IL FARO DEI SOGNI

BIOGRAFIA DI PLATONE

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800px-Plato_Silanion_Musei_Capitolini_MC1377_0

(GRC)

«...ἀνδρός, ὃν οὐδ'αἰνεῖν τοῖσι κακοῖσι θέμις.»
(IT)

«... [di un] uomo che ai malvagi non è neppure lecito lodare.»
(Aristotele, Elegia dell'altare, fr. 673 Rose3, v. 16[1][2][3])
Busto ritraente Platone rinvenuto nell'area sacra in Largo Argentina (1925) a Roma. Copia, conservata nel Musei Capitolini, di un'opera creata da Silanion [4]. L'originale, commissionato da Mitridate subito dopo la morte di Platone, dedicato alle Muse, fu collocato nell'Accademia platonica di Atene.

Platone, figlio di Aristone del demo di Collito (in greco antico: Πλάτων, Plátōn; Atene, 428/427 a.C. – Atene, 348/347 a.C.), è stato un filosofo greco antico. Assieme al suo maestro Socrate e al suo allievo Aristotele ha posto le basi del pensiero filosofico occidentale.[5][6][7][8]



Plato_Symposium_papyrus

Biografia
Nascita e origini

Nacque ad Atene da genitori aristocratici: il padre Aristone, che vantava tra i suoi antenati Codro, l'ultimo leggendario re di Atene, gli impose il nome del nonno, cioè Aristocle; la madre, Perictione, secondo Diogene Laerzio discendeva dal famoso legislatore Solone[10][11][12].

La sua data di nascita viene fissata da Apollodoro di Atene, nella sua Cronologia, all'ottantottesima Olimpiade, nel settimo giorno del mese di Targellione, ossia alla fine di maggio del 428 a.C.[13] Ebbe due fratelli, Adimanto e Glaucone, citati nella sua Repubblica, e una sorella, Potone, madre di Speusippo, futuro allievo e successore, alla sua morte, alla direzione dell'Accademia di Atene.

Fu un altro Aristone, un lottatore di Argo, suo maestro di ginnastica, a chiamarlo per la larghezza delle spalle "Platone" (dal greco πλατύς, platýs, che significa "ampio"). Platone praticava infatti il pancrazio, una sorta di lotta e pugilato assieme. Altri danno del nome un'altra derivazione, come l'ampiezza della fronte o la maestà dello stile letterario. Diogene Laerzio, riferendosi ad Apuleio,[14] a Olimpiodoro[15] e a Eliano,[16] informa che avrebbe coltivato la pittura e la poesia, scrivendo ditirambi, liriche e tragedie, che avrebbero avuto in seguito, insieme ai mimi, un'importanza fondamentale per la scrittura dei suoi dialoghi.

Secondo lo stesso Diogene Laerzio[17] sulla sua nascita esiste una leggenda di Speusippo riferita nell'opera Il banchetto funebre di Platone, secondo cui Platone sarebbe stato in realtà figlio del dio Apollo, e perciò anche fratello di Asclepio, «medico del corpo, come dell'anima immortale lo è Platone».[18] Secondo questo mito, Aristone, padre di Platone, in procinto di sedurre Perictione avrebbe avuto la visione di Apollo che lo avrebbe distolto da ogni rapporto fisico con la giovane, la quale sarebbe invece rimasta incinta del dio, preso dalla sua bellezza.[19] Secondo una versione posteriore, tuttavia, esposta dall'autore ignoto dei Prolegomeni, Platone viene nuovamente accostato ad Asclepio ma viene chiamato figlio di Aristone.[20] D'altronde Speusippo, essendo figlio di una sorella di Platone, non poteva non sapere che Platone non era il primo ma il terzo figlio di Perictione.[21] Probabilmente il suo fine non era quello di fornire informazioni storiche sulla nascita di Platone, ma di promuovere la mitizzazione del filosofo dopo la morte di questi[22] e di giustificarne così il culto che gli era tributato nell'Accademia. La divinizzazione di Platone continuerà in età neoplatonica, con talune forme di eccesso come riferito da Porfirio e da Proclo,[23] e sarà ricordata dall'umanista Marsilio Ficino per la dote curativa trasmessagli da Apollo.[24]

Nella medesima opera Speusippo elogiò inoltre l'acuto intelletto e la memoria prodigiosa dimostrati da Platone quando era un bambino, e la sua dedizione allo studio nell'adolescenza.[25]

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I viaggi e l'incontro con Socrate

Platone frequentò l'eracliteo Cratilo e il parmenideo Ermogene, ma non è certo se la notizia sia reale o se voglia giustificare la sua successiva dottrina, influenzata sotto diversi aspetti dal pensiero dei suoi due grandi predecessori, Eraclito e Parmenide, da lui considerati gli autentici fondatori della filosofia.

