| La necessità come "bene"
L'esistenzialismo si configura quindi come una dottrina soggettivista e, fino a un certo punto, relativista, anche Sartre sceglierà poi razionalmente di impegnare la propria soggettività nella prospettiva marxista e nel materialismo storico, dove è la necessità a giustificare utilitaristicamente la scelta.[53] L'esistenzialismo marxista
Dopo la seconda guerra mondiale, insieme alla cospicua produzione di opere drammaturgiche di alto livello, l'attenzione di Sartre si rivolge all'azione politica, ma si può dire che in esse esistenzialismo e politica trovino la loro sintesi intellettuale. Con l'adesione al comunismo, Sartre si mette in gioco a favore di questo e dà inizio a un suo ruolo di engagé che farà da modello a molti intellettuali di sinistra tra gli anni '50 e '80. Il resto della sua vita è segnato dal tentativo di riconciliare le idee esistenzialistiche con i principi del marxismo, convinto che le forze socio-economiche determinino il corso dell'esistenza umana e che il riscatto economico per la classe operaia possa diventare anche culturale.[3] Come Elio Vittorini, da cui sarà intervistato per Il Politecnico, Sartre auspica una cultura che non si limiti a consolare dal dolore ma che lo elimini e lo combatta, una cultura «capace di lottare contro la fame e le sofferenze».[54]
È in questa prospettiva che nasce il progetto della Critica della ragion dialettica (che uscirà nel 1960), la sua adesione al marxismo a partire da I comunisti e la pace (1951) e contemporaneamente la rottura con altri intellettuali. La Critica, però, non è per niente allineata alla dottrina comunista sovietica, ma propone una visione della società che lascia all'individualità larghi spazi di libertà e di affermazione, anche se in una prospettiva che coesiste anche con il determinismo. Nel perseguimento della "unità dialettica del soggettivo e dell'oggettivo" la soggettività è infatti dipendente dall'oggettività socio-ambientale come suo "campo delle possibilità".[3]
La libertà condizionata dell'uomo è in rapporto a un ampio sottofondo di necessità. Gli assunti fondamentali di L'essere e il nulla sono perciò nella Critica della ragion dialettica ridimensionati e superati con l'assunzione teorica del materialismo storico marxiano. È infatti il regno del "pratico-inerte" (l'essenza della materia) a imporsi, a dominare, a determinare la necessità e ad imporla anche all'uomo. Sartre viene quindi a scrivere:
«Non è né nell'attività dell'organismo isolato e né nella successione dei fatti fisico-chimici che la necessità si manifesta: il regno della necessità è il dominio, reale, ma ancora astratto dalla storia, dove la materialità inorganica si chiude sulla molteplicità degli uomini e trasforma i produttori nei loro prodotti. La necessità, come limite nel seno della libertà, come evidenza accecante e come momento del rovesciamento della praxis in attività pratico-inerte diventa, dopo la caduta dell'uomo nella società seriale, la struttura stessa di tutti i processi di serialità, quindi la modalità della loro assenza nella presenza e di un'evidenza svuotata.[55]»
Sartre accetta il pensiero di Marx, di cui predilige il pensiero giovanile, presente in particolare nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, e nelle Tesi su Feuerbach (1845). In quest'ultimo breve scritto compare la "filosofia della prassi", molto apprezzata da Sartre. Il filosofo francese però non accetta gran parte del materialismo dialettico di Engels. In proposito Sartre afferma: "il modo di produzione della vita materiale domina in generale lo sviluppo della vita sociale, politica e intellettuale". Aggiunge anche che "questa dialettica può effettivamente esistere, ma bisogna riconoscere che non ne abbiamo la benché minima prova"; dal determinismo deriva la dottrina della dialettica di Engels, che è, secondo Sartre, definita dai marxisti classici "come un dogma" acritico, per cui il marxismo della sua epoca "non sa più di nulla: i suoi concetti sono diktat; il suo fine non è più di acquistare cognizioni, ma di costituirsi a priori come sapere assoluto", ha disciolto gli uomini "in un bagno di acido solforico", mentre l'esistenzialismo ha potuto invece "rinascere e mantenersi perché affermava la realtà degli uomini".[56]
