a combustione interna a gas per le piccole industrie.
1884: Primo prototipo al mondo di veicolo con motore a scoppio alimentato a benzina, presentato all'Esposizione internazionale di Torino e premiato all'EXPO con medaglia d'argento ovvero il primo premio.
1885-89: costruzione di un motore a benzina per l'autolocomozione.
1892: presentazione del primo motoscoter a tre ruote in fila.
1894: presentazione della vettura automobile a tre ruote costruita industrialmente azionata da motore a scoppio a benzina.
1894: fondazione a Padova della "Miari & Giusti" per la produzione industriale della automobile di Bernardi.
1898: un'auto della Società Italiana Bernardi vince la gara "Torino-Asti-Alessandria-Torino".
1902: Bernardi incontra a Padova Giovanni Agnelli e inizia una collaborazione tecnica con la FIAT.
1917: dopo diversi anni di collaborazione con i tecnici della FIAT si trasferisce definitivamente a Torino con la famiglia.
1919: muore a Torino.

Tributi

A Bernardi è intitolata una piccola piazza nel quartiere veronese di Veronetta, non lontana da Palazzo Giusti, in cui ha sede l'Istituto Professionale per i Servizi Commerciali Michele Sanmicheli[2]
Nel 2014 a Verona nei giardini di piazza Arsenale è stato collocato un monumento a lui dedicato, in occasione del 130º anniversario dalla sua costruzione del primo veicolo al mondo azionato da un motore a scoppio alimentato a benzina[3]
Nel 2020 l'Università degli studi di Padova e Carthusia Edizioni hanno pubblicato un volume su di lui, nell'ambito delle celebrazioni per l'Ottocentenario dell'Ateneo (Il segreto del futuro, di Paola Zannoner, con illustrazioni di Paolo d’Altan, ISBN 9788869451126)





fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Bernardi

 
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Alfonso Bialetti


Alfonso Bialetti (Casale Corte Cerro, 17 giugno 1888 – Omegna, 4 marzo 1970) è stato un inventore, imprenditore e operaio italiano.


Biografia

Nacque a Montebuglio, frazione del comune di Casale Corte Cerro, nel Cusio. Emigrò giovanissimo in Francia dove divenne operaio fonditore. Nel 1918 fece ritorno nella natìa Montebuglio, dove l'anno successivo, nella limitrofa Crusinallo, aprì una fonderia[1], la Alfonso Bialetti & C. - Fonderia in Conchiglia, che produceva semilavorati in alluminio. Nella sua esperienza lavorativa francese, Bialetti apprese la tecnica di fusione in conchiglia dell'alluminio[2], che lo orientò verso gli anni trenta alla progettazione di uno strumento domestico in metallo per la preparazione del caffè.

Il 1933 fu l'anno dell'invenzione di un apparecchio che rivoluzionò totalmente il metodo della preparazione del caffè, che soppiantò le tradizionali napoletane: la moka[3]. Progettata dallo stesso Alfonso[4], la sua produzione venne avviata in quello stesso anno, e fino al dopoguerra rimase a carattere artigianale con 70.000 pezzi l'anno[2].

Leggenda vuole che l'idea per questa invenzione sia venuta a Bialetti grazie alla lisciveuse, antenata della moderna lavatrice, che si componeva di un pentolone in cui l'acqua veniva fatta bollire e il vapore, salendo, arrivava ai panni posti sopra un filtro: in soldoni lo stesso meccanismo della moka. Il nome invece fu scelto in onore della città Mokhā (Yemen), famosa esportatrice di una varietà di caffè estremamente apprezzata.[5] Nel frattempo l'alluminio è diventato molto comune sotto gli anni della dittatura fascista, ben si presta alla costruzione della moka perché è leggero ma resistente e allo stesso tempo sinonimo di modernità.[6]

Nel 1946, il figlio Renato, tornato da un periodo di reclusione in un campo di prigionia tedesco durante la seconda guerra mondiale, prese le redini dell'azienda. Con una efficace strategia aziendale, valorizzò l'invenzione del padre avviando la produzione su scala industriale delle caffettiere e la successiva e intensa pubblicizzazione dal 1953 con "l'omino coi baffi", una caricatura dello stesso Renato Bialetti[7], creato da Paul Campani.

Da allora la moka si diffuse rapidamente in tutto il mondo, e la sua produzione riguardò oltre 1 milione di pezzi l'anno.[in tutto il mondo?]




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Edoardo Bianchi


Edoardo Bianchi (Milano, 17 luglio 1865 – Varese, 3 luglio 1946) è stato un imprenditore e inventore italiano, fondatore della F.I.V. Edoardo Bianchi.


Biografia
Bicicletta militare della Bianchi conservata al Museo nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci, di Milano.
Esemplare di motocicletta costruita dalla Bianchi nei primi anni del novecento.
Autovettura Bianchi Tipo C 20-30 HP del 1909, carrozzata limousine, esposta al Museo Nicolis di Villafranca di Verona.

A sette anni fu accolto nell'orfanotrofio dei Martinitt, dove venne a conoscenza della meccanica apprendendone i primi rudimenti.

Nel 1885 riuscì a impiantare una piccola officina meccanica nel centro storico di Milano, in via Nirone, fra le prime a livello nazionale destinate all'attività di riparazione e costruzione di velocipedi.

Dotato di grande ingegno meccanico, seguì meticolosamente i processi tecnologici legati al nascente mercato delle biciclette: riducendo il diametro della ruota anteriore, adottando la catena di trasmissione del movimento (inventata da poco tempo in Francia), e abbassando l'altezza dei pedali, creando così una vera e propria azienda di settore.

Nel 1888 avviò la costruzione delle prime biciclette con ruote pneumatiche, applicando ai mezzi l'invenzione che John Boyd Dunlop aveva realizzato pochi mesi prima nel Regno Unito. Il successo del prodotto lo portò ad investire presto nello sport, partecipando dall'ultimo decennio del XIX secolo alle prime gare ciclistiche europee.

Divenuto ormai un affermato imprenditore dell'industria ciclistica italiana, nel 1895 fu convocato dalla Regina Margherita al Palazzo Reale di Monza, per mostrare il funzionamento della bicicletta e istruirne all'uso la sovrana. Bianchi studiò un telaio che fosse compatibile con le ingombranti gonne dell'epoca, facendo così nascere la bicicletta da donna.

Affascinato dall'invenzione del motore a scoppio, già alla fine del XIX secolo aveva sperimentato dei motori De Dion-Bouton su tricicli di sua costruzione. I collaudi furono rallentati da un principio d'incendio durante un giro di prova, che provocò a Bianchi una serie di ustioni alle mani. Dopo alcune settimane di convalescenza la sperimentazione fu completata e i tricicli furono posti in vendita a partire dal 1900.

Nel 1901 brevettò la trasmissione a cardano per le biciclette, seguita nel 1913 da quella del freno anteriore, portando contestualmente la sua azienda nel mercato destinato alla fabbricazione delle motociclette e delle autovetture di lusso, alle quali si accostò in tempi successivi anche quella degli autocarri.

Come molti altri capitani dell'industria dell'epoca, all'ingresso dell'Italia nella prima guerra mondiale, partecipò con le sue fabbriche allo sforzo bellico della nazione, realizzando biciclette pieghevoli e ammortizzate da destinare alle forze dell'ordine e ai vari reparti del Regio Esercito Italiano; accanto alla fornitura di: autolettighe, autoblindo, camion per il trasporto delle truppe, motori aeronautici e ogni tipo di materiale debitamente richiesto dello stato italiano; facendo della Bianchi una delle più importanti società metalmeccaniche impegnate in capo aperto nel conflitto.

Alla fine della guerra, nonostante una situazione economica sfavorevole agli investimenti, riuscì a traghettare, non senza difficoltà, i processi lavorativi della sua azienda verso le produzioni civili. Mantenendo alti i livelli occupazionali nelle fabbriche, che conobbero un importante sviluppo creativo, fino alla fine degli anni trenta, grazie pure alla nascita del ramo societario Officine Metallurgiche Edoardo Bianchi, con il proseguimento delle attività in campo automobilistico, ciclistico e motociclistico; senza dimenticare i grandi successi registrati nello sport, attraverso le vittorie della Bianchi nelle corse, con i piloti: Tazio Nuvolari, Amilcare Moretti, Dorino Serafini e a una rosa di corridori, tra i quali spiccano i nomi di Giuseppe Olmo, Costante Girardengo e Fausto Coppi.

Morì nella sua villa di Varese il 3 luglio 1946[1], per i postumi dovuti a un incidente stradale[2].





fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Edoardo_Bianchi

 
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Augusto Bissiri


Augusto Bissiri (Seui, 10 settembre 1879 – Los Angeles, 25 febbraio 1968) è stato un inventore italiano.


Biografia

Nasce a Seui da Giovanni Bissiri e Maria Luigia Caredda, il padre faceva il segretario comunale, il fratello Attilio fu come lui un brillante scienziato inventore. Resterà a Seui sino alle scuole secondarie, mentre le Superiori le farà a Cagliari. Finite le Superiori andrà a Roma per studiare Giurisprudenza e mentre studia inizia ad appassionarsi di fumetti e novelle di fantasia che lui stesso realizza e che spesso gli verranno pubblicate con successo ne La Domenica del Corriere. Pian piano scopre di avere un'attitudine per la meccanica; a questa disciplina inizia ad applicarsi con particolari accorgimenti che pian piano prenderanno forma in vere e proprie invenzioni. Nel 1900 balza agli onori della cronaca per via di una sua particolare invenzione, un particolare congegno che oltre che dare allarme impediva lo scontro fra treni che transitavano nello stesso binario. Il brevetto viene subito acquisito dalla Società Statunitense Westinghouse Electric Company; inoltre tale scoperta viene messa subito in pratica da Luigi Merello, gestore delle Tranvie del Campidano, su un piccolo trenino a vapore che collegava Cagliari a Quartu. Dopo due anni decide insieme alla sua famiglia di partire alla volta delle Americhe, stabilendosi per diverso tempo a New York, dove lavorerà presso diverse case discografiche e imprese grafiche. Nel 1906 concepì un'altra straordinaria invenzione che fece balzare il suo nome su tutti i giornali: riuscirà a trasmettere dalla sede del quotidiano New York Herald una fotografia tra due camere distanti collegate solamente da due cavi di rame, trattandosi quindi dell'invenzione del primo fax fotografico della storia dell'uomo. Nel 1913 si stabilisce definitivamente a Los Angeles, nel 1917 dopo undici anni dal primo tentativo, riuscira a teletrasmettere via cavo alcune fotografie dalla redazione del quotidiano Daily Mail di Londra alla sede del The New York Times. Questa invenzione lo porterà a collaborare con diverse aziende di apparecchi teletrasmittenti, facendo altre scoperte legate ai tubi catodici e ai cinescopi, tanti dei quali sino a poco tempo fa conservavano ancora la sua firma. Muore a Los Angeles nel 1968.
Altre invenzioni brevettate

Congegno a pedale per girare le pagine degli spartiti musicali
Portacenere con spegnimento automatico dei mozziconi
L'Alipede, mezzo di trasporto
La Lettera-disco, il primo apparecchio per registrare la voce

Riconoscimenti
A lui e al fratello è intitolato il Liceo Scientifico Statale di Seui.





