| La fortuna critica
La fortuna critica di Annibale Carracci fu ampia presso i suoi contemporanei, a partire dal giudizio di Giovanni Pietro Bellori che, nella sua prolusione all'Accademia di San Luca, raccolta nello scritto «L'idea del pittore, dello scultore, e dell'architetto»[74] (1664), indicò in Annibale il miglior interprete dell'ideale di bellezza che è compito degli artisti perseguire. Bellezza che, nella visione del Bellori (che rimanda a concetti molto più risalenti e mostra un debito nei confronti delle teorie di Giovanni Battista Agucchi), deve sì partire dalla natura, ma deve elevarsi ad essa, non potendo l'artista, secondo questa impostazione, limitarsi alla sola riproduzione del reale quale esso appare agli occhi[75].
Per il Bellori, per l'appunto, l'opera del più giovane dei Carracci, e in particolare la sua produzione romana, è l'esempio da seguire per raggiungere questo obiettivo.
Elevato, così, a campione del bello ideale, il Carracci divenne il Nuovo Raffaello, cioè l'acme della pittura del suo tempo. Di pari passo, la sua opera - e in particolare gli affreschi della Galleria Farnese[76] - assurse a testo imprescindibile nella formazione del gusto pittorico barocco[75].
Questo giudizio entrò in profonda crisi alla fine del Settecento e quasi per tutto l'Ottocento. In questo torno di tempo, Annibale Carracci divenne il caposcuola di quello che fu definito, a partire dal Winckelmann, eclettismo, concetto che assumerà sempre più valenza negativa. In sostanza, questo punto di vista degradò l'opera del Carracci alla sola fusione di stili diversi, negandogli vera capacità creativa[75].
Nel Novecento si assiste ad un lento e parziale recupero del valore di Annibale Carracci. Aprì questa rivalutazione Hans Tietze, storico di formazione viennese, che nel 1906 dedicò un saggio[77] alla decorazione della Galleria Farnese, interrompendo così un lunghissimo silenzio critico sull'opera del maestro bolognese. Tappa ancor più significativa fu la pubblicazione da parte di Denis Mahon dei suoi Studies in Seicento Art and Theory (1947)[75]. Carlo Maratta, Apoteosi di Anniballe Carracci, risollevatore della Pittura, Dipartimento di Arti grafiche del Louvre
Se questi studi ebbero il merito di riaccendere l'attenzione sull'arte del Carracci (ormai quasi dimenticata), essi, tuttavia, ne fornirono una visione in una certa misura deformante. Infatti, ponendosi in linea di continuità con l'antica visione belloriana, questo primo processo di rivalutazione individuò nell'Annibale Carracci "romano" il capofila della corrente classicista della pittura barocca italiana, antitetica alla corrente verista, il cui fondatore è Caravaggio. In tal modo, però, si obliterava la forte tensione al vivo da cui, a Bologna, anche Annibale era partito e che egli perseguì con decisione, specie negli anni antecedenti al suo trasferimento a Roma[75].
Si creò, così, una visione dicotomica della parabola artistica di Annibale Carracci, che scisse in termini piuttosto netti il periodo romano e classicista, contrassegnato dall'assimilazione di Michelangelo, di Raffaello e dell'antico, dagli anni bolognesi – tanto influenzati dalla pittura padana e veneziana e animati da una forte tensione verista – che vennero sostanzialmente minimizzati come esperienze giovanili, superate, poi, dall'artista una volta giunto a Roma[75].
La mostra sui Carracci, tenutasi a Bologna nel 1956 presso il palazzo dell'Archiginnasio, favorì un primo recupero critico anche dell'attività pre-romana di Annibale, ma rimase fermo il topos storiografico che vedeva nella sua vicenda creativa una drastica soluzione di continuità – da verista “lombardo” a classicista raffaellesco – conseguente al suo approdo sulle sponde del Tevere[75]. Anche la fondamentale monografia di Donald Posner (1971), benché testo per molti versi ancora imprescindibile per lo studio di Annibale Carracci, avallò (e consolidò) questa concezione[78].
