IL FARO DEI SOGNI

Kerényi – La religione orfica di Dioniso

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view post Posted on 29/3/2023, 16:31     Top   Dislike
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dioniso-nutrici-assassine







Di Onomacrito si dice che abbia attinto a Omero il nome dei Titani e che, nel comporre dei rituali misterici in onore di Dioniso, abbia scritto nei suoi versi che erano stati i Titani a rendersi colpevoli delle sofferenze di Dioniso.
(Pausania, Periegesi della Grecia, 8: 37.5)

Il pio Pausania riferisce qui un dato, che era ancora noto al tempo dell’imperatore Adriano. Egli era un conoscitore dei testi religiosi che allora erano ancora disponibili. Fra questi, a noi qui interessa l’opera di Onomacrito, le Teletaí (le «Iniziazioni», VI secolo a. C.), che doveva contenere le azioni cultuali, nonché la loro mitica preistoria. I nuovi misteri dionisiaci, che egli «compose» sulla base di quelli antichi, avevano bisogno di un fondamento mitico, da rendere d’allora in poi disponibile in forma scritta.

Grazie a Onomacrito e alla sua opera, il sacrificio mistico che le donne dionisiache celebravano in segreto passò nella letteratura dei neoplatonici, e può essere ricostruito in base a essa. I testi che dobbiamo a tale scopo analizzare sono molto lontani dall’antico culto delfico sia dal punto di vista spaziale sia da quello cronologico. Appartengono agli ultimi Dioniso-dio-vinosecoli dell’antichità e attingono ad opere che, per il solo fatto di essere scritte, hanno potuto collegarsi con l’antica religione dionisiaca solo in maniera contraddittoria. Esse ci permettono tuttavia di ricostruire particolari che appartenevano al quadro storico del culto di Dioniso fin dai primi, o forse dai primissimi tempi della presenza del dio in Grecia.

Da Onomacrito in poi prevalse nell’Orfismo una dottrina che può essere espressa con queste parole, anche se non si trova mai riassunta così. Fra le donne dionisiache, le serventi di Dioniso, ma non solo fra loro, si nasconde a volte anche una nemica del dio, che si svela e diventa la sua assassina! Tutti gli esseri umani sono così, perché tutti fatti della medesima sostanza dei primi nemici del dio; eppure tutti hanno in sé qualcosa che viene proprio da quel dio, la vita divina, indistruttibile. Onomacrito trovò il modo di esprimere questo concetto prendendo da Omero il nome dei Titani. Gli uomini discendevano dai Titani, in un modo del tutto particolare che viene descritto puntualmente dal filosofo neoplatonico Olimpiodoro nel suo commento al Fedone di Platone: dopo i primi tre sovrani del mondo – Urano, Kronos e Zeus – il quarto a regnare fu Dioniso. Ma su istigazione di Era i Titani che l’accompagnavano lo smembrarono e ne mangiarono la carne. Zeus fu preso da collera, e colpì i Titani col suo fulmine. L’esalazione dei loro corpi formò della fuliggine: questa si trasformò in materia e da questa materia sorsero gli esseri umani.





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Non si dice dunque semplicemente che dalla cenere dei Titani abbia avuto origine la stirpe umana, affermazione che, a detta di Kern, rappresenterebbe «un dogma fondamentale della teologia orfica». Ma se una tale sommaria interpretazione della dottrina fosse corretta, sarebbe stato superfluo precisare i dettagli del processo di incenerimento. «Il nostro corpo è dionisiaco – aggiungeva Olimpiodoro. – Siamo pur sempre una parte di lui, perché siamo nati dalla fuliggine dei Titani che avevano mangiato della sua carne». Fuliggine e cenere non sono la stessa cosa. Il termine che è stato scelto, aithálê, nell’alchimia tardo-antica significava vapore sublimato. Se questa storia fosse stata inventata liberamente, senza essere connessa coi dati del mito e del culto, per la dottrina della discendenza dai Titani fuliggine-fotosarebbe stata sufficiente la nascita dalle loro ceneri – in greco spodós. Entrambe le componenti, sia l’elemento titanico sia anche Dioniso, avrebbero potuto trovarsi nelle ceneri. Il procedimento più complesso attraverso i vapori e la loro concrezione in materia, «la fuliggine dei Titani», si rivela la sintesi magistrale di un autore, che volle racchiudere nella sua composizione tutti i dati di cui disponeva. E questi non può essere stato che Onomacrito.