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Gian Alberto Blanc


Gian Alberto Blanc (New York, 24 giugno 1879 – Roma, 31 dicembre 1966) è stato uno scienziato italiano. In particolare fisico, geochimico e paleontologo, è stato anche un politico, sedendo nella Camera dei deputati del Regno d'Italia dal 1924 al 1934.

Biografia

Figlio del senatore Alberto, ministro degli Affari esteri nel terzo e quarto governo Crispi, ha studiato paleontologia, geologia e mineralogia con Alessandro Portis e si è laureato in fisica all'Università La Sapienza di Roma (1904). Nello stesso anno del conseguimento della laurea, le sue ricerche sulla radioattività, con la scoperta del radiotorio, di cui successivamente ha individuato la costante di disintegrazione (1907), lo hanno reso celebre al punto di essere chiamato a Parigi da Marie Curie.

Tra il 1908 e il 1909, periodo nel quale ha conseguito la libera docenza, ha rilevato nell'atmosfera la presenza di prodotti radioattivi, a causa dall'emanazione del thoron, ed ha evidenziato la presenza di torio e radiotorio sia nelle rocce che nel suolo. In seguito si è soffermato prevalentemente sulle scienze geologiche, studiando in particolare i resti della fauna della preistoria e del quaternario (nelle valli dell'Aniene e del Tevere, nelle Alpi Apuane e nella Savoia), mediante l'applicazione delle analisi chimiche e fisiche[1]. Dal 1914 ha iniziato a studiare la stratigrafia della Grotta Romanelli (nella costa orientale del Salento) e il suo deposito di riempimento, cui avrebbe dedicato numerosi contributi[2]. Durante la prima guerra mondiale, partito come volontario, ha ideato e realizzato un telemetro antiaereo, il telemetro Blanc, che è stato adottato dalla Marina militare.

Gli esiti di molte sue ricerche, incominciate nel 1918 in particolare per l'estrazione della potassa, dell'allumina e della silice dalle rocce leucitiche, trattate con acido citrico, secondo il metodo che portava il suo nome (“processo Blanc”), sono state oggetto di appositi brevetti, e di connessi tentativi di sfruttamento industriale a carattere internazionale, che hanno prodotto lunghi strascichi. Tali ricerche, tuttavia, gli hanno consentito di ottenere diversi premi, come il premio Bressa (1924) e il premio Santoro (1925). Nel frattempo, avendo partecipato alla Marcia su Roma e aderito al fascismo, Blanc ha fatto parte del direttorio del PNF ed è stato eletto deputato per le legislature XXVII e XXVIII del Regno d'Italia[3]. Nominato professore ordinario di geochimica alla Sapienza (1928), occupandosi per primo di studi sedimentologici, fino al 1932 è stato presidente dell'Opera Nazionale Maternità e Infanzia.

Vicepresidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Blanc ha guidato la Società Italiana per il Progresso delle Scienze, presiedendo a Bolzano i lavori del XIX congresso (7 settembre 1930) della predetta Società, cui parteciparono come relatori numerosi scienziati ed intellettuali, fra i quali Guglielmo Marconi, Enrico Fermi, Giovanni Gentile, Agostino Gemelli, Orso Mario Corbino, Alberto De Stefani e Luigi Devoto[4][5]. Inoltre, tra i costituenti dell'Enciclopedia Italiana, socio dell'Accademia dei Lincei e dell'Accademia delle Scienze di Torino, Blanc è stato anche presidente della Società Geologica Italiana e dell'Istituto italiano di paleontologia umana, che ha contribuito a fondare.





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Francesco Antonio Broccu


Francesco Antonio Broccu (Gadoni, 16 maggio 1797 – 1882) è stato un inventore e artigiano italiano.
Biografia

Nato e vissuto a Gadoni, piccolo paese della Sardegna in provincia di Nuoro, fin dall'infanzia mostrò uno spiccato interesse per la meccanica, e costruì numerosi giocattoli utilizzando materiali come le canne, il legno ed il sughero. Costruì inoltre campane in bronzo e un crocifisso in legno di ottima fattura. Progettò e realizzò un orologio artigianale e diversi strumenti meccanici per uso agricolo.

La sua invenzione principale fu però la prima pistola a tamburo, una rivoltella a quattro colpi a quattro canne e poi a due canne, che realizzò nel 1833. Rispetto alle armi in uso fino ad allora presentava un cilindro più corto, ossia il tamburo, che permetteva di allineare la camera con il proiettile alla canna e al percussore grazie alla rotazione intorno al proprio asse.

La pistola da lui realizzata fu anche esaminata dal re Carlo Alberto di Savoia durante il suo secondo viaggio in Sardegna nel 1843. Invitato a Cagliari per mostrare la sua invenzione e spiegarne il funzionamento, non vi andò per l'attaccamento che aveva al suo paese, e non chiese mai il brevetto per la sua invenzione.

Tre anni dopo, nel 1836, negli Stati Uniti, Samuel Colt realizzò un'arma simile che brevettò e commercializzò.





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Luigi Valentino Brugnatelli


Luigi Valentino Brugnatelli (nelle bibliografie anche Luigi Gaspare Brugnatelli o Luigi Vincenzo Brugnatelli) (Pavia, 14 febbraio 1761 – Pavia, 24 ottobre 1818) è stato un farmacista, chimico e fisico italiano.

Biografia

Nato a Pavia, frequentò ivi la Scuola di Farmacia creata dal conte Carlo Giuseppe di Firmian e fu allievo di Giovanni Antonio Scopoli. Laureatosi nel 1784 in Medicina con una tesi sull'analisi chimica dei succhi gastrici[1] (fu allievo, tra l'altro, di Lazzaro Spallanzani), esercitò per qualche tempo la professione medica, senza però trascurare i suoi interessi per la chimica, esortato dal suo maestro, Giovanni Antonio Scopoli, con saltuaria attività di insegnamento nell'ateneo pavese, in cui divenne titolare dell'insegnamento di Chimica nel 1796 (nel 1813 ne divenne rettore).

Amico personale di Alessandro Volta, lo accompagnò a Parigi nel 1801 per illustrare l'invenzione della pila. Nel 1802 effettuò con successo i primi esperimenti di doratura mediante galvanoplastica, di cui è oggi riconosciuto il vero inventore.

Imprenditore editoriale, Brugnatelli ebbe un ruolo molto importante nello stimolare le pubblicazioni scientifiche in Italia, contribuendo a diffondervi conoscenze avanzate di chimica, fisica e scienze naturali.

Fu il primo ad adottare e a far conoscere in Italia le nuove teorie e la nuova nomenclatura introdotta nella chimica da Lavoisier. Tentò di introdurre a sua volta nuovi concetti e nuova terminologia (per esempio, al posto di azoto "senza vita" propose dapprima fossigeno "generatore di luce" e poi septone "putrido"), ma queste innovazioni, pur con qualche riconoscimento anche all'estero, non vennero in definitiva accolte.

Il 28 novembre 1790 divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino.[2]
Opere
Farmacopea generale, 1814

Biblioteca fisica d'Europa, 20 volumi, 1788-1791
Annali di chimica, 22 volumi 1790-1805
Giornale fisico-medico (in collaborazione con Valeriano Luigi Brera), 20 volumi, 1792-1796
Commentari medici (in collaborazione con Valeriano Luigi Brera), 3 tomi, 1797
Elementi di chimica appoggiati alle più recenti scoperte chimiche e farmaceutiche (3 voll.), Pavia 1795-1798
Elementi di chimica, vol. 1, Pavia, Bolzani, 1803.
Elementi di chimica, vol. 2, Pavia, Bolzani, 1803.
Elementi di chimica, vol. 3, Pavia, Bolzani, 1803.
Elementi di chimica, vol. 4, Pavia, Bolzani, 1803.
Giornale di fisica, chimica e storia naturale, continuato fin dopo la sua morte, 1808-1827;
Trattato elementare di chimica generale, vol. 1, Pavia, Bolzani, 1810.
Trattato elementare di chimica generale, vol. 2, Pavia, Bolzani, 1810.
Trattato elementare di chimica generale, vol. 3, Pavia, Bolzani, 1810.
Trattato elementare di chimica generale, vol. 4, Pavia, Bolzani, 1810.
Farmacopea generale, vol. 1, Pavia, Bolzani, 1814.
Farmacopea generale, vol. 2, Pavia, Bolzani, 1814.
Farmacopea generale, vol. 3, Pavia, Bolzani, 1814.
Litilogia umana ossia ricerche chimiche e mediche. Opera Postuma del Prof. L.V. Brugnatelli, pubblicata dal Dott. Gaspare Brungnatelli. Pavia 1819.





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Egidio Brugola


Egidio Brugola (Lissone, 1º settembre 1901 – Lissone, 29 giugno 1959) è stato un imprenditore e inventore italiano, fondatore delle Officine Egidio Brugola (OEB).


Biografia

Di famiglia piccolo borghese, autodidatta ma con grande capacità inventiva e progettuale, s'impiegò in un'aziendina meccanica prima di mettersi in proprio a 25 anni con l'idea di produrre viti e bulloni e fondare nel 1926, in un'antica corte[1] della briantea Lissone, la città dove Egidio nacque in via Aliprandi, le Officine che portano il suo nome. L'azienda, diventata nel tempo leader mondiale nella produzione delle "viti critiche" che fissano la testata al motore di un'auto,[2] è sempre sotto il controllo della famiglia Brugola, giunta alla terza generazione.