Avrebbe partecipato a tre spedizioni militari, durante la guerra del Peloponneso, a Tanagra, a Corinto e a Delio, dal 409 a.C. al 407 a.C., anno in cui, conosciuto Socrate, avrebbe distrutto tutte le sue composizioni poetiche per dedicarsi completamente alla filosofia.[26]

Fondamentale il suo incontro con Socrate che, dopo la parentesi del governo, oligarchico e filo-spartano, dei Trenta tiranni, del quale faceva parte lo zio di Platone Crizia, fu accusato dal nuovo governo democratico di empietà e di corruzione dei giovani e condannato a morte nel 399 a.C.. Nell'Apologia di Socrate l'allievo descrive il processo del maestro, che pronuncia la sua difesa, denuncia la falsità di chi l'accusa di corrompere i giovani e come testimoni della sua condotta menziona un gruppo di suoi amici presenti nel tribunale, tra i quali «Adimànto, figlio di Aristòne, di cui Platone, qui presente, è fratello» .[27]. Tuttavia nel Fedone, il narratore Fedone di Elide riferisce a Echecrate che Platone non era presente alle ultime ore di vita di Socrate.[28] Platone è dunque stranamente assente, forse malato (59b): in realtà, nessun'altra fonte antica parla per quell'epoca di una malattia del filosofo, tanto grave da impedirgli di assistere il maestro nelle ultime ore. Con la sua assenza, Platone forse vuole affermare che il dialogo non sarà una cronaca puntuale della morte di Socrate, quanto piuttosto, come afferma Bruno Centrone, una sua ricostruzione letteraria in linea con lo spirito dialogico del maestro.[29] oppure che egli non voglia compromettersi condividendo l'accusa di ateismo che ha portato Socrate alla morte. Non a caso dopo la scomparsa del maestro i suoi discepoli, compreso Platone, lasciarono Atene per rifugiarsi a Megara.[30] Da qui Platone si recò a Cirene, frequentando il matematico Teodoro di Cirene e ancora in Italia, dai pitagorici Filolao, Eurito e Acrione. Infine si sarebbe recato in Egitto, dove i sacerdoti l'avrebbero guarito da una malattia. Ma la fondatezza della notizia di questi viaggi è molto dubbia.



I primi dialoghi

A partire dal 395 a.C. Platone dovrebbe aver cominciato a scrivere i primi dialoghi, nei quali affronta il problema culturale rappresentato dalla figura di Socrate e la funzione dei sofisti: nascono così, in un possibile ordine cronologico:

l'Apologia di Socrate, che tuttavia non è un dialogo;
il Critone, in cui Socrate discute la legittimità delle leggi;
lo Ione, in cui Socrate con il gusto dello scherzo dialoga sul significato di Arte umana e Arte divina con un attore, il rapsodo, che interpreta o è posseduto dalla Poesia;
l'Eutifrone;
il Carmide;
il Lachete;
il Liside;
l'Alcibiade primo;
l'Alcibiade secondo (queste due attribuzioni a Platone sono tuttavia discusse);
l'Ippia maggiore;
l'Ippia minore;
il Menesseno;
il Protagora;
il Gorgia.

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L'arrivo in Italia e in Sicilia

Diogene Laerzio afferma che nel 390 a.C. circa, Platone giunse una prima volta in Magna Grecia dove fece la conoscenza del pitagorico Archita di Taranto [31].

Numerose fonti antiche documentano i suoi successivi viaggi in Sicilia. Nel 388/387 a.C. vi si recò con l'intenzione di studiare da vicino il vulcano Etna. Lo storico greco Diogene Laerzio afferma che il filosofo ateniese si sia recato nel suo primo viaggio siciliano presso i crateri etnei [32]. Alla sua testimonianza si aggiungono quelle di Ateneo [33] e di Apuleio [34]
Primo viaggio: l'incontro con Dione e Dionisio I

Una volta giunto sull'isola fu invitato dal tiranno Dionisio I a recarsi a Siracusa, presso la sua corte. Qui fece la conoscenza del cognato del tiranno, Dione, il quale divenne ben presto uno dei più intimi discepoli.[35]

Opposto invece fu l'atteggiamento di Dionisio nei suoi confronti. Al siracusano non piacquero i discorsi di Platone sulla felicità e su cosa fosse giusto o non giusto fare. Per evitargli quindi l'ira di Dionisio, poiché tra i due vi era stato un acceso diverbio, Dione lo fece imbarcare su di una nave capitanata dallo spartano Pollide.[36]

Dionisio allora segretamente avrebbe chiesto al suo ambasciatore di uccidere Platone durante il viaggio o di renderlo schiavo. Venne quindi condotto a Egina, isola nemica di Atene, dove fu fatto prigioniero e reso schiavo.

A riscattarlo fu il socratico Anniceride di Cirene. Ma quest'episodio, narrato con varianti da Diogene Laerzio,[37] è stato molto discusso e la critica moderna si divide nell'attribuire la colpevolezza della schiavitù di Platone a Dionisio I[38] o al fatto che durante la guerra di Corinto fosse molto pericoloso per gli Ateniesi navigare su quelle acque.[39]
La fondazione dell'Accademia

Nel 387 a.C. Platone è ad Atene; acquistato un parco dedicato ad Academo, vi fonda una scuola che intitola Accademia in onore dell'eroe e la consacra ad Apollo e alle Muse.
Accademia platonica (Mosaico pompeiano)

Sull'esempio opposto a quello della scuola fondata da Isocrate nel 391 a.C. e basata sull'insegnamento della retorica, la scuola di Platone ha le sue radici nella scienza e nel metodo da essa derivato, la dialettica; per questo motivo, l'insegnamento si svolge attraverso dibattiti, a cui partecipano gli stessi allievi, diretti da Platone o dagli allievi più anziani, e conferenze tenute da illustri personaggi di passaggio ad Atene.

