IL FARO DEI SOGNI

Krishna

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Krishna ottavo avatara di Visnù, o aspetto originario di Dio stesso, è qui raffigurato come Krishna Veṇugopāla, ovvero Krishna suonatore di flauto (veṇu) e pastore delle mucche (gopāla).[1] Ha una corona regale (kirīṭa mukuṭa) con penne di pavone (mayūrapattra) che simboleggiano l'immortalità, richiamata anche dal pavone in basso a destra della figura. Il pavone simboleggia l'immortalità in quanto il suo progenitore nacque da una piuma di Garuḍa. La ghirlanda di Krishna è una ghirlanda di fiori (tulasī) ed è composta da cinque filari di fiori che rappresentano i cinque sensi dell'uomo. La sua postura è la ardhasamasthānaka pādasvastika, la postura a gambe incrociate con il piede destro che tocca con le punte delle dita il terreno mostrando leggerezza e calma e appoggiandosi alla mucca posta dietro di lui. Alla sinistra di Krishna, la sua eterna paredra, l'innamorata Rādhā, che simboleggia l'anima individuale eternamente legata al Dio. Dietro Krishna, l'immagine di una mucca, Surabhī, che vive nel paradiso di Krishna, Goloka.

Krishna_Janmashtami

La mucca è dispensatrice di beni e per questo è sacra e non può essere uccisa. Sono le mucche che dopo la morte degli uomini consentono loro di attraversare un fiume sotterraneo (il Vaitaraṇī) pieno di coccodrilli per giungere all'altra riva dove disporranno di un nuovo corpo per la successiva reincarnazione. Krishna è vestito di giallo (pitāṁbara) colore della divinità solare che illumina il cosmo; la sua pelle è invece blu, o nera, sia per indicarne la pervasività nello spazio, sia per segnalarlo come manifestazione dell'Essere supremo nell'attuale èra del kali (kaliyuga), essendo le altre tre precedenti ère contrassegnate da manifestazioni della divinità rispettivamente bianca, rossa e gialla (questi colori delle manifestazioni delle divinità delle differenti ère corrispondono ai quattro colori dei varṇa).



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Krishna[2] (devanagari: कृष्ण, Kṛṣṇa) è, nella tradizione religiosa induista, il nome di un avatara del dio Visnù e tale è considerato dalla corrente religiosa indicata come visnuismo che considera Visnù, Dio, l'Essere supremo.

Nella corrente religiosa induista che va sotto il nome di krishnaismo[3] egli è tuttavia considerato Dio, l'Essere supremo stesso e non semplicemente una sua manifestazione o un suo avatara per quanto completo[4] (pūrṇāvatāra).

Così il Bhāgavata Purāṇa (testo kṛṣṇaita del IX secolo d.C.):
(SA)

«kṛṣṇas tu bhāgavan svayam»
(IT)

«Kṛṣṇa è l'Essere supremo stesso»
(Bhāgavata Purāṇa I,3,28)

Origine e sviluppo del culto di Krishna

Krishna è una divinità che non compare nelle quattro Saṃithā dei Veda. Per quanto vi siano dei richiami alla sua figura nella Chāndogya Upaniṣad (III,17,6; testo presumibilmente dell'VIII secolo a.C.), Krishna come divinità viene presentata in modo completo solo nel poema "visnuita" del Mahābhārata (testo composto tra il V secolo a.C. e il V secolo d.C.) e, nella Bhagavadgītā (VI parvan del Mahābhārata ad esso aggiunto nel III secolo a.C.), la sua figura diviene centrale.

Gli studiosi ritengono tuttavia che Krishna e Visnù in origine fossero due divinità distinte[5], fondendosi completamente nel V secolo d.C. quando, a partire dal Viṣṇu Purāṇa (testo visnuita del V secolo d.C.), Krishna è indicato come un avatara di Visnù.

Gli stretti collegamenti tra le due divinità sono tuttavia precedenti: una colonna del I secolo a.C. rinvenuta a Goṣuṇḍi associa Krishna a Nārāyaṇa (divinità già precedentemente associata a Visnù) mentre immagini relative al periodo dell'Impero Kushan (I secolo d.C.) rappresentano Krishna con le stesse armi di Visnà. Tale Krishna è, per gli studiosi[6], comunque il Krishna del Mahābhārata indicato come 'Krishna Vāsudeva', il capo dei vṛṣni di Mathura che uccide il malvagio Kaṃsa, perde la battaglia contro il re maghada Jarāsaṃda, giunge a Dvārakā (oggi Dwarka di fronte al Mar Arabico) e diviene consigliere dei Pāṇḍava contro i Kaurava nella battaglia di Kurukṣetra: accenni a tale epica oltre che nel Mahābhārata li si riscontrano anche nel Mahābhāṣya di Patañjali e nel buddhista Gatha Jātaka.