Egli adottò il nome dei Titani per gli esseri che originariamente intrapresero il nefando sacrificio dionisiaco: l’assassinio e lo smembramento del dio. Non che in seguito a ciò i Titani siano rimasti entità meno concrete della mitologia greca. Il loro destino era noto: Zeus li aveva sconfitti nella Titanomachia, e scagliati nel Tartaro. La credenza affiorante nella filosofia popolare del periodo romano, secondo cui gli uomini sarebbero nati dal sangue dei Titani (cfr. Ovidio, Metamorfosi, 1: 156-162), sembra più la secolarizzazione del nuovo mito di Onomacrito, divenuto un dogma dei misteri orfici, che una versione più antica. Nel libro degli Inni orfici, formatosi solo in epoca successiva al Cristianesimo, si trova una preghiera ai Titani. Essi vengono qui invocati come «antenati dei nostri padri», «origine e sorgente di tutti i mortali gravati da fatiche», quali erano stati a partire da Onomacrito. Ma vengono pure chiamati in aiuto quando la casa è molestata da un fantasma ancestrale. Essi hanno il potere di scacciare lo spirito astioso, perché essi stessi sono diventati spiriti ancestrali e fantasmi dello stesso genere. Anche nell’inno viene loro assegnato quel remoto angolo sotterraneo dove, secondo la tradizione generalmente accettata, furono scagliati e relegati da Zeus.

Quando i Titani apparvero per uccidere Dioniso fanciullo, giunsero come fantasmi dall’oltretomba, e vennero rigettati dal fulmine di Zeus nella loro eterna dimora. A ciò si conforma la spiegazione di Onomacrito: il calore del fulmine fece uscire dai corpi percossi un vapore simile a fumo. Essi scomparvero nel Tartaro, il vapore si trasformò in fuliggine e la fuliggine nella materia di cui è fatta l’umanità. Così risultarono uniti due dati: l’antico mito dei Titani e un altro dato cultuale, una sostanza che restò quale residuo di un fuoco. A Doré-Titanomachiaquesta sostanza si ricollegò Onomacrito: oltre a quanto restava dei Titani sulla terra, in essa doveva essere contenuto anche Dioniso. Nella fuliggine si nascondeva della sostanza dionisiaca, che si trasmette negli uomini di generazione in generazione. In tal modo al dio venne conferita una sostanzialità materiale che non figura altrove nella religione greca, se non, al massimo, nelle interpretazioni «fisiologiche» degli dèi; e comunque, per quanto riguarda la religione dionisiaca, soltanto in questo caso. […]

I Titani avevano preso di sorpresa il fanciullo divino Dioniso; così raccontò, a partire da Onomacrito, la storia orfica del mondo, che sfociava nell’era dionisiaca – l’età degli Orfici stessi – divenuta visibile dopo il regno di Zeus: essa copre i mille anni da Onomacrito a Nonno, il cui epos costituisce l’ultima grande testimonianza della religione orfica di Dioniso. Il fanciullo venne ucciso e preparato per il banchetto. Nella versione generalmente nota, essi uccisero il fanciullo riducendolo a brandelli. Questo era lo sparagmós [lo smembramento estatico]. Nonno però menziona anche il coltello dei Titani: la Tartária máchaira, il «coltello infernale», lo strumento della colpa titanica. Esso era necessario per lo svolgersi della cerimonia, ma si trattava di un altro rito, ben più complicato dello sparagmós. Quando l’essere che era stato ucciso doveva venir suddiviso in sette parti e per di più occorreva conservare un organo separato dal resto, è chiaro che gli esecutori dovevano utilizzare ampiamente il coltello. La preparazione del pasto è descritta nel mondo seguente (cfr. Frammenti orfici: 34, 35, 210, 214):