In vent'anni, dalla creazione dell'Accademia al 367 a.C., Platone scrive i dialoghi in cui si sforza di determinare le condizioni che permettono la fondazione della scienza; tali sono:

il Clitofonte (tuttavia di incerta attribuzione);
il Menone;
il Fedone;
l'Eutidemo;
il Simposio;
la Repubblica;
il Cratilo;
il Fedro.

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Il secondo viaggio a Siracusa


Nel 367-366 a.C. Platone è nuovamente a Siracusa, invitato da Dione che, con la morte di Dionigi il Vecchio e la successione al potere di suo nipote Dionigi il Giovane, conta di poter attuare le riforme impedite dal precedente tiranno.
(GRC)

«ὥστε εἴπερ ποτὲ καὶ νῦν ἐλπὶς πᾶσα ἀποτελεσθήσεται τοῦ τοὺς αὐτοὺς φιλοσόφους τε καὶ πόλεων ἄρχοντας μεγάλων»
(IT)

«Se mai altra volta, certo ora potrà attuarsi la nostra speranza che filosofi e reggitori di grandi città siano le stesse persone»
(Dione, Lettera VII, 328a.[40])

La riforma politica di Platone viene fortemente osteggiata dalla fazione tirannica che vede nel filosofo ateniese, e nella sua loquacia, una minaccia alla propria esistenza, o addirittura un nuovo tentativo di conquista da parte di Atene.[41]

Infine i contrasti con Dionigi II, che sospetta nello zio intenzioni di ribellione, portano all'esilio di Dione. Platone è rimasto ugualmente a Siracusa, sia perché il tiranno lo trasferisce sull'acropoli - dove occorre il suo permesso per qualsiasi imbarco - e sia perché nutre ancora «la speranza di fare tutto il bene possibile attraverso un unico individuo ».[42]

Lo scoppio di un conflitto bellico che impegna direttamente Dionigi II, offre a Platone l'occasione di lasciare la Sicilia. Ma il Siracusano gli promette che in tempo di pace manderà a chiamare sia lui che Dione.[43]
Il terzo viaggio in Sicilia
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Viaggi di Platone in Sicilia § Terzo viaggio.

Nel 361 a.C. Platone compie il suo terzo e ultimo viaggio in Sicilia. Non c'è però Dione, verso il quale Dionigi manifesta un'aperta ostilità; i tentativi di Platone di difendere l'amico portano alla rottura dei rapporti con il tiranno.
(GRC)

«ἐμὲ παρακαλοῦντας πρὸς τὰ νῦν πράγματα. ἦλθον Ἀθηναῖος ἀνὴρ ἐγώ, ἑταῖρος Δίωνος, σύμμαχος αὐτῷ, πρὸς τὸν τύραννον, ὅπως ἀντὶ πολέμου φιλίαν ποιήσαιμι· διαμαχόμενος δὲ τοῖς διαβάλλουσιν ἡττήθην. πείθοντος δὲ Διονυσίου τιμαῖς καὶ χρήμασιν γενέσθαι μετ’ αὐτοῦ ἐμὲ μάρτυρά τε καὶ φίλον πρὸς τὴν εὐπρέπειαν τῆς ἐκβολῆς»
(IT)

«Io, cittadino ateniese, amico di Dione, suo alleato, mi recai dal tiranno per cambiare in amicizia un rapporto di ostilità; combattei contro i calunniatori, ma ne fui sconfitto. Tuttavia, per quanto Dionigi con onori e ricchezze cercasse di tirarmi dalla sua parte per usarmi come prova a favore della legittimità dell’esilio di Dione, in questo fallì miseramente.»
(Lettera VII,333d.)

Dopo aver avuto un forte diverbio con il tiranno per aver difeso il siracusano Eraclide - colpevole di aver fomentato la rivolta dei mercenari contro Dionigi II - Platone viene cacciato dall'acropoli e trasferito nella casa di Archedemo.[44]

Nel 360 a.C., quando ormai la situazione è divenuta pericolosa per la sua incolumità, riesce a lasciare la Sicilia grazie alla mediazione di Archita e dei pitagorici tarantini, i quali mandano Lamisco che convince Dionisio II a lasciare partire Platone.

Durante il viaggio di ritorno, Platone sbarca a Olimpia dove incontra per l'ultima volta Dione. Questi stava progettando una guerra contro Dionigi, dalla quale Platone cercò invano di dissuaderlo: nel 357 a.C. riuscirà a impadronirsi del potere a Siracusa ma vi sarà ucciso tre anni dopo.[45]
(GRC)

«κοινός τε ὑμῖν εἰμι, ἄν ποτέ τι πρὸς ἀλλήλους δεηθέντες φιλίας ἀγαθόν τι ποιεῖν βουληθῆτε· κακὰ δὲ ἕως ἂν ἐπιθυμῆτε, ἄλλους παρακαλεῖτε.»
(IT)

«Sarò di certo con voi se, provando bisogno di reciproca amicizia, cercherete di fare qualcosa di buono; ma finché siete a desiderare il male, chiamate in aiuto qualcun altro.»
(Platone, Lettera VII, 350.)
Ritorno ad Atene

Ad Atene Platone scrisse le ultime opere:

il Timeo;
il Crizia;
il Politico;
il Filebo;
le Leggi.