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Al 'Krishna Vāsudeva', ovvero al Krishna del clan degli yādava che ha già incorporato un altro differente culto, quello di Vāsudeva proprio del clan dei vṛṣni dando vita al ciclo del Mahābhārata, si aggiunge, successivamente, un ulteriore Krishna, il 'Krishna Gopāla' considerato dagli studiosi inizialmente differenziato dal primo[7].

Così Gavin Flood:

«Intorno al IV secolo d.C., la tradizione dei Bhāgavata- ossia la tradizione di Vāsudeva-Kṛṣṇa del Mahābhārata - assorbe un'altra tradizione, il culto di Kṛṣṇa fanciullo a Vṛndāvana - ovvero il culto di Kṛṣṇa Gopāla, il custode del bestiame.»
(Gavin Flood. L'induismo. Torino, Einuaidi, 2006, pag.162)

Secondo la tradizione Krishna, pur essendo di lignaggio del clan dei vṛṣn] di Mathura, fu adottato da una famiglia di pastori di etnia ābhīra che lo crebbe fino alla maturità quando il dio/eroe torna a Mathura per sconfiggere il malvagio Kaṃsa.

John Stratton Hawley[8] spiega questa narrazione con il fatto che gli ābhīra, una etnia nomade che estendeva il suo raggio di azione dal Panjab fino al Deccan e alla pianura del Gange adoravano un 'Krishna Gopāla'. Quando gli ābhīra allargarono il loro confini giungendo nei pressi di Mathura (area del Braj) incontrando il clan dei vṛṣni il loro culto venne ad integrarsi con quello del 'Krishna Vāsudeva'.

Riassumendo, originariamente Krishna è un eroe divinizzato del clan degli yādava ed è probabile, secondo Ramchandra Narayan Dandekar[9] che il Devakīputra Krishna a cui fa riferimento la Chāndogya Upaniṣad nel celebre XVII khaṇḍa contenuto nel III prapāṭaka:
(SA)

«sa yad aśiśiṣati yat pipāsati yan na ramate tā asya dīkṣāḥ atha yad aśnāti yat pibati yad ramate tad upasadair eti atha yad dhasati yaj jakṣati yan maithunaṃ carati stutaśastrair eva tad eti atha yat tapo dānam ārjavam ahiṃsā satyavacanam iti tā asya dakṣiṇāḥ tasmād āhuḥ soṣyaty asoṣṭeti punar utpādanam evāsya tat maraṇam evāvabhṛthaḥ tad dhaitad ghora āṅgirasaḥ kṛṣṇāya devakīputrāyoktvovāca apipāsa eva sa babhūva so 'ntavelāyām etat trayaṃ pratipadyetākṣitam asy acyutam asi prāṇasaṃśitam asīti tatraite dve ṛcau bhavataḥ ādit pratnasya retasaḥ ud vayaṃ tamasaspari jyotiḥ paśyanta uttaram svaḥ paśyanta uttaram devaṃ devatrā sūryam aganma jyotir uttamam iti jyotir uttamam iti»
(IT)

«Avere fame, sete, rinunciare ai piaceri sessuali corrispondono all'uomo alla consacrazione sacrificale. Il cibo, il bere, il darsi ai piaceri corrispondono in lui agli upasada[10]. Ridere, mangiare, godere dei piaceri sessuali corrisponde in lui ai canti e alle recitazioni. L'ascesi, le elemosine, la rettitudine, la non-violenza, l'essere veritiero corrispondono in lui ai doni dati [ai sacerdoti]. Per questo [durante le cerimonie sacrificali] si afferma: Ṣosyato asoṣṭa[11] significando con questo la sua nuova nascita. L'abluzione finale (avabhṛtha, la conclusione del sacrificio) corrisponde alla sua morte. Quando Ghora Āṅgirasa ebbe insegnato ciò a Kṛṣṇa figlio di Devakī, disse: "Diviene libero dalla sete [del desiderio] [colui] che mentre muore si rifugia in questi tre detti: 'Tu sei l'eterno, l'eternamente stabile, sei l'essenza della vita'". Vi sono a questo riguardo due inni: "Poi videro la luce albeggiante dell'antico seme che arde al di là dei cieli"[12], "Dopo la notte vedendo la luce superiore, Sūrya (il Sole), quella luce è il Dio (deva) tra gli dei e a lui siamo andati, alla luce suprema, alla luce suprema"[13]»
(Chāndogya Upaniṣad III,17,1-7)