Sartre afferma poi che periodi rivoluzionari si dividono in tre fasi: 1) la genesi del «gruppo in fusione»; 2) il predominio della «Fraternità-Terrore», che sfocia nell'«istituzionalizzazione del capo»; 3) la ri-formazione delle istituzioni statuali. Prima di «unirsi in interiorità» nel gruppo in fusione, gli individui sono «uniti in esteriorità», dispersi, frammentati, atomizzati, estraniati nei «collettivi seriali», e tali tornano ad essere nella terza fase, la restaurazione politica post-rivoluzionaria. Rispetto alla Rivoluzione francese, modello fondamentale di ogni rivoluzione, le tre fasi sono: la presa della Bastiglia, il Terrore di Robespierre, il Termidoro. A giudizio del filosofo, la storia umana varia continuamente dalla “serie” al “gruppo” e dal “gruppo” alla “serie”.[57] Sartre e il comunismo
«In caso di invasione sovietica della Francia non mi sarei potuto aspettare, nel caso migliore, altro che una deportazione; in quell'epoca venivo definito come un essere spregevole dai giornali legati all'URSS.» (Sartre sul rapporto con la politica sovietica[58])
Il rapporto di Sartre con la politica in senso stretto, con il comunismo e i partiti comunisti fu simile a quello di molti altri intellettuali dell'epoca della guerra fredda, oscillante fra adesione e allontanamento, spesso per i problemi derivanti delle scelte dittatoriali dei regimi comunisti legati all'Unione sovietica. Spesso cercarono alternative anticapitaliste e terzomondiste, rimanendo delusi da nuove esperienze extrasovietiche come il maoismo e il castrismo, e infine rifugiandosi nella socialdemocrazia o nel libertarismo (nel caso di Sartre l'anarco-comunismo) onde conciliare il proprio impegno umanista con l'opposizione al capitalismo e alle destre. Spesso questi intellettuali tentavano una riforma del comunismo dall'interno, sostenendo anche la dissidenza "moderata" dei paesi comunisti.[59]
A partire dal 1952, Sartre si impegnò in un "matrimonio di ragione" con i sovietici: in particolare, partecipa al Congresso nazionale della pace a Vienna nel novembre 1952, organizzato dall'URSS, e la sua presenza conferisce all'avvenimento una considerazione insperata. Sartre arriva fino ad autocensurarsi facendovi impedire la ripresa della sua pièce Le mani sporche, che i comunisti consideravano antibolscevica, in quanto alludeva all'assassinio di Lev Trockij, e che era previsto andasse in scena in quel periodo a Vienna.[3] Sartre resterà iscritto al PCF per 4 anni. Questo allineamento di Sartre ai comunisti separa lo stesso Sartre e Albert Camus (che abbraccia l'anarchismo al posto del marxismo), precedentemente molto vicini. Per Camus l'ideologia marxista non deve prevalere sui crimini staliniani, laddove per Sartre non si devono utilizzare questi fatti come pretesto per abbandonare l'impegno rivoluzionario. Già nel 1950 infatti Sartre e Merleau-Ponty denunciano pubblicamente il sistema dei gulag.[60]
Nel 1954, al ritorno da un viaggio in URSS, Sartre diede invece al quotidiano di sinistra Libération una serie di sei articoli che illustravano la gloria dell'URSS. Ancora nel 1955 scrisse una pièce teatrale (il Nekrassov) che fustigava la stampa anticomunista.[3] Dopo il rapporto Kruscev, Sartre comincerà ad avere dei dubbi sull'URSS, e affermò di trovare "inammissibile l'esistenza dei campi di concentramento sovietici, ma trovo altrettanto inammissibile l'uso giornaliero che ne fa la stampa borghese... Kruscev ha denunciato Stalin senza fornire sufficienti spiegazioni, senza avvalersi di un'analisi storica, senza prudenza", rifiutando di condannare in toto l'esperienza sovietica, perché considerata una fase di passaggio che aveva, perlomeno, un obiettivo ideale ancora da raggiungere. In un articolo sulla tortura nella guerra d'Algeria, commentando il saggio di Henri Alleg, esprimerà però la sua netta condanna delle pratiche staliniane più deteriori, come i gulag, la persecuzione dei dissidenti e la censura, eredità scomode dello zarismo.[22]
Sartre rifletté sul dissidio avuto con Merleau-Ponty sull'URSS:
«L'esistenza dei campi, egli diceva, permetteva di misurare tutta l'illusione dei comunisti di oggi. Ma subito dopo aggiungeva: “È questa illusione che ci impedisce di confondere il comunismo e il fascismo. Se i nostri comunisti accettano i campi e l'oppressione è perché essi sono in attesa di una società senza classi... Mai nazista si è ingombrato la testa di idee quali riconoscimento dell'uomo da parte dell'uomo, internazionalismo, società senza classi. È vero che le idee trovano nel comunismo di oggi soltanto un portatore infedele... resta il fatto che ci rimangono”. (...) Non bisogna avere indulgenza nei confronti del comunismo, ma non si può in nessun caso venire a patti con i suoi avversari. La sola critica sana è quindi quella che prende di mira, nell'URSS e fuori dell'URSS, lo sfruttamento e l'oppressione”.[61]» Sartre nel 1965
e sostenendo poi che vi era una differenza capitale tra i crimini sovietici e i crimini borghesi, anche se i primi parevano odiosi in un regime nato per evitare i secondi, i crimini sovietici erano colpe del momento storico, mentre i crimini borghesi si sarebbero perpetuati per sempre nel sistema capitalista, per cui i campi «“Sono le loro colonie”. Al che Merleau risponde: “Quindi le nostre colonie, mutatis mutandis, sono i nostri campi di lavoro”».[61]
Nel saggio breve Il fantasma di Stalin. Dal rapporto Kruscev alla tragedia ungherese, che comunque segna l'inizio del distacco dai comunisti francesi, aggiunge che lo stalinismo non aveva troppo deviato dal socialismo e che
«Per conservare la speranza, (...) occorre riconoscere, attraverso gli errori, le mostruosità e i crimini, gli evidenti privilegi del campo socialista e condannare, con tanta maggior energia, la politica che mette in pericolo questi privilegi.» (Il fantasma di Stalin, in Il filosofo e la politica, Roma, 1964, pp. 65, 94, 98)
In futuro si allontanerà ancora di più dal socialismo reale e rinnegherà come tanti queste posizioni, spinto dagli avvenimenti contingenti. Il suo sodalizio con il PCF e il sostegno attivo all'URSS già erano terminati all'indomani degli avvenimenti dell'autunno del 1956, quando i carri sovietici soffocarono la rivoluzione ungherese. L'insurrezione fece riflettere molti comunisti sul fatto che esisteva un proletariato al di fuori dal partito comunista con istanze non solo non rappresentate o misconosciute, ma addirittura negate e avversate. Sartre, dopo aver firmato una petizione di intellettuali di sinistra e di comunisti contestatari, il 9 novembre concesse una lunga intervista al settimanale l'Express (giornale mendésista), per smarcarsi platealmente dal partito. Nel 1956 Sartre decise un cambiamento di strategia ma non cambiò le sue opinioni: socialiste, anti-borghesi, anti-americane, anti-capitaliste, e soprattutto anti-imperialiste; la lotta dell'intellettuale impegnato continuò e prese una nuova forma in seguito agli avvenimenti della guerra d'Algeria.[3]
Nel 1968 attaccò Brežnev e supportò la primavera di Praga di Alexander Dubček, stroncata nuovamente dai sovietici. Nel 1977 Sartre presenzia a un raduno di dissidenti sovietici a Parigi.[62]
Riguardo al progresso egli disse che:
«Potrebbe esserci una dittatura mondiale, oggi, ma nessuno storico, o quasi nessuno, affermerebbe oggi che la dittatura sia meglio della democrazia borghese, proprio come quasi nessuno prima affermava che un legislatore divino fosse meglio della monarchia parlamentare. Ogni tappa può essere superata temporaneamente e il mondo può anche regredire temporaneamente, ma una volta fondata nell'ethos umano, la nozione di progresso si propaga tra la gente di tutto il mondo.» (Citato in Parlando con Sartre di John Gerassi, p. 207)
Negli anni '50, nella Parigi degli ambienti terzomondisti, Sartre conobbe anche un giovane cambogiano di nome Saloth Sar, con cui condivideva la militanza nel Partito Comunista Francese, che diverrà poi noto alle cronache molti anni dopo con il nome di battaglia di Pol Pot, capo dei guerriglieri Khmer rossi e feroce presidente della Kampuchea Democratica dal 1975 al 1979. Sartre con Simone de Beauvoir e Che Guevara, a Cuba nel 1960. Di Guevara, Sartre scriverà che "non era solo un intellettuale, era l'essere umano più completo del nostro tempo".[63] La coppia era presente durante la cerimonia in cui Alberto Korda scattò al "Che" la celebre immagine Guerrillero Heroico, e venne anch'essa fotografata.