Morì nel 347 a.C.[45] e la guida dell'Accademia venne assunta dal nipote Speusippo. La scuola sopravviverà fino al 529 d.C., anno in cui venne definitivamente chiusa da Giustiniano dopo vari periodi di alterne interruzioni della sua attività.

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Opere

Di Platone sono pervenute tutte le 36 opere: 34 sono dialoghi; una, l'Apologia di Socrate, riporta una ricostruzione letterario filosofica dell'autodifesa pronunciata da Socrate davanti ai giudici, mentre l'ultima è una raccolta di tredici lettere.
La superiorità del discorso orale

Platone si avvale del dialogo perché lo ritiene l'unico strumento in grado di riportare l'argomento alla concretezza storica di un dibattito fra persone e di mettere in luce il carattere di ricerca della filosofia, elemento chiave del suo pensiero. Egli vuole inoltre evidenziare col ricorso al dialogo la superiorità del discorso orale rispetto allo scritto. Certo la parola scritta è più precisa e meditata rispetto all'oralità, ma mentre questa permette un immediato scambio di opinioni sul tema in discussione quella scritta interrogata non risponde.[46]

In genere, si suole riunire i dialoghi platonici in vari gruppi. Secondo una linea interpretativa piuttosto datata, i primi dialoghi sarebbero caratterizzati dalla viva influenza di Socrate (primo gruppo); quelli della maturità in cui avrebbe sviluppato la teoria delle idee (secondo gruppo); e l'ultimo periodo quando sentì l'urgenza di difendere la propria concezione dagli attacchi alla sua filosofia, attuando una profonda autocritica della teoria delle idee (terzo gruppo).[47] Secondo il nuovo paradigma interpretativo introdotto dalla scuola di Tubinga e di Milano, invece, i dialoghi platonici, al di là dello stile in evoluzione, presentano una coerenza sistematica di fondo, dove la dottrina delle idee, per quanto importante, non costituisce più la parte fondamentale del mondo sovrasensibile.[48] Lo stile, che imita fedelmente la peculiarità del dialogo socratico,[49] muta notevolmente da un periodo all'altro: nei periodi giovanili si hanno interventi brevi e briosi che danno vivacità al dibattito; negli ultimi, invece, vi sono interventi lunghi, che danno all'opera il carattere di un trattato e non di un dibattito, trattandosi piuttosto di un dialogo dell'anima con se stessa, ma senza giungere mai a esporre compiutamente la propria dottrina in forma di scienza assoluta.[50] La rinuncia, come già in Socrate, a comunicare in forma scritta il nucleo della propria dottrina porterebbe per di più a pensare che non solo la scrittura, ma anche l'oralità non fosse per Platone in grado di trasmetterla.[51]

In genere il protagonista dei dialoghi è Socrate; soltanto negli ultimi dialoghi costui assume una parte secondaria, fino a scomparire del tutto nell'Epinomide e nelle Leggi. La caratteristica di questi dialoghi è che il soggetto principale che dà il titolo all'opera è solito discorrere molto più dell'interlocutore a cui si rivolge, il quale si limita solamente a confermare o disapprovare quello che il protagonista espone.
Ordinamento in tetralogie

Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento[52], ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:

Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
Teage, Carmide, Lachete, Liside
Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere

Altre opere spurie sono:

Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.[53]
Ordinamento in trilogie

Una diversa, e più antica classificazione risale ad Aristofane di Bisanzio (III secolo a.C.), che ordinò le opere platoniche in cinque trilogie:

Repubblica, Timeo, Crizia
Sofista, Politico, Cratilo
Leggi, Minosse, Epinomide
Teeteto, Eutifrone, Apologia di Socrate
Critone, Fedone, Lettere

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Altre opere spurie sono:

Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.[53]
Ordinamento in trilogie

Una diversa, e più antica classificazione risale ad Aristofane di Bisanzio (III secolo a.C.), che ordinò le opere platoniche in cinque trilogie:

Repubblica, Timeo, Crizia
Sofista, Politico, Cratilo
Leggi, Minosse, Epinomide
Teeteto, Eutifrone, Apologia di Socrate
Critone, Fedone, Lettere


Pensiero
Filosofia e politica

Quella che in termini storici possiamo chiamare "filosofia platonica" – ovvero il corpus di idee e di testi che definiscono la tradizione storica del pensiero platonico – è sorta dalla riflessione sulla politica. Come scrive Alexandre Koyré: «tutta la vita filosofica di Platone è stata determinata da un avvenimento eminentemente politico, la condanna a morte di Socrate».

Occorre tuttavia distinguere la "riflessione sulla politica" dall'"attività politica". Non è certo in quest'ultima accezione che dobbiamo intendere la centralità della politica nel pensiero di Platone. Come egli scrisse, in tarda età, nella Lettera VII del suo epistolario, proprio la rinuncia alla politica attiva segna la scelta per la filosofia, intesa però come impegno "civile".[54] La riflessione sulla politica diventa, in altre parole, riflessione sul concetto di giustizia, e dalla riflessione su questo concetto sorge un'idea di filosofia intesa come processo di crescita dell'Uomo come membro organicamente appartenente alla polis.