Egidio commercializzò per primo in Italia le "Allen keys and screws", già esistenti negli Stati Uniti all'inizio del Novecento, riuscendo a dare alle viti il suo nome (viti a brugola) dopo avere inventato la vite a testa con incavo esagonale e con gambo a torciglione in grado di assicurare una particolare elasticità e garantire in campo motoristico alte prestazioni in tema di tenuta e serraggio. Un'invenzione di avanguardia che porterà ad identificare il nome del prodotto (la vite a brugola) con quello del fabbricante e ad essere citata nei dizionari di lingua italiana.[3]

L'invenzione della vite a brugola, definita nel brevetto come "vite a testa incava esagonale"[4] è stata riconosciuta dal brevetto depositato dallo stesso Egidio nel 1945 all'Ufficio Italiano Brevetti e Marchi.

Durante la seconda guerra mondiale Egidio dovette temporaneamente riconvertire le Officine alla produzione di materiale bellico. Durante la Resistenza, inoltre, dovette assistere assieme agli operai dell'industria e alla gente del paese, all'uccisione di due operai, catturati come partigiani.

Egidio Brugola morì nel 1959 a 58 anni. La città di Lissone gli ha dedicato un monumento per celebrare una industria che l'ha resa celebre nel mondo.

Il figlio Giannantonio, a capo dell'azienda fino alla sua morte nel 2015[5], ha ulteriormente migliorato l'invenzione paterna inventando nel 1993 la Polydrive, una nuova tipologia di vite con la testa a forma poliedrica: permette di essere serrata meglio e con minore sforzo. Un ufficiale riconoscimento della paternità dell'invenzione della vite Polydrive è arrivato però solamente nel 2003, dopo la vittoria della battaglia per il brevetto europeo contro due ditte tedesche.[6]

Dalla fine degli anni Novanta le Officine Egidio Brugola non producono più le brugole: si tratta di un prodotto povero mentre l'azienda si è specializzata in viti speciali di alta qualità per motori d'auto.[7]





fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Egidio_Brugola

 
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Ferdinando Brusotti


Ferdinando Brusotti (Rosasco, 5 novembre 1839 – Pavia, 29 dicembre 1899) è stato un fisico e inventore italiano.


Biografia

Nato in Lomellina, studiò ingegneria all'Università, anche se voleva dedicarsi alla fisica[1]. Nel 1864 si laureò con una tesi sui gas, e l'anno dopo fu chiamato ad insegnare all'Università, dove rimase fino al 1895.
Invenzioni

Nel 1877 presentò un prototipo di lampadina, due anni prima di Thomas Edison, ma basata su un progetto diverso, con l'uso di un filo di platino e con un dispositivo di sicurezza per evitare la fusione del filamento. Venuto a conoscenza dei risultati dell'inventore americano abbandonò tuttavia il progetto nel 1879[2].

Inventò inoltre un misuratore elettrico dei livelli d'acqua dei fiumi e altri meccanismi relativi all'acqua.

Nel 1874 fece inoltre un esperimento di comunicazione telefonica fra Pavia e Lomello, sulla linea del telegrafo su una distanza di 36 km[3].





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Carlo Felice Buzio


Carlo Felice Buzio (Vignale Monferrato, 24 marzo 1886 – Varese, 11 marzo 1977) è stato un ingegnere, inventore e imprenditore italiano, pioniere dell'aviazione italiana. Fu progettista degli idrovolanti Macchi L.2, M.3, M.4, M.5 e M.6, e lavorò anche alla progettazione ed allo sviluppo della torpedine aerea Rainaldi-Corbelli


Nacque a Vignale Monferrato il 24 marzo 1886.[1] Dopo aver conseguito la laurea in ingegneria, fece la sua prima esperienza nel campo della costruzione di automobili lavorando all'interno della fabbrica Diatto di Torino, poi consociatasi con la francese Clément-Bayard.[1] Per conseguire esperienza andò a Parigi, lavorando presso lo stabilimento Clément-Bayard nell'impianto relativo all'assemblaggio delle automobili.[1] In quegli anni ebbe anche una intensa attività di pilota agonistico al volante sia delle Diatto sia delle Clément-Bayard, e anche delle Isotta-Fraschini. Guidando queste ultime conseguì ottimi piazzamenti in particolare nella Milano-San Remo, nelle Targhe Florio e nel Gran Premio di Bologna.[1]

Insieme all'ingegnere Restelli e a un altro socio, costituì l’azienda per la costruzione di motori aeronautici Rebus.[2] Nel 1912 prese contatti con la Società Anonima Aeronautica Macchi per la costruzione di aeroplani militari,[3] di proprietà dell'ingegnere Giulio Macchi, e dietro la sua proposta fu stabilita un'alleanza con la francese Nieuport, produttrice di aerei allora all'avanguardia e già conosciuti ed apprezzati dal Regio Esercito, acquistando le relative licenze di produzione.[4] A lui si devono i progetti di diversi velivoli Macchi, tra cui i primi idrovolanti Macchi L.2, M.3, M.4, M.5 e M.6. Tra il 1917 e il 1918 lavorò alla costruzione dei prototipi della Torpedine aerea Rainaldi-Corbelli, progettata dall'ingegner Ugo Rainaldi.[5] Il capitano Adelchi Manzoni organizzò un team tecnico finanziario, composto da Buzio (aerodinamica), dal signor Corbella della Ditta Corbella & Longoni (motore), dal signor Bovolato (costruzione dell'apparecchio di volo), e dall'ingegner G. Cerri (sorveglianza), e Rainaldi (bombe e sistemi di lancio).[5] Dal Malpensa i primi due prototipi vennero trasferiti sul campo d'aviazione di Furbara, dove venne allestito un apposito sistema di lancio con hangar e rotaia.[5] Il secondo prototipo andò perso a causa dell'esplosione di uno dei cilindri del motore Corbella da 100 hp avvenuta durante una prova a terra nel maggio 1918, che causò la morte di un ignaro spettatore.[5] La produzione fu spostata da Malpensa a Varese, dove egli divenne responsabile della costruzione dell'apparecchio di volo, mentre Rainaldi dei sistemi di controllo e di lancio.[5] Dopo la costruzione di ulteriori due prototipi, tutti persi durante i voli di collaudo, la fine della prima guerra mondiale pose fine ad ogni attività di sviluppo.[5]

Stabilitosi definitivamente a Varese, passò dai motori aeronautici a quelli automobilistici, aprendo in via Orrigoni una officina meccanica con annessa autorimessa concessionaria della Alfa Romeo.[3] Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, al fine di evitare requisizioni da parte di tedeschi e dei fascisti, smontò parecchi autoveicoli e ne nascose i pezzi che poi, al termine della guerra, rimontò con cura e precisione vendendo i veicoli.[N 1][3] A partire dal 1950, e negli anni successivi, vendette in grande quantità, le Lambrette, e poi ampio l'attività trasferendola in via Belforte, divenendo concessionario della Innocenti per la vendita di motocicli ed auto, e quindi delle Mini Morris e delle BMW, sempre assistito da sua moglie, la signora Olimpia Macecchini.[3] Si spense a Varese l'11 marzo 1977.[3]




fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Felice_Buzio

 
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Luigi Caldera



Luigi Caldera, all'anagrafe Andrea Luigi Caldera (Cuneo, ca. 1840 – Torino, 1905), è stato un ingegnere meccanico e inventore italiano.
Biografia

Nato a Cuneo in un anno non ben definito nella seconda metà dell'Ottocento, si trasferì a Torino già forse prima del compimento degli studi accademici. Nel capoluogo piemontese conseguì la laurea in ingegneria, dimostrando un'attenzione innata verso il mondo dei suoni, una passione non comune per l'evento musicale ed una conoscenza approfondita degli elementi tecnico-acustici ad esso connessi.

Caldera non fu pianista, né professionalmente costruttore di strumenti; tramite opportune collaborazioni con alcuni validi esponenti dell'artigianato musicale, seppe tuttavia ritagliarsi un considerevole spazio tra i più creativi e qualificati "fabbricanti" di strumenti musicali d'arte. Principali frutti della sua progettazione furono alcuni particolarissimi strumenti a tastiera, designati con suggestive denominazioni:

Melopiano: congegno applicabile ai normali pianoforti a coda o verticali per ottenere, tramite una seconda serie di martelletti azionati in rapida e ripetuta percussione da un dispositivo a molla, un suono continuo o “sostenuto”, realizzato in collaborazione coi costruttori torinesi di pianoforti Stefano Brossa e Lodovico Montù;
Armonipiano: successiva evoluzione di tale congegno, il cui brevetto fu acquisito nel 1882 dalla ditta Ricordi & Finzi di Milano e perfezionato poi dal musicista, direttore d'orchestra e inventore ceco Vojtěch Hlaváč;
Calderarpa: uno strumento da tasto a forma di arpa, con corde in parte percosse da martelletti tipo pianoforte ed in parte strofinate da apposite bacchette di legno diagonali e ricoperte di panno, costruito in collaborazione col costruttore bolognese di pianoforti Giovanni Racca.

Alla sua paternità potrebbero anche ascriversi - secondo quanto accennato da alcune fonti[1] - altri strumenti musicali non a tastiera, tra cui un mandolino nuovo, a forma piatta e di piccole proporzioni, (che conteneva in sé «il segreto della sonorità acre e dolce», atipica per un mandolino di normale fattura) e una chitarra a 11 corde e a monotasto, dotata di un semplice meccanismo attraverso il quale lo strumentista poteva immediatamente trovare con la mano sinistra i toni della scala cromatica «senza che per questo dovesse contorcersi e affaticarsi in un esercizio di continua ginnastica».

Presente ed apprezzato nelle grandi Esposizioni Universali dell'epoca (Parigi, Vienna, Londra, Chicago…), Caldera fu titolare di numerosi brevetti, privative ed esclusive commerciali a livello internazionale, ed ai suoi strumenti si interessarono musicisti del calibro di Gioachino Rossini, Giovanni Sgambati, Sigismund Thalberg e Franz Liszt, che dedicò all'armonipiano di Caldera un paio di trascrizioni da note composizioni verdiane (Salve Maria da "Jérusalem" e Agnus Dei dalla "Messa da Requiem").

L'ultima testimonianza sicura che al momento rimane sulla sua attività risale al 1899, e riguarda la presenza del suo Armonipiano fra le attrattive esposte alla Mostra Internazionale di Anversa. Da allora il ricordo di questo formidabile inventore, rappresentante di un contesto storico e sociale (quello del Nord Italia e della Torino di fine Ottocento) caratterizzato da una forte curiosità nei confronti del progresso e dello sviluppo tecnologico, viene a scomparire di colpo, vittima del mutamento dell'estetica, dei gusti e degli interessi del nuovo secolo.