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La vittima dei Titani fu tagliata in sette parti e gettata in un paiolo, che stava su un tripode. In esso si fecero bollire le sette parti, poi i pezzi di carne furono prelevati dal paiolo e infilzati sugli spiedi, indi posti sopra il fuoco. Tuttavia non si giunse a consumare il pasto. Solleticato dal profumo apparve Zeus, e col suo fulmine impedì ai Titani di portare a termine il pasto cannibalesco. Il pasto era cannibalesco perché esseri divini si preparavano a divorare un essere divino. Quando gli uomini lo imitarono nelle loro azioni sacre, quell’atto non era cannibalesco: un animale sacrificale sostituiva infatti il fanciullo divino. Per tale motivo Nonno chiama il piccolo Dioniso keróen bréphos, il «lattante cornuto».

capro-espiatorio

Dioniso stesso venne chiamato Ériphos, «capretto» (questo era il suo aspetto ferino più noto nella mitologia) […] e nel sacrificio dionisiaco era un capretto a essere macellato e cotto in un paiolo. […] Il fatto però che si proceda a una divisione in pezzi invece di dilaniare e di inghiottire, appartiene a un livello del mito che addirittura impone di istituire un parallelo col mito di Osiride. Iside cercò e ricompose le membra del suo sposo. L’atto di risvegliare [il morto] andò a buon fine in quanto, non mancando il membro virile (o, come racconta Plutarco, essendo stato sostituito con un fallo artificiale), la coppia divina poté unirsi nell’atto d’amore. […]

Per gli orfici Dioniso non era però detto solo Capro, ma anche Vino. L’uso di sacrificare un capretto alla vite si mantenne durante tutta l’antichità greca e romana. Il sacrificio veniva spiegato con una sorta di ius talionis, perché le capre, quando venivano lasciate libere in un vigneto, si rendevano colpevoli nei confronti delle viti. «Così avveniva – dice Marco Terenzio Varrone (De re rustica, 1: 2.19) – che dei caproni fossero offerti in sacrificio a Dioniso, lo scopritore della vite, come se espiassero in base al principio dell’occhio per occhio». La spiegazione presume l’idea della sostituzione: per la vigna il caprone. In un epigramma di Leonida di Taranto una voce risuona dalla terra, dove giace lo smembrato Dioniso, e minaccia il caprone: «Divorami pure i tralci ricchi di frutti: le radici produrranno ancora abbastanza vino per irrorarti, quando verrai sacrificato!».

(Kerényi, Dioniso)

***


orfeo-mosaico-chahba

Non è sorprendente che, a partire da Onomacrito e fino a Nonno di Panopoli, per oltre mille anni, siano stati degli orfici a prendersi l’incarico di comporre le tessere sparse del puzzle dionisiaco? Il Racconto non dice forse che Orfeo muore sbranato dalle Menadi, e questo non fa di lui, sia pure indirettamente, una vittima di Dioniso? Come si può allora giungere a una tale conciliazione degli opposti, da poter tranquillamente parlare di una «religione orfica di Dioniso»? Può essere mai che gli orfici fossero così folli da venerare, niente meno che, il mandante delle assassine del loro «profeta»? Come s’ha da sbrogliare, ma poi è davvero possibile sbrogliare … questa matassa?