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Non sia altri che il Krishna degli yādava, un clan ario che fu a stretto contatto con il clan dei vṛṣni di Mathura aventi come culto quello di un altro eroe divinizzato, Vāsudeva. Infatti alcuni contenuti del passaggio della Chāndogya Upaniṣad, Krishna figlio di Devakī e discepolo di Ghora Āṅgirasa che gli insegna che la vita umana è essa stessa un sacrificio, riverbereranno nello stesso Mahābhārata.

Questi eroi divinizzati di estrazione guerriera trovano la loro trasformazione in ortodossia brahmanica e vedica con l'incontro con il dio vedico e brahmanico Visnù proprio nel Mahābhārata e nella Bhagavadgītā dove Krishna è sinonimo di Visnù in ben tre passaggi: X,21; XI,24; XI,30.

Sempre secondo Ramchandra Narayan Dandekar[8] la fusione tra la divinità guerriera e quella brahmanica si rese necessaria nel contesto della critica che religioni "eterodosse" come quella buddhista e giainista, all'epoca in forte ascesa, andavano promuovendo nei confronti del Brahmanesimo il quale cercava, di converso, nuove risposte teologiche e cultuali alla propria crisi.

Il Krishna-Vāsudeva-Viṣṇu dei clan uniti degli yādava e dei vṛṣni si fuse con una divinità pastorale propria degli ābhīra dando vita al Krishna-Vāsudeva-Gopāla-Viṣṇu oggetto delle riflessioni teologiche dei successivi testi detti Purāṇa e delle scuole esegetiche visnuite e krishnaite che porranno viepiù al centro del culto religioso questa figura divina intesa come il Bhagavat, Dio, la Persona suprema.

«L'aspetto di Kṛṣṇa come amante divino diventa prevalente in Orissa e Karnataka nel XII e nel XIII secolo, e si diffonde poi in tutto il subcontinente. In questa immagine, Kṛṣṇa è raffigurato con il collo inclinato, la vita piegata e le caviglie incrociate mentre suona il suo flauto irresistibile per richiamare le gopī (simbolicamente, le anime degli uomini) dalle loro preoccupazioni mondane.»
(John Stratton Hawley, Enciclopedia delle religioni, Milano, Jaca Book, 1988 p.206-7)

Nel XVI secolo il teologo visnuita Rūpa Gosvāmi, nel suo Bhaktirasāmrṭasindhu, descrive due tipologie di amore verso Krishna, quindi verso Dio: la prima, indicata come vātsalya ("amore tenero"), è paragonabile all'amore dei genitori nei confronti dei propri figli piccoli; la seconda, detta mādhurya ("amore dolce"), è invece propria degli amanti.

Il secondo tipo di amore è proprio, ad esempio, del Gītagovinda opera di Jayadeva (XII secolo); mentre il primo lo si riscontra diffusamente nelle immagini di Krishna bambino e birichino che ruba il burro alle gopī, proprie invece della devozione dell'India odierna.

Sia come bimbo birichino che si vuole tutto per sé, sia come amante, Krishna, Dio, risulta comunque sempre irraggiungibile.



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Allo stesso modo, l'amore spirituale e adultero delle gopī, e tra queste segnatamente di Rādhā, verso Krishna, viene reso come la metafora dell'amore più elevato, perché solo l'amore tra gli amanti che nulla si devono l'un l'altro, a differenza di quello coniugale sicuro ma mediato per mezzo di un accordo, è inteso come il più puro[14].

«Bambino o adolescente, Kṛṣṇa è sempre un ladro, perché è un ladro del cuore. Persino Rādhā, la pastorella che la tradizione considera la sua favorita, patisce frequentemente e potentemente la sua assenza. Molta della poesia dedicata a Kṛṣṇa è un lamento (viraha). Le donne che parlano in queste poesie esprimono desideri inappagati del cuore umano, [...]»
(John Stratton Hawley, op. cit.)

«[...] le stravaganze del dio incarnano chiaramente l'idea induista che la vita stessa sia un prodotto del gioco divino (līlā). Abbandonarsi al gioco, ai giochi e alla consapevolezza che tutta la vita è un gioco significa esperire il mondo come è realmente.»
(John Stratton Hawley, op. cit.)