Solo alcuni esemplari di Calderarpa sono sopravvissuti, tra i quali va segnalato quello custodito presso il Museo del Palazzo Lascaris di Nizza, in perfetto stato di conservazione.





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Temistocle Calzecchi Onesti


emistocle Calzecchi Onesti (Lapedona, 14 dicembre 1853 – Monterubbiano, 22 novembre 1922) è stato un fisico e inventore italiano. A lui si deve la costruzione del coesore (1884), uno dei primi strumenti fisici atti alla rilevazione di onde elettromagnetiche.


Biografia

Laureatosi in Fisica all'Università di Pisa con Riccardo Felici, dal 1879 insegnò fisica in vari licei: prima a L'Aquila, poi al Liceo Classico "Annibal Caro" di Fermo (dal 1883 al 1898), di cui era stato allievo, e infine al Liceo classico Cesare Beccaria di Milano, dove entrò in amicizia col suo conterraneo Oreste Murani, anche lui valente fisico sperimentale laureatosi a Pisa alla scuola del Felici e docente al Politecnico di Milano.

A Fermo fondò un osservatorio meteorologico nei locali del liceo e nel 1889, come assistente di Galileo Ferraris, collaborò alla realizzazione dell'impianto di illuminazione elettrica della città.

Nel 1884 iniziò i suoi studi sulle variazioni della resistività delle polveri metalliche quando sono sottoposte a varie sollecitazioni e, in particolare, all'azione di onde elettromagnetiche.

Questi studi lo condussero all'invenzione del coesore (termine che fu poi tradotto in inglese con coherer da Sir Oliver Lodge).[1] L'apparecchio è costituito essenzialmente da un tubetto di vetro posto tra due elettrodi e contenente polveri di nichel e argento, con tracce di mercurio. Il coesore può agire come rilevatore di onde elettromagnetiche, poiché la conducibilità delle polveri aumenta quando il tubetto è investito da radiazioni elettromagnetiche e può essere ricondotta ai valori precedenti mediante percussione. Calzecchi Onesti espose i risultati delle sue esperienze in diversi articoli pubblicati sul Nuovo Cimento degli anni 1884 e 1885.

Il coesore, al cui sviluppo contribuirono successivamente vari ricercatori, tra cui Sir Oliver Lodge e Édouard Branly, fu usato anche da Guglielmo Marconi e si rivelò fondamentale per lo sviluppo della radio.

Morì a Monterubbiano, il 22 novembre del 1922 nella casa di famiglia Palazzo Calzecchi-Onesti. Fu il padre di Carlo Calzecchi Onesti, architetto restauratore e soprintendente ai monumenti in varie città d'Italia, ed Antonio Calzecchi Onesti, giornalista fondatore del ramo editoriale della Federconsorzi, nonché il nonno paterno di Rosa Calzecchi Onesti, insigne grecista e traduttrice.

A lui è stato intitolato il Liceo Scientifico Statale di Fermo, mentre al nome della sua invenzione, il coesore, è stato intitolato il giornalino gestito dagli studenti dell'istituto, "Coherer".
Onorificenze

Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia - nastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia





fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Temistocle_Calzecchi_Onesti

 
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Tullio Campagnolo


Gentullio Campagnolo (Vicenza, 26 agosto 1901 – Vicenza, 3 febbraio 1983) è stato un ciclista su strada e imprenditore italiano.

Professionista dal 1927 al 1930, colse una sola vittoria da ciclista. Successivamente fondò l'omonima impresa di componenti per bicicletta.


Biografia

Nato a Vicenza nel 1901, frequentò i corsi di apprendista meccanico alla Scuola d'arti e mestieri della sua città e vinse, a 17 anni, un concorso per allievo macchinista nelle ferrovie. Dopo un breve periodo di lavoro, svolse il servizio militare a Modena in artiglieria e, tornato a Vicenza, assunse la gestione della bottega di famiglia, un esercizio di ferramenta. Appassionato di ciclismo, si iscrisse al Veloce club di Vicenza, già attivo dal 1901[1].

Fu attivo nel ciclismo fra il 1922 e il 1930[2][3], anni in cui partecipò a numerose gare importanti come il Giro di Lombardia o la Milano-Sanremo, ma riuscì a vincere solo un'edizione della Astico-Brenta e una preolimpica a cronometro.

È rimasta celebre una gara che non l'ha visto vincitore, ma che comunque ha segnato la storia del ciclismo. Il 4 novembre 1927 Campagnolo correva il Gran Premio della Vittoria, per celebrare il sesto anniversario della vittoria dell'Italia nella prima guerra mondiale. Durante la scalata del Passo Croce d'Aune, in provincia di Belluno, Campagnolo si vide in grande difficoltà nel tentativo di rimuovere la ruota posteriore per cambiare il rapporto. Leggenda vuole che abbia detto, fra le imprecazioni, una celebre frase in dialetto vicentino: "Bisogna cambiar qualcossa de drio" (Bisogna cambiare qualcosa dietro).

A ricordare quell'episodio esiste oggi sul passo un monumento a lui dedicato, opera dello scultore bellunese Massimo Facchin.

In ogni caso non fu un corridore professionista e si manteneva gestendo il suo negozio di ferramenta, nel cui retro ideava e costruiva, interamente a mano, i cambi e i mozzi ciclistici.[4]

Terminata la carriera ciclistica, Campagnolo brevettò l'8 febbraio 1930 la prima delle sue invenzioni legate al mondo della bicicletta: il mozzo a sgancio rapido[2]. Con un semplice sistema costituito da un eccentrico e da una leva era possibile montare e smontare una ruota in un solo gesto, contro i problemi dati dai vecchi fissaggi a dadi.

Nel 1933 nacque la Campagnolo, la celebre fabbrica di componentistica per biciclette da corsa[2].

Campagnolo ricevette nel 1979 dal presidente della repubblica Sandro Pertini il riconoscimento di Cavaliere del lavoro e morì nel 1983 dopo la presentazione del Gruppo del Cinquantenario, in celebrazione del 50º anniversario della fondazione della Campagnolo[2].
Palmarès

1928

Astico-Brenta

Piazzamenti
Classiche

Milano-Sanremo

1927: 65º

Giro di Lombardia

1927: 24º

Onorificenze
Cavaliere del lavoro - nastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere del lavoro
— 2 giugno 1979[5]






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Matteo Campani


Matteo Campani, noto anche come Matteo Campani degli Alimeni (Castel San Felice, 1620 – Roma, dopo il 1678), è stato un presbitero, inventore, ottico e costruttore di orologi italiano.

Biografia

Di origine contadina, nato in una piccola località nei pressi di Spoleto (a quell'epoca appartenente allo Stato Pontificio), fu sacerdote e parroco a San Tommaso in Parione a Roma. Accolse nella canonica i due fratelli, Pier Tommaso, orologiaio di professione, e il più giovane Giuseppe. Versato lui stesso nelle arti meccaniche, fu egli stesso orologiaio, scrisse un trattato sull'orologeria, e con i fratelli costruì fra l'altro degli orologi silenzioso, i cosiddetti "pendoli muti", uno dei quali fu presentato al papa Alessandro VII[1]. Fu anche ottico e probabilmente collaborò con Giuseppe nella costruzione di lenti e dei famosi telescopi ottici di grande lunghezza focale utilizzati fra gli altri da Cassini all'Osservatorio Reale di Parigi[2]. Al solo Matteo viene attribuita anche l'invenzione, attorno al 1678, della lanterna magica.[3]
Opere
Horologium solo naturae motu, atque ingenio, dimetiens, et numerans momenta temporis, constantissime aequali, 1677

(LA) Nova experimenta physico-mechanica pro demonstranda genuina causa elevationis aquae et mercurii, Roma, Ignazio Lazzari, 1666.
(LA) Horologium solo naturae motu, atque ingenio, dimetiens, et numerans momenta temporis, constantissime aequalia, Roma, Ignazio Lazzari, 1677.
Proposizione d'orioli giustissimi tantoche il loro misuratore necessariamente debba muouersi con periodi eguali, & vniformi sotto qualunque intemperie d'aria, & anche data ne i medesimi orioli inegual potenza motrice. Inuenzione vtile a nauiganti per prender le longitudini, come anche a geografi, & agli astronomi. Dedicata alla sacra maesta del re christianissimo Luigi XIV dall'inuentore Matteo Campani de gli Alimeni spoletino, In Roma, per Ignatio de' Lazari, 1673.





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Giuseppe Candido


Giuseppe Candido (Lecce, 28 ottobre 1837 – Ischia, 4 luglio 1906) è stato un vescovo cattolico, fisico e inventore italiano.


Biografia

Giuseppe Candido dopo essere entrato a 10 anni nel Collegio Reale dei Gesuiti dove manifestò grande entusiasmo per lo studio dell'elettricità grazie soprattutto al suo maestro p. Nicola Miozzi, conseguì a Napoli la laurea in matematica e fisica. Venne ordinato presbitero il 22 dicembre 1860.

Il 18 novembre 1881 papa Leone XIII lo nominò vescovo titolare di Lampsaco e lo inviò come vescovo coadiutore alla sede di Nicastro, l'attuale Lamezia Terme. Il 1º giugno 1888 fu nominato vescovo di Ischia. Nell'isola continuò i suoi studi religiosi e fisici. Rinunciò alla diocesi il 4 febbraio 1901 ed ebbe il titolo vescovile di Cidonia. Proseguì gli studi fino alla morte, avvenuta il 4 luglio 1906, all'età di 68 anni. È sepolto nel Duomo di Ischia.
Attività tecniche a Lecce

Ritornato nella città natale realizzò numerosi apparecchi elettrici utilizzati nelle abitazioni private della città, ma il suo impegno principale in campo elettrico è rappresentato dalla rete di orologi pubblici elettrici sincroni a Lecce negli anni compresi tra il 1868 e il 1874. Quest'opera che egli stesso costruì dopo averla progettata non aveva precedenti in Italia e fu una delle prime in Europa, rimanendo in funzione fino al 1937.
Invenzioni

Tra le sue invenzioni annoveriamo la pila a diaframma regolatore, il pendolo elettromagnetico sessagesimale ed il brevetto di un gassogeno automatico.
Genealogia episcopale

La genealogia episcopale è:

Cardinale Scipione Rebiba
Cardinale Giulio Antonio Santori
Cardinale Girolamo Bernerio, O.P.
Arcivescovo Galeazzo Sanvitale
Cardinale Ludovico Ludovisi
Cardinale Luigi Caetani
Cardinale Ulderico Carpegna
Cardinale Paluzzo Paluzzi Altieri degli Albertoni
Papa Benedetto XIII
Papa Benedetto XIV
Cardinale Enrico Enriquez
Arcivescovo Manuel Quintano Bonifaz
Cardinale Buenaventura Córdoba Espinosa de la Cerda
Cardinale Giuseppe Maria Doria Pamphilj
Papa Pio VIII
Papa Pio IX
Cardinale Gustav Adolf von Hohenlohe-Schillingsfürst
Arcivescovo Salvatore Magnasco
Cardinale Gaetano Alimonda
Vescovo Giuseppe Candido

Bibliografia

M. Gaudiano, «CANDIDO, Giuseppe». In: Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. XVII, Roma: Istituto della Enciclopedia italiana, 1974



fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Candido

 
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Alessandro Capra


Alessandro Capra (Cremona, 1620 – 1685 circa) è stato un architetto e inventore italiano.