Dioniso e Orfeo, un «dio» e un «uomo», un Cristo scisso in due: un «dio» così barbaro, così animale, così crudele da trascendere ogni pietà, ogni possibilità di cosmo, ogni credenza, ogni morale, ogni codice, ogni grammatica, Signore del disordine, che vive di caos e che solo nel caos signoreggia in eterno … e, insieme ma all’opposto, un «uomo» così umano, così civile, così mite, così artista da mettersi a giocare con la morte offrendosi in olocausto al miraggio di un cosmo racchiuso nel capriccio stesso del caos.

Dioniso e Orfeo, un «dio» terreno e un «uomo» celeste – un «dio» fatto di terra, di polvere e di cenere, e un «uomo» fatto di cielo, di fumo e di vapore … ma è di questo che davvero si Orfeo-liratratta? o si tratta solo di una tarda «teologia» costruita artificiosamente sulle macerie di un’antica liturgia cannibalesca, in cui al capro s’imputava la colpa d’essersi lussuriosamente sfregato con le corna sui tralci della vite, solo per accampare una scusa per macellarlo, bollirlo e/o arrostirlo? non potrebbe essere che siamo qui, molto più modestamente, solo alle prese con gli avanzi di due rituali primitivi giunti oralmente – l’uno dal nord, dalla Tracia, e l’altro dal sud, da Creta – fin sulla soglia della Storia, e che i primi «storici» si siano incaricati poi di rivedere e correggere quelle che probabilmente erano solo le «ricette» di una cucina preistorica, per estrarne i «dogmi» di una immaginaria religione ancestrale?

Onomacrito, sospettando (e qui non si sbagliava) che tanto il racconto trace quanto quello cretese provenissero da un’unica arcaica miniera narrativa, si curò di comporli in una sola «sceneggiatura», in un solo sincretico «dramma», quello appunto del dio-uomo, del «dio» che passa per la morte dell’«uomo» affinché nell’«uomo» persista una parte della sua vita indistruttibile, una scintilla del suo fuoco «divino». Onomacrito non si sbagliava fiutando nei due «miti» due ramificazioni di uno stesso remoto racconto, due variazioni di un solo tema (lo smembramento del corpo vivo di un «dio-bambino» quale iniziazione alla sua fuligginosa esistenza da «uomo-celibe»), ma pensava che fosse sufficiente ricucirli in una sola trama, limitandosi a disporne le reliquie in un ordine temporale: il bambino nel grembo della mamma, il bambino gettato nel mondo, il bambino nudo e crudo gettato nella culla o nella stalla, il povero orfanello, solo, lui e … i suoi «iniziatori» all’esistenza, lui e le sue «nutrici» assassine, lui e i Giganti, lui e i Ciclopi, lui e i Mostri voraci, lui e i Fantasmi che vengono a sbranarlo, lui e i lupi, lui e le streghe nel bosco, lui e le fiere feroci nella selva oscura, lui … solo lui, solo un corpo, da solo, gettato nel mondo, al freddo e al gelo …



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Il corpo è il corpo,
è solo
e non ha bisogno d’organo
il corpo non è mai un organismo
gli organismi sono i nemici del corpo.
(Artaud, 84, 1948, nn.5-6)

Se qualcosa si può imputare a Onomacrito, è di non aver intuito fino in fondo la «povertà» del racconto primitivo, di non aver compreso che non è né dio né uomo il corpo del neonato grido-Orfeoche si rivolta contro chi, per iniziarlo, lo rende «organico» alla trama della sua superstizione e della sua crudeltà. Onomacrito, forse è chiedergli troppo, ma avrebbe dovuto spogliare e non vestire di dottrina i due «resti» mitologici. Solo così avrebbe restituito al corpo il diritto a dire la sua. Perché non c’è racconto, e soprattutto racconto arcaico, che non racconti di quella tragica passione patita dal corpo nella culla o nella stalla. E se un racconto racconta di spiriti, in fondo è solo perché il corpo del suo narratore è stato così «spiritato» dai Titani o dalle Menadi assassine, che adesso si tiene alla larga da quel terribile ricordo. D’altronde, cosa intende dire Onomacrito quando dice che noi uomini, finanche noi «orfici», siamo fatti di «sostanza titanica»? cosa, se non che sbraniamo il corpo degli ultimi arrivati, perché fummo a nostra volta sbranati? cosa, se non che solo da fantasmi possiamo «umanamente» circolare tra gli altri fantasmi?