Krishna, Dio, conserva in questo ambito una sua assoluta particolarità. Essendo il Bhagavat, Dio, esso non è condizionato dai guṇa ed è libero dal karman. Krishna è quindi svātantrya, libero da qualsivoglia condizionamento o illusione, e in questa sua assoluta libertà egli può concedere la grazia (anugraha), la "liberazione", agli esseri incatenati dalle proprie scelte nel mondo materiale sofferente. Krishna salva quindi i suoi bhakta (devoti), non solo, ma anche chi non lo è. Riferendosi alla nozione di Dio presente nei Purāṇa, Francesco Sferra osserva:

«Nei Purāṇa troviamo numerosi e toccanti esempi di come la semplice recitazione del nome di Dio o un atto di devozione, anche involontario, può conferire la grazia. Anche un peccatore, un reietto, anche chi, agli occhi dell'ortodossia, non sarebbe degno di ricevere l'attenzione delle persone perbene, figuriamoci di Dio, può indurre il Signore a concedergli la grazia. E dunque possiamo descrivere la salvezza non solo come passaggio, ma anche come abbandono fiducioso (prāpatti) in Dio. E questo è il cuore della bhakti»
(Francesco Sferra in Hinduismo antico, vol. 1. Milano, Mondadori, 2010, p. XXXVII)
La vita di Krishna nella letteratura visnuita
La mitologia hindū inerente alla figura del dio Krishna, di volta in volta inteso o come avatara del dio Visnù o come manifestazione del Bhagavat stesso, origina da una composita letteratura che nel suo sviluppo abbraccia oltre un millennio. Partendo dal poema Mahābhārata (IV secolo a.C.-IV secolo d.C.), con particolare riguardo agli insegnamenti religiosi contenuti in quella parte di esso che va sotto il nome di Bhagavadgītā (III secolo a.C. -I secolo d.C.), fino alla sua appendice, lo Harivaṃśa (II-III secolo d.C.), in particolar modo nella sua parte detta Viṣṇu-parvan, continuando, poi, nei vari Purāṇa, con particolare attenzione al Viṣṇu Purāṇa (V secolo d.C.) e al Bhāgavata Purāṇa (IX secolo).



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Nascita, infanzia e gioventù
Krishna e Yaśodā (Raja Ravi Varma, 1848–1906).

Nel Viṣṇu-parvan dello Harivaṃśa, ambientato a Mathurā città situata lungo le rive del fiume Yamunā, viene narrata la nascita di Krishna, qui inteso come il Bhagavat, Dio, la Persona suprema, figlio di Vasudeva e di Devakī.

Lo scopo di questa sua nascita è distruggere Kaṃsa, l'usurpatore del trono dei vṛṣni. Ma Kaṃsa è a conoscenza della profezia del veggente Nārada che ha previsto la sua morte per mano di uno dei figli di Devakī. Questa la ragione per cui Kaṃsa ordina l'assassinio di ogni figlio di Devakī. Ma il settimo, Balarāma, viene miracolosamente trasferito nel grembo della seconda moglie di Vasudeva, Rohiṇī; mentre l'ottavo, Krishna, viene scambiato con il figlio di una coppia di pastori, Nanda e Yaśodā, del villaggio di Gokula, questo situato sulla sponda opposta del fiume Yamunā.

In seguito, saputa la notizia della presenza del figlio di Devakī nascosto nel villaggio di Gokula, il sovrano Kaṃsa, per ucciderlo, invia una demonessa di nome Pūtanā, che assunte le sembianze di un'affascinante nutrice visita le giovani madri del posto, chiedendo loro di poter tenere in braccio i piccoli e allattarli al proprio seno. In realtà, essendo il latte avvelenato, tutti i neonati muoiono. Pūtanā giunge quindi nella casa di Nanda e Yaśodā e preso in grembo il piccolo Krishna lo inizia ad allattare, ma il dio è immune al veleno, e comincia a succhiare tanto avidamente dal seno della donna da provocarne la morte. Una volta morta, Pūtanā riprende le sue vere sembianze di demonessa, svelando così il complotto dell'usurpatore Kaṃsa[15].

Krishna trascorre l'infanzia nei pressi del bosco di Vṛndāvana, situato nei pressi del villaggio di Gokula, tra i pastori, e le loro mogli e figlie (gopī), da queste vezzeggiato prima e amato poi.



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