Studiò architettura con l'insegnamento di Giacomo Erba e inventò diverse macchine. Fu al servizio dei governatori spagnoli dello Stato di Milano, Gonzalo Fernández de Córdoba e Ambrogio Spinola. In quel periodo si dedicò all'ingegneria bellica.

Nel periodo 1672–1682, pubblicò tre volumi di geometria e architettura militare e civile. Lavorò al Duomo di Pontremoli.

I suoi due figli, Giusto e Domenico, produssero diverse invenzioni idrauliche.

Opere

Geometria famigliare, Cremona, Giovanni Pietro Zanni, 1673.
Nuova architettura famigliare, Bologna, Giacomo Monti, 1678.
Nuova architettura militare, Giacomo Monti, 1683.
Nuova architettura dell'agrimensura di terre e acque, Cremona, Paolo Puerone.

Bibliografia

Filippo de' Boni, Biografia degli artisti, ovvero dizionario della vita e delle opere dei pittori, degli scultori, degli intagliatori, dei tipografi e dei musici di ogni nazione che fiorirono da' tempi più remoti sino á nostri giorni, seconda, Venice, Presso Andrea Santini e Figlio, 1852, p. 184.
Loredana Olivato, CAPRA, Alessandro, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 19, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1976.





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Salvatore Carcano


Salvatore Carcano (Bobbiate, 11 ottobre 1827 – Torino, 1903) è stato un inventore italiano, progettista del sistema di otturazione del fucile Carcano Mod. 91.


Biografia

Figlio di Maria Cattaneo e Carlo Carcano diventò orfano di padre all'età di 10 anni, cosa che lo costrinse a lavorare interrompendo gli studi.[1] Dopo aver combattuto nella prima guerra di indipendenza come artigliere, si trasferì in Piemonte. A Torino venne arruolato come armaiolo nel Corpo Reale di Artiglieria ove in poco tempo fu nominato Artista.

Congedato, entrò nel 1852 come operaio nella Fabbrica Reale di Torino e iniziò la sua carriera come inventore. Progettò e costruì macchine per la lavorazione delle canne, delle baionette e di altre armi. Cavour medesimo gli commissionò la preparazione delle armi per le truppe da inviare in Crimea.[1]

Nel 1858 consegui una medaglia e un diploma d'onore all'Esposizione Nazionale di Torino. Nel 1863 fu inviato in missione all'estero per collaudare macchine per la fabbricazione delle canne in acciaio. Dopo aver progettato un tipo di Otturatore ad ago si dedicò a altri brevetti adottati anche su armi straniere.

Nel 1868 progetta e trasforma a retrocarica il modello del Carcano Mod. 60, calibro 17,4, gittata massima metri 630, con cilindro girevole e scorrevole con all'interno il meccanismo di percussione e sicurezza, denominato Carcano Mod. 67. Nel complesso delle parti dell'otturatore differisce di poco dai sistemi consimili dell'epoca, ma ha il vantaggio di essere semplice e di avere un sistema di sicurezza a tubetto con dente a nasello.

Nel 1879 venne promosso capotecnico principale di prima classe della Fabbrica Reale. Infine lavorò sul fucile d'ordinanza, il Carcano modello 91. Diede anche il nome a una mitragliatrice a due canne da lui ideata.[2]
Curiosità

La cartuccia che porta il suo nome è di carta. Nel fondello dalla parte interna vi è un robusto disco di caucciù o di latta, leggermente ricurvo all'orlo. Sopra di questo vi è la carica e su di essa, l'innesco di polverino fulminante compresso nella carta. Il proiettile copre l'innesco, e la cartuccia è chiusa sopra di esso. L'ago del percussore attraversa completamente l'innesco, ed apre il passaggio ai gas dell'esplosione fino alla cavità del proiettile, per produrne l'espansione ed il forzamento nell'anima della canna.[3]
Riconoscimenti
Sezione vuota
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Onorificenze
Cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro - nastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro
— 1896






fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Salvatore_Carcano

 
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Antonio Benedetto Carpano


Antonio Benedetto Carpano (Bioglio, 24 novembre 1751 – Torino, 1815) è stato un inventore e distillatore italiano, celebre per aver ideato il vermut[1] e, di conseguenza, l'aperitivo.


Biografia

Nel 1786, Antonio Benedetto Carpano creò a Torino il moderno vermut, aggiungendo del vino bianco ad un infuso composto di oltre 30 varietà di erbe e spezie. Il tutto venne addolcito con dell'alcool, che Carpano riteneva essere una bevanda più adatta alle signore rispetto ai locali vini rossi. Il vermut divenne così popolare che ben presto la bottega del distillatore piemontese dovette star aperta 24 ore su 24.[2][3][4]

Carpano era a detta di tutti un uomo di cultura, appassionato dalla poesia di Goethe, e, probabilmente, scelse tale nome per il suo drink innovativo riadattando il termine tedesco Wermut, col quale veniva designato l'assenzio maggiore, l'ingrediente principale del suo distillato.

Oggi il marchio Carpano è prodotto e distribuito da Fratelli Branca Distillerie di Milano.





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Giovanni Caselli (abate)


Biografia
Lapide in località Simignano, nel comune di Sovicille (SI)

Nato a Siena da Francesco e Colomba Molini, Giovanni Caselli studiò fisica a Firenze sotto la guida di Leopoldo Nobili[1] e, nel 1836, prese l'abito ecclesiastico.

Dopo aver insegnato storia e lettere nelle scuole della sua città natale, Caselli si trasferì a Parma nel 1841, come precettore dei figli del conte Luigi Sanvitale. Insieme a lui aderì ai movimenti risorgimentali della città, movimenti che nel 1849 gli costarono l'espulsione dal Ducato. Caselli rientrò quindi a Firenze, dove riprese gli studi di fisica, dedicandosi soprattutto al sincronismo fra due apparati di telecomunicazione posti a notevole distanza. A Firenze, per i tipi Le Monnier, fondò e diresse La ricreazione: giornale di scienze fisiche e di arti ad uso dei giovanetti, del quale uscirono nove numeri nel corso del 1854.
Casa natale di Giovanni Caselli in Banchi di Sotto a Siena
Il Pantelegrafo di Caselli
Pantelegrafo di Giovanni Caselli, replica del 1933. Esposto al Museo nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci, Milano.
Pantelegrafo di Caselli, replica, particolare. Esposto al Museo nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci, Milano.

Le sue esperienze di perfezionamento del telegrafo per trasmettere testi, manoscritti e grafica senza l'utilizzo dei segnali convenzionali, portò nel 1856 alla realizzazione di un apparecchio che Caselli denominò pantelegrafo, o telegrafo universale. La definizione della macchina deriva dall'unione della parola pantografo (mezzo che copia disegni e immagini) con telegrafo (macchina che invia messaggi attraverso una linea). Di fatto, il suo dispositivo fu il precursore del fax.

I primi esperimenti furono proposti al governo toscano, ma per reperire i finanziamenti necessari a proseguire la ricerca Caselli si trasferì nel 1857 a Parigi, dove presentò il pantelegrafo a Paul-Gustave Froment, costruttore di apparecchi elettrici, che lo aiutò a perfezionare lo strumento che, nel marzo del 1858, fu presentato a distanza di pochi giorni da Alexandre Edmond Becquerel al Conservatorio nazionale di arti e mestieri di Parigi e da César Depretz all'Accademia delle scienze. L'invenzione, poi brevettata nel 1861, ebbe risonanza anche in Italia[2], tanto che Caselli fu insignito dell'Ordine dei santi Maurizio e Lazzaro da Vittorio Emanuele II re d'Italia.

Con l'aiuto di Froment, Caselli riuscì ad interessare le autorità politiche francesi. Ottenuto l'appoggio di Napoleone III, che lo insignì anche della Legione d'Onore, poté disporre, per ulteriori prove e collaudi, dell'intera rete francese. Nel 1864 il governo francese decretò l'adozione del pantelegrafo Caselli per le sue linee telegrafiche.

Il servizio fu avviato nel 1865 sulla tratta Parigi-Lione, poi esteso anche sulla Lione-Marsiglia. La tariffa era di 20 centesimi per centimetro quadrato, la tassa era di 10 centesimi. Tale servizio fu interrotto nel 1871 in seguito ai fatti della guerra franco-prussiana e mai più ripristinato.

Il pantelegrafo funzionò anche tra Londra e Liverpool, ma il servizio preventivato non fu realizzato a causa della crisi inglese del 1864. Anche la Russia utilizzò il pantelegrafo per scambi di messaggi tra le residenze imperiali di San Pietroburgo e Mosca e persino la Cina nel 1863 si interessò all'apparecchio e richiese una dimostrazione da effettuarsi a Pechino, che però si risolse in un nulla di fatto.

Nel 1867 Caselli tornò a Siena, dove fu nominato direttore delle scuole comunali.

Oltre al pantelegrafo Caselli realizzò anche: uno strumento per misurare la velocità dei treni (cinemografo), un siluro (che probabilmente, però, non vide mai la luce per un probabile ripensamento pacifista), un timone idromagnetico per la guida delle navi.

Alcuni dei brevetti, documenti, lettere e prove di trasmissione teleautografica sono conservati presso la Biblioteca comunale degli Intronati di Siena[3] e, in piccola parte, presso la biblioteca del Museo Galileo[4].