Non corpi, ma fantasmi di corpi. Non più corpi, ma macchine celibi. Ecco ciò che siamo sin dal primo quadro della messinscena orfica. A farci divenire fantasmi dei nostri corpi, ecco a cosa servono le «Iniziazioni». Servono a incidere e a tagliare i nostri corpi, ad aprire voragini e a scavare disgiunzioni nella carne viva delle nostre emozioni infantili. Servono a sdoppiare Dioniso e Orfeo in un solo corpo. A mettere l’uno contro l’altro Dioniso e Orfeo che, di questo corpo, saranno le due opposte «tensioni», i due «poli», il caos e il cosmo, la notte e il giorno. Perciò … fu sera e fu mattino quando il corpo «nacque». E fu capro e fu vino: insieme, colpa ed espiazione di un’innocente libidine che avrebbe voluto vivere senza nessuna spezzatura, senza doversi disgiungere da se stessa e dal suo linguaggio di natura.

Il corpo «iniziato» non è che un capretto barbaramente immolato alla pasqua del «divenire-civile». Non è, ma lo diventa – un corpo «dimezzato», un corpo «conteso», «scisso» nel suo innocente ermafroditismo – di qua Dioniso, e tutta l’epopea della paranoia d’un orfanello, tutta la paura del bambino che di botto si ritrova tutto solo in un bosco, solo e accerchiato dai predatori, solo tra le belve feroci, solo lui e lo spavento –, e di là invece Orfeo, e tutta la poesia, tutto l’incantesimo, tutto lo stupore che lo eccita a creare cosmo, a comporre differenze e ad avvicinare distanze, abbandonandosi al «divenire-agnello» della sua voce moribonda.


E dunque: un corpo, ma due «generi» vocali: il rumore insensato, il grido selvaggio, l’urlo ululato, il terrore strillato o l’angoscia a stento soffiata, ma insieme anche il suono ritmato, la nota intonata, l’evocazione e il canto. Due «generi», in battere e in levare, tutt’e due destinati a essere smembrati, l’uno alla maniera selvaggia, l’altro secondo l’arte della divisione in sette parti (la scala musicale) – l’uno che vive di vita «divina» e che, essendo indistruttibile, risorge in tutte le frammentazioni sonore che non giungono a divenire parole, nei soffi e nei gridi animali, nella voce che dà voce alla rabbia e ai rancori, alle furie scatenate, agli asti e alle ostilità, alle repulsioni violente e agli scaccioni più o meno apotropaici (allora a bestemmiare è la voce del corpo che oppone i suoi vade retro agli intrusi, siano essi Titani o Streghe) –, l’altro invece che si estingue nella sua morte, ma non prima di aver artisticamente «composto» ogni senso, letterale, allegorico, simbolico e perfino anagogico, del suo canto con la più ingenua, la più stupefacente, delle «umane» insensatezze: la fede nel «divenire-cosmo» del caos stesso (allora a pregare è la voce più intima al corpo, la voce del suo linguaggio ancora ignaro di asti e di vendette, la voce del corpo che nell’esser smembrato fa la follia di affidarsi in testamento alla sola eco della sua Blake-Urizenimpotente innocenza).

Solo l’eco rimane d’un «ritmo» perduto, solo l’onda di un addio che non si dà pace, di un addio che ancora non si tace. È tutto ciò che resta del vissuto di un corpo «iniziato». Solo un vapore, solo un odore in cui però è racchiusa tutta la fede di Orfeo: forse tutto il cosmo di cui il Caos è capace, non è che il vago ritornello di uno stesso addio che va e viene dalla voce dei moribondi, come un incantesimo che li chiama a consegnarsi, a uno a uno, artisticamente all’Arte del silenzio.