Solo in tempi relativamente vicini, anche riprendendo un'intuizione di Roberto Longhi formulata già nel 1934[79], si è andata delineando una valutazione critica più matura dell'opera del più giovane dei Carracci. Giudizio che coglie la sua grandezza nell'aver Annibale saputo inventare uno stile propriamente italiano, armonizzando le tante strade indicate dalle scuole locali che lo hanno preceduto e riuscendo, al tempo stesso, ad evitare che questo programma artistico si risolvesse in una sterile riproposizione del passato[80]. Anzi, aprendo le porte ad una nuova era della storia dell'arte: il barocco.
In questa chiave, benché il lungo, definitivo, soggiorno a Roma ne abbia naturalmente influenzato e arricchito lo stile, minor credito ha l'idea di una drastica cesura tra Bologna e Roma, anche perché, come gli studi più recenti stanno acquisendo, il trasferimento nella città dei papi non significò affatto l'abbandono, da parte di Annibale, dei suoi modelli settentrionali, né, almeno in parte, della sua ricerca realista.
In questa stessa chiave, anche il luogo comune di un Annibale Carracci in tutto antitetico all'altro gigante della pittura italiana del primo Seicento, Michelangelo Merisi, inizia ad essere oggetto di rivisitazione critica, cogliendosi tra i due maestri – pur tra le evidenti e profonde differenze di stili, di interessi artistici e di traiettorie umane e creative – anche punti di contatto e reciproche influenze, percepibli soprattutto durante l'iniziale soggiorno romano di entrambi che fu quasi contemporaneo[81]. Anni durante i quali, a Roma, opere come gli affreschi della Galleria Farnese o il Ciclo di san Matteo della Cappella Contarelli segneranno per i secoli a venire la pittura d'Italia e d'Europa. Opere Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Opere di Annibale Carracci.
Il catalogo delle opere di Annibale Carracci fu modernamente sistematizzato essenzialmente da Donald Posner nel suo fondamentale studio Annibale Carracci: A Study in the reform of Italian Painting around 1590 (Londra, 1971).
La fonte di gran lunga prevalente seguita dal Posner a tal fine sono state le Vite del Bellori. Il progredire degli studi, tuttavia, sta dimostrando che altre fonti, sinora, forse, sottovalutate (tra le quali in particolare la Felsina Pittrice del Malvasia, ma anche molti inventari secenteschi) hanno consentito di rintracciare quadri di Annibale mai menzionati dal biografo romano. Il catalogo delle opere di Annibale Carracci, quindi, verosimilmente non può dirsi ancora definitivo, non potendosi affatto escludere, con il miglioramento dello sfruttamento di fonti sinora sottoutilizzate, possibili nuove aggiunte[82]. Attribuzioni incerte Annibale Carracci o Domenichino?, Susanna e i Vecchioni, 1600-1605, Roma, Galleria Doria Pamphilj
A causa della lunga collaborazione con il cugino e con il fratello e del frequente ricorso al contributo degli allievi, specie nei suoi ultimi anni romani, vi sono alcune opere la cui attribuzione ad Annibale divide la critica.
Di alcuni dipinti si discute se si tratti dell'originale di Annibale ovvero della copia di un allievo, mentre in altri casi l'incertezza è tra Annibale o suo cugino Ludovico.
Tra i primi si può menzionare la Susanna e i Vecchioni della Galleria Doria Pamphilj, prevalentemente ritenuta una copia del Domenichino, ma da alcuni studiosi attribuita ad Annibale, o una Adorazione dei Pastori (National Gallery of Scotland), egualmente incerta tra l'autografia di Annibale o la copia dello Zampieri[83].
Al secondo gruppo appartiene la notevole Flagellazione di Cristo[84] del Musée de la Chartreuse di Douai che alcuni studiosi hanno ritenuto opera di Annibale Carracci, ma per la quale ora prevale l'idea della paternità del più anziano cugino[85], oppure la Flora della Galleria Estense.
Problemi simili si registrano anche tra Annibale ed Agostino. Un esempio è la Diana e Atteone di Bruxelles, la cui attribuzione all'uno o all'altro dei fratelli è oggetto di pareri diversi[86].
fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Annibale_Car...rte_di_Annibale
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