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Gilgameš prese l’ascia al suo fianco, sfoderò la spada dalla guaina, s’inoltrò nel bosco e scese incontro alle stele; come una freccia si buttò tra le stele. Ci fu un boato. Uršanabi lo vide, prese un’ascia e l’affrontò: colpì la testa di Gilgameš e gli mise i piedi sul petto. Infuriato, Gilgameš colpì le stele di pietra e le distrusse, senza le quali non si possono attraversare le acque della morte. Uršanabi lo guardò negli occhi e gli parlò: «Dimmi il tuo nome. Io sono Uršanabi, il barcaiolo di Utnapištim il lontano. Perché le tue guance sono così emaciate e la faccia stanca? Perché il tuo cuore è confuso e lo sguardo assente? Quale angoscia regna nel profondo del tuo essere?».
A lui Gilgameš così parlò, a Uršanabi così rispose: «Gilgameš è il mio nome. Vengo da Uruk. Se le mie guance sono emaciate e la mia faccia stanca, se il mio cuore è confuso e il mio sguardo assente, se l’angoscia regna nel profondo del mio essere, è perché Enkidu, l’amico mio, la pantera della steppa, che amo sopra ogni cosa e che con me ha condiviso ogni sorta di avventure, ha seguito il destino dell’umanità. Per sei giorni e sei notti ho pianto su di lui, finché un verme non gli è uscito dalle narici. Ho avuto paura della morte. La sua sorte pesa su di me: l’amico mio è diventato argilla, ed io non sono come lui? Non dovrò giacere anch’io e non alzarmi mai più? Ora che ho visto la tua faccia, dimmi: qual è la via per giungere da Utnapištim, indicami la direzione, qualunque essa sia. Dovessi passare il mare, lo farò».
segue
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