Come? che dici? non lo vedi? Dioniso, il corpo nudo e crudo disgiunto dalla madre, il corpo senz’organi, il corpo pieno, il corpo vivo, ancora senza buchi, ancora senza tagli né cuciture – vengono amici e parenti a dargli il benvenuto, e portano doni, gingilli e giocattoli d’ogni sorta, portano oro incenso e mirra, ma Dioniso li guarda: cosa vogliono questi sconosciuti? mamma, dove sei? perché non li cacci via dal presepe?





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A quanto pare, a Creta il Racconto aveva finito per prendere questa piega «paranoica». Amici e parenti sorridono al bambino, ma dietro quel sorriso celano la lama d’un coltello. I Capri sono venuti a compiere sul corpo di Dioniso il misfatto che fu, a suo tempo, compiuto sul loro corpo: novelli Titani, sono venuti a sacrificare il capretto alle forze oscure della terra. Sono venuti a fare festa, a brindare e a ubriacarsi, come tra «cannibali» si conviene. Sono venuti a trascinare Dioniso nei rituali della loro «crudeltà». Ma il corpo pieno, il corpo senz’organi di Dioniso reagisce, si rivolta: andate via, bestie feroci! Dioniso non vuole essere «organizzato». I Titani però impietosi non gli danno ascolto e lo fanno a pezzi. E tuttavia Dioniso non muore. Dioniso vivrà – ma solo nella molteplicità delle ceneri, solo nel caos delle polveri, solo nei ritagli di suoni che non diverranno mai parole. Dioniso, il «paranoico», non lascerà di sé nessun racconto, e tanto meno un canto. Dioniso verrà, anzi, a smembrare e spazzare via ogni illusione, ogni credenza, ogni fede, ogni arte.

Al contrario, nella variante trace, il Racconto aveva imboccato un’altra strada: la strada dei miracoli, dello stupore e dell’ingenuità dell’agnello «immolato». Orfeo, l’«orfanello» (lo porta Leonardo-adorazione-Magiscritto nel nome), crede nei miraggi e negli incantesimi, nei prodigi e nelle magie, crede nei «doni» delle forze celesti, crede nella loro potenza di trasmutare in erotismo gioioso l’eco del dolore patito durante lo smembramento delle sue emozioni. Orfeo non scaccia dalla culla i Re Magi. Orfeo si lascia sedurre dai giocattoli che gli portano in dono. A Orfeo basta trovarne uno che gli garbi … perché, si raccontava una volta in Tracia, se non ci fosse la lira sedotta dalle sue proprie armonie, senza musica né canto, senza poesia, senza teatro – se non ci fosse questa passione orfica per il delirio fatto ad arte – noi nulla sapremmo della disgiunzione dolorosa che il nostro corpo «animale» patì per passare, o per rifiutarsi di passare, la frontiera che dà sull’esistenza «umana».

È infatti sempre l’Artista che narra del Selvaggio, e mai viceversa. L’Artista narra la leggenda del Selvaggio mandante delle sue invasate assassine, delle non-madri, delle anti-madri, che uccidono i loro propri figli (vedi Agave e Penteo). L’Artista narra il bambino che fu, nel suo corpo, selvaggiamente fatto a pezzi dai Titani. Narra di noi tutti, per ricordarci che siamo fatti di materia titanica, e che siamo noi a smembrare i corpi di tutti i bambini che vengono al mondo. Che siamo noi che fummo in illo tempore accerchiati, noi a nostra volta a circondare la culla dei neonati. E a portare ad essi in dono le nostre paure e i nostri desideri, le nostre sconfitte e le nostre rivincite illusorie.





fonte https://lartedeipazzi.blog/2020/12/27/kere...ica-di-dioniso/

 
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