Sartre fu accusato anche, da commentatori di area conservatrice e anticomunista, tra cui Paul Johnson, Francesco Alberoni e Vittorio Messori, di aver influenzato indirettamente l'ideologia dei suddetti Khmer Rossi, tramite l'ex allievo Pol Pot che la portò alle estreme conseguenze fondendola con un nazionalismo totalitario esasperato, con ripetute violazioni dei diritti umani come già si erano viste con Stalin e la degenerazione del comunismo sovietico, sebbene secondo la maggioranza dei commentatori l'azione del Partito Comunista di Kampuchea (finanziato e sostenuto anche dall'occidente in quanto anti-sovietico) non è ovviamente da imputare all'ideologia e alla filosofia sartriana.[64]
Egli comunque non seppe mai nulla della dittatura e del genocidio cambogiano (peraltro poco conosciuto in Occidente prima del 1980), essendo morto quando le scarse notizie cominciarono a filtrare; fu criticato per non aver condannato pubblicamente, nel suo ultimo anno di vita (in cui si era comunque ritirato dalla vita pubblica per seri problemi di salute), Pol Pot e gli altri Khmer Rossi, cosa tra l'altro condivisa dalla maggior parte dei mass media e degli intellettuali occidentali di sinistra (tra cui Noam Chomsky), essendo l'opinione pubblica concentrata sul Vietnam e all'oscuro, tranne pochi testimoni, della realtà cambogiana vista invece benevolmente. (Solo negli anni '80 il regime di Pol Pot verrà pienamente compreso nel suo orrore e condannato universalmente.[65]) Per aver guardato con simpatia all'Unione Sovietica di Stalin (almeno prima della destalinizzazione e della denuncia dei crimini del leader bolscevico da parte di Nikita Krusciov), alla rivoluzione di Mao Zedong - per un lungo periodo Sartre sosterrà il maoismo, nella speranza che potesse essere un comunismo non burocratico e popolare, speranza che andrà delusa - e per l'amicizia, poi interrotta, con Fidel Castro, Sartre venne accusato di supportare le dittature, in ossequio all'ideologia.[64] Sono questi i tempi della sua militanza tra i giovani della Gauche prolétarienne.
Sostenitore attivo della rivoluzione cubana dal 1960, amico di Che Guevara e Fidel Castro, egli ruppe poi con il Líder Máximo nel 1971 a causa del cosiddetto affaire Padilla; Sartre firmò con de Beauvoir, Alberto Moravia, Mario Vargas Llosa, Federico Fellini e altri intellettuali (con l'eccezione di Gabriel García Márquez) una lettera di critica al governo cubano, per aver arrestato e poi costretto ad una pubblica autocritica il poeta Heberto Padilla, accusato di avere scritto contro la Rivoluzione e il castrismo. Per Sartre questo atto fu un abuso di potere e un attacco alla libertà d'espressione, non una difesa dai controrivoluzionari.[66] Egli dirà poi di Fidel Castro: "Il m'a plu, c'est assez rare, il m'a beaucoup plu" ('Mi è piaciuto, il che è piuttosto raro, mi è piaciuto molto').[3] Discussa è l'influenza reciproca tra la dottrina politica di Guevara e quella marxista-esistenzialista di Sartre e dei sartriani, anche se di certo entrambi ponevano l'accento sulla questione umanistica (per Marx facente parte della sovrastruttura, quindi "superflua", oppure derivata dalla struttura, ma secondaria) più che su quella economica.[67][68]
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