È sepolto nel Cimitero del Laterino a Siena.
Omaggio a Giovanni Caselli

Nel mese di Ottobre 1997, a quasi 150 anni dall'invenzione del pantelegrafo, precursore ed antesignano del fax, a Giovanni Caselli[5] è stata dedicata una mostra.

La mostra di fax art si svolgeva in contemporanea in 4 città: Siena, Londra, Parigi ed Yamagata. A Siena presso il Complesso museale di Santa Maria della Scala, a Parigi e Londra presso l'Istituto Italiano di Cultura e a Yamagata presso la Tohoku University of Art & Design.

I curatori della mostra sono stati Enrico Crispolti e Marco Pierini. Il catalogo, edito da Hopefulmonster Editore di Torino per conto del Comune di Siena e della Scuola di Specializzazione in Archeologia e Storia dell'Arte dell'Università di Siena, contiene anche uno scritto di Omar Calabrese dal titolo Fax Off su ciò che egli definiva "incertezza dell'opera d'arte" nell'epoca della riproducibilità tecnica, tanto più "incerta" come quella inviata tramite fax. Anche Enrico Crispolti, nella sua introduzione La "faxarte" nella sfera della "performance", rifacendosi alle esperienze della xerografia (che non ha originale) e di mail art, definisce la faxarte" di per sé virtualmente ubiquitaria e di progettualità consapevole d'un effimero comunicativo". Marco Pierini, nella sua introduzione al volume, ripercorre la storia dai caselligrammi alla fax art.

I 76 artisti che hanno preso parte alla mostra sono stati invitati tramite fax ed essi hanno risposto inviando in contemporanea le loro opere nelle quattro sedi della mostra. Tra gli artisti invitati: Pier Giorgio Balocchi, Mauro Berrettini, Irma Blank, Pietro Cascella (1921-2008), Giuseppe Chiari (1926-2007), Francesco Cocola, Vittorio Corsini, Leonardo Cremonini (1925-2010), Marco Gastini, Kazuyoshi Hirai, Hanako Kumazawa, Ugo Marano, Kurt Laurenz Metzler, Eugenio Miccini (1925-2007), Ugo Nespolo, Yoshin Ogata, Luca Maria Patella, Piero Pizzi Cannella, Pierre Restany (1930-2003), Francesco Somaini (1926-2005), Matthew Spender, Jiro Sugawara, Joe Tilson, Mauro Tozzi, Emilio Vedova (1919-2006), Cordelia von den Steinen.





fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Caselli_(abate)

 
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Francesco ed Eugenio Cassani


Francesco Cassani (Vailate, 20 aprile 1906 – Treviglio, 14 luglio 1973) ed Eugenio Giovanni Cassani (Vailate, 6 settembre 1909 – Treviglio, 4 gennaio 1959) sono stati due inventori, imprenditori e dirigenti d'azienda italiani

Il padre, Paolo, era titolare di un’officina meccanica che già da due generazioni produceva macchine agricole e che durante la Prima guerra mondiale fornì proiettili all’Esercito e alla Marina[1].

Pionieri della trazione diesel, della quale sono stati precursori con circa 15 anni di anticipo sull'effettiva affermazione italiana, hanno costruito il primo trattore dotato di una versione innovativa di tale motore, il Cassani 40 CV. Attraverso la Società accomandita motori endotermici, fondata nel 1942 e tuttora attiva nel settore della produzione di macchine agricole, hanno dato un fondamentale contributo alla meccanizzazione dell'agricoltura italiana.


La dinastia Cassani
Paolo Cassani

Poche e scarse sono le notizie sulla dinastia imprenditoriale dei Cassani. Le varie fonti disponibili[2][3] sostengono che l'attività di costruzione di macchine agricole è stata iniziata dal bisnonno di Giovanni ed Eugenio, Felice Cassani, soprannominato a Vailate Precìs per un intervento presso la ditta Helvetic, della quale riesce a mettere a regime una caldaia a vapore viziata da difetti di fabbricazione. Felice non è titolare di un'industria ma di una bottega, dove la forza motrice delle macchine è assicurata da un asino che aziona una ruota. A trasformare l'attività da bottega a impresa industriale è uno dei suoi nipoti, Paolo Cassani, del quale è famosa in tutta la regione la destrezza manuale, che gli consente di riparare i macchinari più diversi e di costruire strumenti musicali coi quali ama poi cimentarsi.

A differenza del nonno e del padre, tuttavia, Paolo Cassani è animato dalla passione per il disegno industriale, una caratteristica che gli consente - attraverso la progettazione - di ampliare l'azienda da semplice bottega a impresa industriale. Con la moglie, Luigia Rocchi, fonda la "Società Anonima Paolo Cassani e figli", dove lui si occupa del lato tecnico e lei di quello amministrativo. Dal suo necrologio, pubblicato su L'Eco di Bergamo del 23 ottobre 1931,[4] si apprende che nel 1921 ha trasferito l'attività da Vailate a Treviglio e che la società anonima "Paolo Cassani & figli" è rinomata per l'invenzione di una pressa per la riduzione in balle del foraggio e per la costruzione di un non meglio precisato frigorifero, in realtà una fabbrica, che fornisce ghiaccio a tutta la città di Treviglio.
I primi anni di Francesco e Eugenio
I fratelli Cassani con la madre, Luigia Rocchi
Il giovane Francesco col modellino dell'aereo-idrovolante-auto di sua invenzione.

Francesco ed Eugenio, ma soprattutto il primogenito, ereditano dal padre la passione per la meccanica e il disegno industriale, e si impegnano fin da giovanissimi nell'attività di famiglia.[2] Secondo i suoi biografi già a dieci anni Francesco[5] prende le redini del lato tecnico dell'impresa, sostituendo il padre richiamato alle armi e partito per il fronte. Suo nonno lo ha da poco impiegato nella preparazione del carbone per le fucine quando partecipa in prima persona a una commessa del Ministero della guerra per la fornitura di proiettili ed obici. A dispetto dell'età, fidando in una corporatura già robusta, il giovanissimo Francesco solleva da solo obici che pesano oltre 50 kg e li pone sul tornio, dove realizza le filettature interne delle canne con grande maestrìa.

Alla ripresa della normale attività, nel 1918, inizia ad occuparsi del funzionamento dei motori a vapore delle trebbiatrici, settore di cui suo padre gli affida ufficialmente la responsabilità. Appena quindicenne, ma già esperto costruttore e riparatore, diventa il punto di riferimento dei numerosi clienti sparsi un po' in tutta la regione ed anche oltre, dai quali si reca in bicicletta spesso partendo in piena notte e che gli offrono volentieri ospitalità quando l'intervento si protrae fino a sera.[2][6]

Suo fratello Eugenio, che non ha ancora dieci anni, inizia allora a seguirlo come un'ombra, e senza trascurare la scuola fa tesoro dell'esperienza e degli insegnamenti di Francesco. È in questo periodo che Eugenia Rocchi, l'anima imprenditoriale dell'azienda, decide di spostare famiglia e impresa da Vailate a Treviglio, città da dove le comunicazioni con Bergamo e Milano sono più facili. Lo scopo è abbandonare un piccolo abitato con un futuro incerto ma anche permettere ai suoi due figli maschi, e soprattutto a Francesco, di frequentare un istituto tecnico dove possano perfezionare le proprie capacità.[7] Il trasferimento avviene nel 1920. La Rocchi diversifica l'attività di famiglia acquistando una grande officina meccanica ormai chiusa affiancata da una fabbrica del ghiaccio in piena attività; pur mantenendo una quota della prima divide anche le responsabilità di famiglia, affidando l'officina al marito e tenendo per sé lo stabilimento refrigerante.[8] Lo spazio della nuova officina è tale da consentire ai due ragazzi di ricavarsi uno spazio dove lavorare ai propri progetti personali. Con l'aiuto del fratello, senza trascurare il lavoro e la frequentazione serale di una scuola tecnica milanese, Francesco inizia infatti a lavorare nel campo motori.[9]

Il suo interesse iniziale è l'aeronautica, una passione che risale agli anni di Vailate, quando vedeva volare gli aerei in collaudo costruiti nelle non lontane officine della Caproni.[10] Per poter impratichirsi nel campo convince un suo zio a dargli il denaro necessario per l'acquisto di un motore proveniente da un aereo militare destinato alla demolizione, e lo monta su un inverosimile "aereo-idrovolante-auto", una sorta di velivolo che, nel suo entusiasmo giovanile, dovrebbe poter atterrare su una pista o sull'acqua, o anche essere utilizzato per percorrere la strada ordinaria.[10] Il sogno si infrange con l'apparecchio sulle balle di paglia del fienile, dove si schianta dopo aver tentato di decollare dal tetto di casa, e il motore viene riutilizzato per un'automobile pomposamente battezzata "Rolland-Pilain". Si tratta, nella realtà, di un telaio arrangiato con materiali di recupero e componenti costruiti in proprio, cui viene fissata una targa in cartone che reca un laconico numero

Il trattore Cassani 40HP
Lo stesso argomento in dettaglio: Cassani 40 CV.
Trattore Cassani modello 40HP, esposto al Museo nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci di Milano
Francesco Cassani con alcuni operai durante la messa a punto del trattore.

L'automobile, costruita quando Francesco ed Eugenio hanno sedici e dodici anni, gli serve per andare a far visita alla fidanzata e futura moglie, la figlia di un mugnaio che sua madre non vede di buon occhio, ritenendola troppo cittadina e troppo ben abituata. Francesco vorrebbe sposarla prima dei ventuno anni ma non riesce ad ottenere il necessario consenso di suo padre. "Se ne riparla quando riuscirai a far funzionare quel motore e a guadagnare dei soldi per conto tuo”",[11] gli ha risposto su istruzioni della moglie, riferendosi agli studi che i Cassani hanno iniziato sul motore diesel, un brevetto tedesco del 1892 allora poco o nulla considerato in Italia, studi per i quali la madre anticipa i fondi necessari.[2] I due fratelli sono i primi in Italia ad intuirne le potenzialità e non ancora diciottenni, nelle ore libere dal lavoro in ditta, hanno cominciato a montarne uno ex novo, che dovrà poi equipaggiare un trattore agricolo.[12] La base di partenza è il motore aeronautico montato sulla Rolland-Pilain, studiato fin nei minimi particolari con l'ausilio di decine di libri e riviste in lingua tedesca comprati a Milano. La costruzione non è in sé particolarmente difficoltosa ma nella versione destinata ad un veicolo di minori dimensioni e prestazioni l'avviamento si rivela un problema di non facile soluzione. Un ingegnoso tentativo, tra i tanti, è quello di ottenere l'autocombustione del petrolio a mezzo di una bombola ad aria compressa azionata dal movimento dei pistoni, a loro volta messi in movimento da alcune candele tradizionali che provocano la detonazione di un piccolo quantitativo di benzina,[13] ma il problema è sempre lo stesso. L'apparato sembra dover partire ma si arresta dopo solo qualche secondo.