Fin dalle prime fasi di questa riflessione, appare chiaro che per il filosofo ateniese risolvere il problema della giustizia significa affrontare il problema della conoscenza. Da qui la necessità di intendere la genesi del "mondo delle idee" come frutto di un impegno "politico" più complessivo e profondo.
Il problema Socrate
"Morte di Socrate", di Jacques-Louis David, (1748–1825) opera conservata al Metropolitan Museum of Art di New York.

La capacità di agire secondo giustizia presuppone, socraticamente, la conoscenza di che cosa è il bene.[55] Solo questo sapere contraddistingue il filosofo come tale,[56] poiché chi compie il male lo fa per ignoranza. Ad Atene c'era molta confusione sulla figura del filosofo, e in un certo senso lo stesso Socrate aveva alimentato questa confusione: presentandosi infatti come colui che sapeva di non sapere, professava una falsa ignoranza che nascondeva una vera sapienza. Egli si confondeva così con i sofisti, i quali dicevano di sapere ma in effetti non sapevano, perché non credevano nella verità.

Per dirimere questa confusione, per Platone era necessario andare oltre Socrate, delineando con chiarezza i criteri che distinguono il filosofo dal sofista: mentre il primo ricerca i principi della verità, senza la presunzione di possederla, il secondo si lascia guidare dall'opinione, facendone l'unico parametro valido della conoscenza.[57]

L'altro problema legato alla figura di Socrate è la sua condanna a morte, cioè il fatto che sia stato trattato come un criminale pur essendo «il più giusto» tra gli uomini.[58] Ciò significò per Platone dover constatare che tra filosofia e vita politica esisteva quell'incompatibilità già conosciuta da Socrate che nella Apologia accenna alla quasi ineluttabilità della sua condanna da parte dei politici e rifiuta la proposta di andare in esilio.[59] Compito dei filosofi è allora quello di fare in modo che la filosofia non sia in contrasto con lo stato, cosicché non accada più che un giusto sia condannato a morte.

Il tema era connesso alla convinzione che la filosofia fosse inutile: per molti Ateniesi Socrate è quello rappresentato ne Le nuvole, commedia di Aristofane in cui il filosofo è ritratto come un pedante seccatore perso nelle sue discussioni astratte e campate in aria. In un brano del Gorgia il sofista Callicle, dice che la filosofia tutt'al più può essere praticata dai giovani che, inesperti della vita, si possono abbandonare ai discorsi campati in aria; quando però un uomo anziano, come Socrate, perde il suo tempo a discutere di problemi astratti, questo è degno di essere preso a bastonate.[60]

Platone invece dimostra che la filosofia ha un radicamento storico, essa cioè affonda le sue radici nella storia, nella realtà quotidiana come appare dagli interlocutori di Socrate che sono cioè politici come Alcibiade, filosofi come Parmenide, artisti come Aristofane. Socrate quindi è perfettamente inserito nel dibattito culturale del suo tempo e i suoi dialoghi riguardano problemi reali e universali. Così Socrate, pur non sembrando, fa politica tanto da venire condannato e morire per accuse politiche.

C'è quindi uno stretto legame tra il filosofo e la politica; Socrate però non l'ha mai fatto capire, pur anteponendo sempre il bene della città agli egoismi dei singoli.[61] Per uscire dall'equivoco, occorre indicare esplicitamente quali siano le radici di questo legame, che ancora una volta consistono nella conoscenza della virtù, e nei criteri per distinguerla dalle opinioni e dalle strumentalizzazioni personali. Secondo alcune interpretazioni per Platone la conoscenza del bene non concerne l'enumerazione di singoli esempi di virtù, bensì la definizione di cosa sia la virtù in se stessa. «L'unicità della virtù è una delle principali tesi socratiche: nei dialoghi giovanili Platone difende e corrobora questa tesi analizzando il contenuto di alcune delle virtù tenute in più alta considerazione nel mondo greco»[62] Sulla unicità della virtù in Socrate diversi autori non concordano attribuendo questa concezione alla sola filosofia platonica.[63]

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La dottrina della conoscenza: le Idee

La gnoseologia di Platone, messa a punto in vari dialoghi come il Menone, il Fedone, e il Teeteto, deve combattere contro l'opinione che sostiene che la ricerca della conoscenza sia impossibile. La tesi era stata sostenuta dagli eristi, i quali basavano questo loro insegnamento sulla base di due assunti:

se non si conosce ciò che si cerca, qualora lo si sia trovato, non lo si riconoscerà come l'obiettivo da raggiungere;
se si conosce già quel che si cerca, la ricerca non ha senso.[64]

Il problema viene superato da Platone ammettendo che l'oggetto della ricerca è solo parzialmente sconosciuto all'uomo, il quale, dopo averlo contemplato prima della nascita, lo ha in qualche modo "dimenticato" nel fondo della sua anima. La meta del suo cercare è dunque un sapere già presente ma nascosto in lui, che la filosofia dovrà risvegliare con la reminiscenza o «anamnesi» (anàmnesis), concetto su cui Platone fonda il convincimento che l'apprendere è un ricordare.[65]

Tale dottrina si rifà alla credenza religiosa della metempsicosi propria dell'orfismo[66] e del pitagorismo secondo cui quando il corpo muore l'anima, essendo immortale, trasmigra in un altro corpo. Platone sfrutta tale mito fondendolo con l'assunto fondamentale che esistano delle Idee che hanno caratteristiche opposte agli enti fenomenici: sono incorruttibili, ingenerate, eterne e immutabili. Queste Idee albergano nell'iperuranio, mondo soprasensibile e che è parzialmente visibile alle anime una volta slegate dai loro corpi.

