| Il corpo è il corpo, è solo e non ha bisogno d’organo il corpo non è mai un organismo gli organismi sono i nemici del corpo. (Artaud, 84, 1948, nn.5-6)
Se qualcosa si può imputare a Onomacrito, è di non aver intuito fino in fondo la «povertà» del racconto primitivo, di non aver compreso che non è né dio né uomo il corpo del neonato grido-Orfeoche si rivolta contro chi, per iniziarlo, lo rende «organico» alla trama della sua superstizione e della sua crudeltà. Onomacrito, forse è chiedergli troppo, ma avrebbe dovuto spogliare e non vestire di dottrina i due «resti» mitologici. Solo così avrebbe restituito al corpo il diritto a dire la sua. Perché non c’è racconto, e soprattutto racconto arcaico, che non racconti di quella tragica passione patita dal corpo nella culla o nella stalla. E se un racconto racconta di spiriti, in fondo è solo perché il corpo del suo narratore è stato così «spiritato» dai Titani o dalle Menadi assassine, che adesso si tiene alla larga da quel terribile ricordo. D’altronde, cosa intende dire Onomacrito quando dice che noi uomini, finanche noi «orfici», siamo fatti di «sostanza titanica»? cosa, se non che sbraniamo il corpo degli ultimi arrivati, perché fummo a nostra volta sbranati? cosa, se non che solo da fantasmi possiamo «umanamente» circolare tra gli altri fantasmi?
Non corpi, ma fantasmi di corpi. Non più corpi, ma macchine celibi. Ecco ciò che siamo sin dal primo quadro della messinscena orfica. A farci divenire fantasmi dei nostri corpi, ecco a cosa servono le «Iniziazioni». Servono a incidere e a tagliare i nostri corpi, ad aprire voragini e a scavare disgiunzioni nella carne viva delle nostre emozioni infantili. Servono a sdoppiare Dioniso e Orfeo in un solo corpo. A mettere l’uno contro l’altro Dioniso e Orfeo che, di questo corpo, saranno le due opposte «tensioni», i due «poli», il caos e il cosmo, la notte e il giorno. Perciò … fu sera e fu mattino quando il corpo «nacque». E fu capro e fu vino: insieme, colpa ed espiazione di un’innocente libidine che avrebbe voluto vivere senza nessuna spezzatura, senza doversi disgiungere da se stessa e dal suo linguaggio di natura.
Il corpo «iniziato» non è che un capretto barbaramente immolato alla pasqua del «divenire-civile». Non è, ma lo diventa – un corpo «dimezzato», un corpo «conteso», «scisso» nel suo innocente ermafroditismo – di qua Dioniso, e tutta l’epopea della paranoia d’un orfanello, tutta la paura del bambino che di botto si ritrova tutto solo in un bosco, solo e accerchiato dai predatori, solo tra le belve feroci, solo lui e lo spavento –, e di là invece Orfeo, e tutta la poesia, tutto l’incantesimo, tutto lo stupore che lo eccita a creare cosmo, a comporre differenze e ad avvicinare distanze, abbandonandosi al «divenire-agnello» della sua voce moribonda.
E dunque: un corpo, ma due «generi» vocali: il rumore insensato, il grido selvaggio, l’urlo ululato, il terrore strillato o l’angoscia a stento soffiata, ma insieme anche il suono ritmato, la nota intonata, l’evocazione e il canto. Due «generi», in battere e in levare, tutt’e due destinati a essere smembrati, l’uno alla maniera selvaggia, l’altro secondo l’arte della divisione in sette parti (la scala musicale) – l’uno che vive di vita «divina» e che, essendo indistruttibile, risorge in tutte le frammentazioni sonore che non giungono a divenire parole, nei soffi e nei gridi animali, nella voce che dà voce alla rabbia e ai rancori, alle furie scatenate, agli asti e alle ostilità, alle repulsioni violente e agli scaccioni più o meno apotropaici (allora a bestemmiare è la voce del corpo che oppone i suoi vade retro agli intrusi, siano essi Titani o Streghe) –, l’altro invece che si estingue nella sua morte, ma non prima di aver artisticamente «composto» ogni senso, letterale, allegorico, simbolico e perfino anagogico, del suo canto con la più ingenua, la più stupefacente, delle «umane» insensatezze: la fede nel «divenire-cosmo» del caos stesso (allora a pregare è la voce più intima al corpo, la voce del suo linguaggio ancora ignaro di asti e di vendette, la voce del corpo che nell’esser smembrato fa la follia di affidarsi in testamento alla sola eco della sua Blake-Urizenimpotente innocenza).
Solo l’eco rimane d’un «ritmo» perduto, solo l’onda di un addio che non si dà pace, di un addio che ancora non si tace. È tutto ciò che resta del vissuto di un corpo «iniziato». Solo un vapore, solo un odore in cui però è racchiusa tutta la fede di Orfeo: forse tutto il cosmo di cui il Caos è capace, non è che il vago ritornello di uno stesso addio che va e viene dalla voce dei moribondi, come un incantesimo che li chiama a consegnarsi, a uno a uno, artisticamente all’Arte del silenzio.
Come? che dici? non lo vedi? Dioniso, il corpo nudo e crudo disgiunto dalla madre, il corpo senz’organi, il corpo pieno, il corpo vivo, ancora senza buchi, ancora senza tagli né cuciture – vengono amici e parenti a dargli il benvenuto, e portano doni, gingilli e giocattoli d’ogni sorta, portano oro incenso e mirra, ma Dioniso li guarda: cosa vogliono questi sconosciuti? mamma, dove sei? perché non li cacci via dal presepe?
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