Mancando in Italia l'esperienza diretta nel settore il primo motore funzionante viene messo a punto mutuando la disposizione dell'accensione detta "a sigaretta", adottata dai trattori inglesi Marshall, con un avviamento ad aria compressa tipico dei motori nautici.[14] È un bicilindrico orizzontale monoblocco a testa fredda, che può erogare una potenza massima di 40 cavalli a 500 giri al minuto.[15] Nel descriverlo in una lettera indirizzata alla Breda i Cassani sostengono che "si mette in moto con quattro o cinque centimetri cubi di benzina, introducendo in apposito luogo con uno speciale apparecchio due pezzetti di corda accesi imbevuta di nitrato di potassio. Gli si da l'aria compressa e istantaneamente il motore inizia il moto", e che "Nelle prove sul campo ha dato i seguenti risultati: terreno arato ettari 2,5 in ore 10 consumando Kg 45 di olio pesante, che al prezzo di L. 0,55 dà una spesa di L. 15,65 circa".[14] [N 1]




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L'occasione perduta
Francesco Cassani durante una dimostrazione del 40 HP ad un gruppo di potenziali rappresentanti.

Messo a punto il motore Francesco ed Eugenio stabiliscono anche le forme e le misure definitive del trattore,[N 2] che viene riprodotto ai primi del 1926 in una serie prototipo di quindici esemplari, dodici dei quali acquistati da imprese agricole di varie zone italiane (Bologna, Foggia, Padova), che li sperimentano su colture e terreni di varia tipologia. Complice il clima politico del periodo (il protezionismo doganale sull'importazione di macchine estere, il dirigismo, il lancio della battaglia del grano), la stampa da ampio rilievo alla notizia e sostiene che "quando gli agricoltori italiani conosceranno meglio quest'innovazione rinunceranno certo senza rimpianti alle macchine di importazione americana".[16]

Ed è proprio lo slancio che si vuole dare all'agricoltura italiana a consacrare il successo del primo trattore al mondo azionato da un motore diesel. I Cassani hanno infatti lavorato con passione al progetto, senza perdere un minuto del tempo disponibile, anche in vista del concorso per la "trattrice italiana agricola", indetto dal ministero dell'agricoltura, che si svolge a Roma nel 1927 e che vede il Cassani 40 sbaragliare aziende affermate come Fiat, La Motomeccanica e Landini.[15][17]

Per Francesco ed Eugenio la vittoria è al contempo un successo e un problema. Per poter avviare la produzione industriale del trattore, infatti, è necessario impiantare uno stabilimento apposito, dotato delle necessarie catene di montaggio e di personale operaio specializzato. L'investimento economico eccede le possibilità della società anonima delle Officine Cassani e dei suoi pochi azionisti e per la costruzione dei primi 300 esemplari, che deve iniziare in tempo per inviare un esemplare alla Fiera di Milano del 1931, viene indetta una gara tra le imprese meccaniche con annesso capitolato che stabilisce in anticipo i compensi e il prezzo di vendita, fissato a 18.000 lire.[18] Dopo aver rifiutato una proposta della Breda[19] la scelta cade su una società di Bologna, la "Gaetano Barbieri & Co",[20] una fonderia ed officina meccanica rinomata per la produzione di attrezzature agricole e impianti di refrigerazione. Il gruppo si presenta con l'ottima referenza di essere fornitore ufficiale della marina e dalle informazioni assunte dai Cassani risulta avere una solida posizione bancaria, ma si trova in realtà sull'orlo di un fallimento ben coperto da una serie di protezioni politiche e bancarie.

La Barbieri confida nell'anticipo per sanare una parte dei propri debiti e rimettersi in sesto, e solo in seguito evadere l'ordinazione, ma il crollo della borsa valori di New York, e la conseguente crisi economica mondiale le danno il colpo di grazia.[21] Solo a questo punto i Cassani si rendono conto di come stanno le cose, in particolare che le sue forniture sono oggetto da tempo di pesanti contestazioni e che la Regia marina è prossima a revocare i propri appalti.[22] Pressati a livello politico rinunciano ad un'azione risarcitoria ed anzi Francesco viene chiamato a ricoprire il ruolo di direttore tecnico della Barbieri dove, impegnando somme personali e risorse della propria officina, riesce a far costruire un numero imprecisato di trattori. L'avvio della produzione, tuttavia, rinvia di poco l'inevitabile, e cioè il definitivo fallimento della Barbieri, cui segue il conferimento dei trattori costruiti quale garanzia su un prestito per chiudere le partite rimaste aperte.
Motori, pompe e... desideri
Annuncio pubblicitario della Barbieri.

La disavventura segna la fine della "Società anonima Officine Italiane Cassani". Uno degli azionisti, Francesco Grugnetti, onora a proprie spese i debiti rimasti scoperti, evitando così la procedura fallimentare, ma quale contropartita ottiene le quote sociali dei fratelli Cassani e gli studi e i brevetti di Francesco.[2] Questo fallimento è il frutto di un approccio fondamentalmente errato dei due fratelli, che sono anzitutto progettisti ed inventori e che - ad averlo potuto fare - tali sarebbero rimasti. All'entusiasmo per questa o quella invenzione, infatti, non ha fino ad allora corrisposto la dovuta attenzione al problema della produzione industriale, e già Luigia Rocchi ha fatto a suo tempo notare a Francesco che si sente troppo sicuro di sé e delle sue invenzioni, spesso inattuabili come l'aereo dei suoi anni giovanili. Ma non ancora trentenni i due fratelli di frecce al loro arco ne hanno parecchie e accantonata al momento l'idea di produrre trattori tornano a Treviglio col progetto di un nuovo motore diesel per autocarri e l'idea di ricominciare da capo nel settore delle pompe ad iniezione, un aspetto che si è rivelato problematico durante la messa a punto del Cassani 40.[23] Il motore diesel è all'epoca predominato dall'industria straniera e per le pompe si sono giocoforza rivolti alla Bosch di Stoccarda e alla Précision Mécanique della Villette di Parigi, che però non sono riuscite a fornire prodotti adeguati alle specifiche richieste. La base di partenza sono quindi gli adattamenti e le correzioni adottate dai Cassani nel montaggio del primo motore.
Le officine della UTITA a Este (PD).

Il mercato interno in questo settore è foriero di grandi sviluppi per la politica autarchica del regime ma la produzione richiede di addentrarsi nel difficile settore della meccanica di precisione, laddove la tolleranza ammessa nelle misure è nell'ordine dei millesimi di millimetro. Con pochissime macchine utensili e una rettifica acquistata a prezzo di favore iniziano l'attività con Francesco che predispone i progetti ed Eugenio che dirige le lavorazioni, una suddivisione dei ruoli che rimarrà inalterata negli anni a venire. Le prime pompe sono messe a punto nel 1931 ed inviate in prova a Isotta Fraschini, Lancia, Bianchi ed esercito con buoni risultati. La produzione in serie si rivela però sottodimensionata alle previsioni per la difficoltà di intaccare il monopolio della Bosch, sempre solido in barba alle misure protezionistiche. Sono quindi accelerati i tempi per la messa a punto del motore per autocarri, un progetto nato nel periodo bolognese per interessamento di Giovanni Brunetti, direttore dell'UTITA,[24] una consociata della Snia-Viscosa che a causa della crisi economica ha deciso di diversificare la produzione nel settore della meccanica.

La prima idea di Brunetti, un motore per autocarri, è legata alla decisione dell'esercito di ammodernare il parco dei Fiat 18 BL, risalenti alla prima guerra mondiale e all'epoca ben più che superati, ed alcuni sono effettivamente provati su un numero imprecisato di veicoli. Viene anche messo a punto un motore nautico di maggiore potenza, a sei cilindri con pistoni contrapposti che sviluppa 85 cavalli a 1800 giri al minuto, montato su un motoscafo che partecipa all'VIII concorso motonautico internazionale d'Italia, tenutosi a Venezia dal 15 al 18 settembre 1934 e vince il raid Venezia-Trieste per l'economia di carburante. Col motore nautico nasce il marchio "Italmotor" ma intanto la commessa dell'esercito non viene perfezionata. In luogo di dotare di nuova componentistica veicoli antiquati, infatti, si decide un profondo rinnovamento del parco, che viene svecchiato con l'autocarretta OM 32 e l'autocarro Pesante Unificato Lancia 3Ro. Il venir meno delle commesse militari fa scemare l'interesse della Viscosa, che non vuole rischiare forti investimenti di danaro in una riconversione produttiva dagli esiti imprevedibili e fa tornare l'UTITA alle produzioni abituali.



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Dalla SPICA alla SAME
Il motore a revolver e la fondazione della SPICA
Uno dei tre motori BAF-Cassani.
Il barone Alberto Fassini Camossi.
Il Generale di squadra aerea Giuseppe Valle, sottosegretario al ministero dell'aeronautica.