L'Idea, traducibile più correttamente con «forma»,[67] è dunque il vero oggetto della conoscenza: ma essa non è soltanto il fondamento gnoseologico della realtà, ossia la causa che ci permette di pensare il mondo, bensì ne costituisce anche il fondamento ontologico, essendo il motivo che fa essere il mondo. Le idee rappresentano l'eterno Vero, l'eterno Buono e l'eterno Bello, a cui si contrappone la dimensione vana e transitoria dei fenomeni sensibili.

Come viene spiegato nel Fedro, dopo la morte le anime diventano simili a cocchi alati che procedono in schiere dietro ai carri degli dèi: in questa loro processione alcune riescono, più distintamente di altre, a scorgere le Idee che appaiono attraverso uno squarcio tra le nuvole, diaframma obbligato tra il mondo sensibile e quello soprasensibile.[68] Quando le anime precipitano nei corpi, reincarnandosi, dimenticano la loro visione delle idee e, prigioniere dei sensi, sono portate a identificare la realtà col mondo sensibile. L'opera del filosofo dialettico, che ha saputo vedere le idee meglio degli altri, è quella di riportare all'anima la memoria del mondo delle idee, attraverso il dare e ricevere discorso, dialogando con l'anima e persuadendola della verità. La dottrina dell'apprendere come ricordare riconduce immediatamente alla cura dell'anima professata da Socrate: la conoscenza è, di fatto, un conoscere meglio se stessi, riportando alla luce dell'intelletto ciò che l'anima ha dimenticato nel momento della reincarnazione; l'idea è quindi in un certo senso corrispettiva del dàimon socratico.

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Una conseguenza della reminiscenza è l'innatismo della conoscenza: tutto il sapere è già presente, in forma latente, nella nostra anima. A tal proposito i sensi svolgono comunque una funzione importante per Platone, poiché offrono lo spunto per aiutarci a ridestarlo. L'esperienza serve però solo da stimolo; la vera conoscenza deve essere fondata universalmente sulla noesis, e su di essa deve poggiare ogni tecnica particolare, che è invece il luogo della praxis. L'errore contro cui Platone combatte, rappresentato dalla cultura sofista, consiste nel basare la conoscenza sulla sensazione.[69] Al contrario, solo l'anima, e non i sensi, può conoscere l'aspetto "vero" di ogni realtà.
I quattro stadi della conoscenza

La dottrina platonica è inoltre spesso oggetto di fraintendimenti. Di fatto, come Platone stesso suggerisce in numerosi passi, è impossibile recuperare completamente la conoscenza del mondo delle Idee anche per il filosofo. La conoscenza perfetta di queste è propria solo degli dèi, che le osservano sempre. La conoscenza umana, nella sua forma migliore, è sempre filo-sofia, ossia amore del sapere, inesausta ricerca della verità. Ciò suggerisce una frattura "sofistica" all'interno del pensiero platonico: per quanto l'uomo si sforzi, il raggiungimento della verità assoluta è impossibile, perché confinata nel cielo iperuranio e dunque assolutamente inconoscibile. La parola, che è lo strumento utilizzato dal filosofo dialettico per persuadere le anime della verità e dell'esistenza delle idee, non rispecchia che parzialmente la realtà ultrasensibile, che è irriproducibile e non presentabile.

Per fare un esempio, è come se un insegnante, che pure ha presente come è fatto un triangolo, cercasse di spiegarlo ai suoi allievi senza poterglielo esibire o far vedere alla lavagna. Può forse persuadere loro di com'è fatto all'incirca un triangolo, ma la conoscenza degli alunni rimarrà comunque lontana da coloro che lo sanno rappresentare correttamente. La conoscenza del mondo delle idee dunque può essere solo intuita, mai comunicata; per conoscerla nel modo meno confutabile possibile ci si può basare al massimo sull'uso dei lògoi, ossia dei discorsi, ragionamenti in forma di dialogo svolti attorno a tali argomenti.

L'opera di ricerca filosofica deve limitarsi così al persuadere le anime,[70] in maniera simile alla maieutica socratica. Qui Platone fa esplicito riferimento alla metafora della seconda navigazione: con questo termine i greci indicavano la navigazione a remi, più faticosa di quella a vela (prima navigazione) e usata in caso di necessità (come la mancanza di vento). La seconda navigazione consiste proprio nell'uso dei lògoi, che presuppongono una frattura radicale tra il pensiero-parola, e la realtà. Platone, ben lungi dall'essere il filosofo della scienza forte e dottrinaria che per molti anni gli è stata erroneamente attribuita, ha scoperto, di fatto, l'impossibilità di raggiungere una verità piena e incontrovertibile.[71]

La più compiuta teoria platonica della conoscenza, esposta nel dialogo Repubblica e altrimenti nota come teoria della linea, è quindi rappresentabile col seguente schema:[72]

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Solo la conoscenza intelligibile, cioè concettuale, assicura un sapere vero e universale; l'opinione invece, fondata sui due stadi inferiori del conoscere, è portata a confondere la verità con la sua immagine. Platone polemizza in proposito contro il materialismo di Democrito, secondo cui erano gli atomi, entità materiali fisse, a determinare la formazione o la distruzione degli elementi.[73] Secondo Platone non ci sono in natura princìpi (o archè) ultimi e indivisibili: tutta la realtà fenomenica «scorre» in un continuo mutamento; al contempo però essa tende a costituirsi secondo forme atemporali che sembrano preesisterle. Proprio questo è il punto di cui Democrito non aveva saputo rendere ragione, ossia del perché la materia si aggreghi sempre in un certo modo, per formare ad esempio ora un cavallo, ora un elefante. Ciò evidentemente è possibile perché dietro ogni animale deve esistere un'idea, cioè una «forma» precostituita per ogni tipo, spirituale e non materiale.

L'Idea è inoltre ciò che consente a Platone di conciliare il dualismo filosofico venutosi a creare tra Parmenide ed Eraclito: nelle idee risiede infatti la dimensione ontologica dell'Essere parmenideo, ma esse forniscono anche, in virtù della loro molteplicità, una spiegazione al divenire eracliteo che domina i fenomeni naturali, al quale Platone cercava una motivazione razionale che non lo riducesse a semplice illusione come aveva fatto Parmenide.

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La funzione del mito

Oltre al dialogo, una caratteristica peculiare di Platone nella sua esposizione della dottrina delle idee consiste nella reintroduzione, con la sua opera, del mito, quale forma di conoscenza tradizional-popolare che, cronologicamente, precedeva di molto la nascita della filosofia greca.

Platone ha un atteggiamento diversificato nei confronti del mito, che ritiene vada rivalutato in quanto utile, e anzi necessario, alla comprensione. Il mito va infatti inteso come esposizione di un pensiero ancora nella forma di racconto, quindi non come ragionamento puro e rigoroso. Esso ha una funzione allegorica e didascalica, presenta cioè una serie di concetti attraverso immagini che facilitano il significato di un discorso piuttosto complesso, cercando di renderne comprensibili i problemi, e creando nel lettore una nuova tensione intellettuale, un atteggiamento positivo nei confronti dello sviluppo della riflessione.

Il mito ha così una doppia funzione: da un lato è un semplice espediente didattico-espositivo di cui Platone fa uso per comunicare in maniera più accessibile e intuitiva le sue dottrine. Dall'altro è un mezzo per superare quei limiti oltre i quali l'indagine razionale non può andare, diventando un vero e proprio strumento di verità, una "via alternativa" al solo pensiero filosofico, grazie alla sua capacità di armonizzare unitariamente gli argomenti. Il mito è il momento in cui Platone esprime la bellezza della verità filosofica, in cui questa si manifesta anche con immagini e figure sensibili, e di fronte alla quale i discorsi razionali risultano insufficienti.[74]

Le scienze rappresentano un sapere inferiore perché, pur trattandosi di argomentazioni necessarie e dimostrate, vivono di ipotesi. Classico esempio è la costruzione dei teoremi di geometria, basati su ipotesi e tesi, che Euclide raccolse e sistematizzò poco più d'un secolo dopo, e che erano parte di una tradizione tramandata oralmente. Se il mito pecca di scarso senso del rigore, e la scienza di incapacità di elevazione, entrambi però, in mancanza di una conoscenza migliore, hanno una loro dignità. L'unica forma di sapere che il filosofo non può mai accettare è la doxa, il mondo dell'opinione mutevole e transitoria.

I racconti mitici platonici toccano le questioni fondamentali dell'esistenza umana, come la morte, l'immortalità dell'anima, la conoscenza, l'origine del mondo, e le collegano strettamente ai temi e ai discorsi logico-critici, a cui il filosofo affida il compito di produrre una conoscenza e una rappresentazione vere della realtà.

I miti che si possono riscontrare nell'opera platonica sono approssimativamente i seguenti:[75][76]

Mito dell'insoddisfazione del dissoluto[77]
Mito di Gige[78]
Mito dell'uomo-marionetta[79]
Mito di Aristofane o dell'androgino[80]
Mito della nobile menzogna[81]
Mito della nascita di Eros[82]
Mito dell'età dell'oro[83]
Mito di Epimeteo e Prometeo[84]
Mito di Theuth,[85]
Mito dei cicli cosmici[86]
Mito di Atlantide[87]
Mito del governo divino[88]
Mito della caverna[89]
Mito della reminiscenza[90]
Mito del giudizio delle anime[91]
Mito dell'immortalità dell'anima[92]
Mito di Er[93]
Mito del carro e dell'auriga[94]
Mito del ciclo delle incarnazioni[95]
Mito del Demiurgo[96]
Mito dell'anima del mondo[97]
Mito delle specie mortali[98]
Mito della provvidenza divina[99]

Tra i racconti platonici degni di nota per la loro ispirazione sono generalmente annoverati anche quello sulle forme di conoscenza o «la linea»,[100] e «il mistero dell'amore»[101] sulla gerarchia del bello.[102]

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La filosofia come Eros
Eros, demone dell'Amore

È proprio per spiegare l'umano desiderio di conoscenza che Platone ricorre a un celebre mito, quello di Eros, dio greco dell'Amore e della forza,[103] figlio di Poros e Penia, cioè di Risorsa e Povertà.[104] Il filosofo, secondo Platone, è mosso da una tensione verso la verità con lo stesso desiderio d'amore che attrae due esseri umani.