Nonostante le buone premesse ancora una volta le speranze dei Cassani sono tradite da sviluppi cui non possono in alcun modo interferire. Fortuna vuole che il presidente dell'UTITA, il barone Alberto Fassini Camossi, sia rimasto colpito dalle grandi capacità dei due fratelli e decide di finanziarne i progetti a proprie spese. Fassini si è fatto una buona esperienza nella costruzione di macchinari per l'industria dei tessili artificiali e ripone grande fiducia nella mente vulcanica di Francesco, sempre piena di invenzioni, e lo aiuta a portare avanti lo studio di un motore aeronautico rivoluzionario per l'Italia ma non del tutto nuovo nei suoi studi, rimasti incompiuti per mancanza di fondi.[25] Si tratta di un apparato che per la particolare disposizione circolare dei cilindri (che ricorda il tamburo di una pistola) viene detto "a revolver". Il rapporto tra peso e potenza, fondamentale per l'installazione su un velivolo, è di un Kg per cavallo sviluppato. Nel 1937 progetto viene sottoposto da Fassini e Francesco Cassani al generale Giuseppe Valle, sottosegretario al Ministero dell'aeronautica, che con l'assenso di Mussolini (ministro ad interim) chiede l'immediata costruzione di un modello funzionante e si impegna ad acquistarne tre prototipi.[10][26] La costruzione dei motori pre-serie, col marchio B.A.F. (Barone Alberto Fassini)-Cassani, viene affidata ai cantieri Odero-Terni-Orlando (O.T.O., oggi OTO Melara), che nello stesso periodo sono andati incontro a una serie di fallimenti nell'applicazione dei motori a benzina su navi e veicoli terrestri militari.[10]

Francesco ed Eugenio pensano che la via del successo sia stata finalmente intrapresa tanto che pochi mesi prima, nell'auspicio di ampliare a una vera e propria industria la produzione delle pompe ad iniezione, hanno costituito a Treviglio la Società Pompe Iniezione Cassani (SPICA), un'anonima di modeste pretese economiche cui partecipano due piccoli azionisti locali. La mossa è funzionale alle pressioni che la Bosch esercita nello stesso periodo sulle case automobilistiche italiane, cui da tempo fornisce anche impianti elettrici e che non ha nessun'intenzione di farsi strappare il monopolio nel settore. Per spianare la strada alla produzione nostrana, voluta dalla politica autarchica di Mussolini, viene organizzata una prova con due autocarri Lancia 3Ro, equipaggiati con impianti delle due imprese, sulla ripida salita del Monte dei Cappuccini, a Torino. L'autocarro dotato di impianto Cassani "equipaggiato con pompe SPICA - grazie alla maggior coppia erogata - riesce a compiere la curva senza ricorrere al cambio di marcia, mentre il motore dell’altro autocarro, munito di pompe Bosch, ingloriosamente si spegne più volte.".[27] I risultati trovano ampia eco sulla stampa periodica e specializzata e dalla Lancia giunge il primo ordine per 3.000 apparati completi (pompa, regolatore di anticipo automatico, pompa di alimentazione, iniettori) rispondenti a specifiche oltremodo precise. Al ministero della guerra, intanto, l'Ispettorato Generale dell'Esercito, soddisfatto dalle numerose prove effettuate e dai risultati della sperimentazione torinese, ha dato parere favorevole al motore BAF-Cassani. Il generale Manera, capo dell'ispettorato, convoca Fassini e Francesco Cassani a Roma e gli comunica la decisione presa dal ministro, cioè da Mussolini, di "rendere autosufficiente l'Italia per la fornitura di pompe d'iniezione".[27][28]
L'occasione perduta
Esterno ed interni delle officine SPICA di Livorno

A spianare la strada alla SPICA sono i venti di guerra che spirano sempre più forti in Europa nella seconda metà degli anni trenta, ed anche un momentaneo raffreddamento dei rapporti tra Italia e Germania dopo l'annessione dell'Austria da parte di Hitler. Consapevoli della possibilità di arginare il monopolio della Bosch Ciano e Orlando ne hanno anzi promosso un totale riassetto che li vede entrare come azionisti di maggioranza. Il 6 marzo 1938 viene firmato un accordo in cui Eugenio e Francesco Cassani cedono l'officina e le attrezzatture di Treviglio in cambio di 450.000 lire in contanti e del 2,5% del fatturato annuo della società. I due fratelli assumono l'incarico, rispettivamente, di direttore dell'officina e consulente tecnico di una nuova sede ubicata ad Ardenza, un quartiere di Livorno, i cui lavori prevedono l'adattamento e l'ampliamento di un preesistente stabilimento industriale in disuso.[28][29]

Mentre le ordinazioni per apparati di iniezione giungono ora da tutta Italia i fratelli Cassani sono incaricati di mettere a punto un motore aeronautico da 800 cavalli per gli aerei adibiti al trasporto dei rifornimenti per le truppe impegnate nelle zone di operazione. La progettazione richiede oltre un anno.[28] La costruzione presso le officine OTO inizia alla fine del 1939 ed è in pieno corso quando Mussolini annuncia l'entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale. La notizia sorprende Ciano e Orlando a Livorno, dove stanno discutendo coi Cassani l'ampliamento delle officine ad uno stabilimento della Moto Fides per l'alto numero di commesse ricevute. Tre giorni dopo giunge da Roma un telegramma dell'Ispettorato all'aviazione che invita ad abbandonare il progetto del motore perché tutti gli sforzi devono indirizzarsi alla produzione bellica.
Arturo Bocciardo.

La rinuncia non intacca l'ormai avviata industriale della società ma di li a pochi mesi viene a mancare Luigi Orlando, ed è un'occasione insperata per la Bosch di mettere i bastoni tra le ruote al pericoloso concorrente italiano. Il gruppo tedesco tenta infatti una scalata al pacchetto azionario della SPICA iniziando dalle azioni ora in possesso agli eredi dell'ingegnere, acquistate offrendo loro il doppio del loro valore. Con in tasca il 30% del pacchetto azionario fa la stessa offerta all'ammiraglio Ciano, che a sua volta oppone un deciso rifiuto e si oppone all'influenza del gruppo tedesco coinvolgendo suo nipote Galeazzo. Per non rischiare di mandare perduta l'emancipazione italiana del settore il ministro degli esteri dà incarico al senatore Arturo Bocciardo, presidente delle Acciaierie di Terni, di predisporre il passaggio del restante 70% all'IRI, che ne affida la gestione all'Alfa Romeo. I Cassani sono sostituiti nei rispettivi incarichi da funzionari delle partecipazioni statali mantenendo in vigore l'accordo che assicura loro il 2,5% del fatturato SPICA. Francesco ed Eugenio sono invitati a prestare la loro opera sulle pompe a iniezione presso la sede Alfa di Milano e ottengono un mandato di consulenza sulla SPICA, con l'accordo che eventuali brevetti vengano registrati a nome SPICA-Cassani.[28][29]
Il ritorno alle origini: la SAME

Nelle file dell'Alfa ai Cassani viene affidato il primo centro ricerche italiano per i motori aeronautici, incarico che scatena gelosie e ripicche con gli ingegneri della Direzione progettazione ed esperienze. L'inventiva e la genialità di Francesco ed Eugenio, inoltre, sono svilite dalla rigida burocrazia interna che caratterizza un gruppo industriale di grandi dimensioni. Lo scontro fa presto a degenerare in un vero e proprio intrigo. Francesco viene accusato di essere autore di una lettera anonima diffamatoria nei confronti di un tale ing. Ricart, consulente della direzione, Eugenio è invece accusato di aver sottratto un tubetto di polvere di smeriglio.[30] Le accuse sono inventate, come pure il tribunale di Milano riconoscerà in seguito, ma è quanto basta per giustificarne il licenziamento in tronco. Nella seconda metà del 1941 i due fratelli tornano a Treviglio con un piccolo capitale (le quote del fatturato SPICA fino ad allora incassate) e una grande ricchezza nella progettazione e realizzazione di trattori, pompe ad iniezione e motori di varia tipologia.[N 3][31]

L'idea di reinvestire il danaro nella Società Accomandita Motori Endotermici si concretizza dopo una discussione di alcuni mesi e alcune proposte da terzi via via scartate. A prevalere sono le ambizioni di Francesco, mai venute meno al pari della sua (forse eccessiva) sicurezza personale, cui il fratello finisce con l'adeguarsi dopo aver pensato a modeste ma più sicure attività come un'autorimessa a La Spezia. L'attività della SAME comincia con una modesta officina meccanica per la riparazione di automezzi militari ubicata nei locali dell'attività di famiglia, rimasti inoperosi dopo la morte di Paolo Cassani (1932), dove al piano superiore Francesco ed Eugenio tornano ad abitare con le rispettive famiglie. Lo stato di guerra e la scarsità di materie prime non consentono al momento di andare oltre. Mentre Eugenio rimane in pianta stabile a Treviglio, guidando il lavoro di tre operai, Francesco fa la spola con Milano in cerca di commesse, spesso subappalti da parte di altre aziende come la fornitura di alcune decine di motori diesel di piccole dimensioni per l'azionamento di macchinari industriali.[32]
La prima sede della SAME a Treviglio.

Finita la guerra la SAME dispone di una buona riserva di liquidità, perlopiù messa insieme grazie a una commessa della Fiat per la fornitura di pompe antincendio a motore,[33] che viene prontamente reinvestita in macchine utensili di varia tipologia prima che l'inflazione del dopoguerra eroda il valore della moneta. Per far fronte alle penuria di rifornimenti Francesco si reca al Brennero, dove l'autorità militare ha messo in vendita una quantità non precisata di mezzi blindati coi motori perfettamente funzionanti, che sono portati a Treviglio, smontati e trasformati in mucchi eterogenei di materiali pronti al riutilizzo. Con questa grande quantità di scorte viene messo a punto un piccolo motore generatore di elettricità, che va a ruba per l'aleatorietà dell'erogazione di energia di quei tempi, acquistati in gran numero soprattutto da industriali e ospedali. La minicentrale Cassani è il primo prodotto ufficiale della SAME e i suoi ricavi consentono di trasferire l'officina in una sede più grande, ricavata in preesistenti locali appartenenti ad impresa non precisata in via Madreperla. È in questa nuova sede che Francesco ed Eugenio tornano all'idea originaria della meccanizzazione agricola. Causa la penuria di mezzi della ditta e di risorse dei potenziali acquirenti viene messa a punto un'autofalciatrice a tre ruote, dotata di motore a quattro tempi con accensione a benzina, che sviluppa otto cavalli e che, al pari di quanto già poteva fare il trattore 40 HP, può essere munito di una puleggia per l'azionamento di macchine e catene.[N 4][31]

A dispetto del nome l'autofalciatrice è un prodotto oltremodo versatile, che può essere utilizzato anche per trainare o spingere gli attrezzi agricoli o movimentare carichi non eccessivamente pesanti. La possibilità di collegare una puleggia al motore permette di utilizzare vecchi e nuovi attrezzi come la spazzola ardanatrice per la raccolta delle patate, e lo stesso motore è fissato con cinque fermi per poter essere rimosso con poca fatica e trasportato per altri utilizzi.[10]

La nuova sede di Treviglio (esterni)

La nuova sede di Treviglio (esterni)
La nuova sede di Treviglio (interni)

La nuova sede di Treviglio (interni)
Foto ufficiale del trattorino 3r10

Foto ufficiale del trattorino 3r10
Prove su un campo coltivato della motofalciatrice

Prove su un campo coltivato della motofalciatrice

segue Un difficile dopoguerra

 
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