Per la sua caratteristica di essere principio unificante del molteplice, la peculiarità di eros consiste essenzialmente nella sua ambiguità, ovvero nell'aspirazione alla verità assoluta e disinteressata (ecco la sua abbondanza); ma al contempo nel suo essere costretto a vagare nelle tenebre dell'ignoranza (la sua povertà). La contrapposizione tra verità e ignoranza viene sentita da Platone, come già dal suo maestro Socrate, come una profonda lacerazione, fonte di continua irrequietezza e insoddisfazione.

Si desidera infatti soltanto quello che non si ha, e l'uomo tende a una sapienza della quale si ricorda vagamente, ma di cui in realtà è povero. Si può notare come la ricerca di questa sapienza muova dalla stessa consapevolezza socratica del «sapere di non sapere». Platone aggiunge che l'uomo non desidererebbe con tanta forza una tale verità se non l'avesse mai vista, se non fosse certo che esiste. In tal senso, non solo si desidera quel che non si ha, ma di più si può affermare: si desidera soltanto ciò che non si ha più, che si è perso.[105]

Per Platone vale l'ideale della kalokagathìa (dal greco kalòs kài agathòs), ossia «bellezza e bontà». Tutto ciò che è bello (kalòs) è anche vero e buono (agathòs), e viceversa. La bellezza delle idee che attira l'amore intellettuale del filosofo perciò è anche il bene dell'uomo. Il fine della vita umana diventa la visione delle idee e la contemplazione di Dio.

Tale contemplazione è sempre imperfetta nella dimensione del mondo sensibile, dominata dalla materia che, in quanto priva di essere, è un semplice non-essere. L'uomo si trova a metà strada tra questi due estremi: mentre le idee sono in sé e per sé, come realtà indipendente e assoluta (ab-soluta), appunto perché "sciolta da" ogni altra, non essendo relative ad altro da sé, l'uomo invece è calato nell'esistenza (da ex-sistentia, "essere fuori"). L'esistenza per Platone è una dimensione ontologica che non ha l'essere in proprio, ma esiste solo in quanto è subordinata a un essere superiore; egli la paragona a un ponte sospeso tra essere e non essere. L'uomo è dilaniato così da una duplice natura: da un lato avverte il richiamo del mondo iperuranio, in cui risiede la dimensione più vera dell'Essere, eterna, immutabile, e incorruttibile, ma dall'altro il suo essere è inevitabilmente soggetto alla contingenza, al divenire, e alla morte (non-essere).

Questa duplicità umana è vissuta dallo stesso Platone ora in maniera più ottimista, ora con toni decisamente più pessimisti. Da ciò deriva il disprezzo dei platonici per il corpo: Platone più volte nei dialoghi gioca con l'assonanza di parole sèma/sòma, ossia "tomba"/"corpo": il corpo come tomba dell'anima.

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L'ontologia

Il tema della frattura interiore dell'uomo porta a domandare: su che cosa si fondano, e che rapporto hanno le idee con gli oggetti della conoscenza sensibile? La risposta a questa domanda costituisce la cosiddetta ontologia platonica.
Il mito della caverna in un'incisione del 1604 di Jan Saenredam.

Il testo fondativo di questo aspetto del pensiero platonico è senza dubbio il celebre mito della caverna del libro VII de La Repubblica. In esso, il mondo sensibile è presentato come immagine evanescente e imperfetta del mondo delle idee, inteso invece come "mondo vero" e fondamento di tutto ciò che è. Platone stesso fornisce l'interpretazione dell'allegoria: lo schiavo che viene liberato dalla caverna rappresenta l'anima, che si libera dai vincoli corporei mediante la conoscenza. Gli elementi del mondo esterno rappresentano le idee, mentre gli oggetti dentro la caverna (e le immagini di questi proiettate sulla parete) non sono che le loro copie imperfette. Il sole, che permette di riconoscere l'aspetto vero della realtà, è simbolo dell'idea del Bene, l'idea suprema in vista della quale l'intero mondo delle idee è costituito e al quale essa conferisce la sua unità.

Una conferma di tale impostazione ontologica del reale è data nel mito narrato nel dialogo Fedro, attraverso l'immagine della faticosa salita dell'anima al cielo iperuranio delle idee, così descritte: «essenze incolori, informi e intangibili, contemplabili solo dall'intelletto (...) essenze che sono scaturigine della vera scienza».[106]
Esemplificazione visiva delle "idee" platoniche

Il termine usato da Platone per indicare i "modelli esemplari", i "paradigmi", che sono all'origine della realtà sensibile, è παράδειγμα (paradeigma), indicato dagli autori platonici più tardi (ad esempio da Plotino) con il termine ὰρχέτυπος (archetypos; "archetipo"). Questa immagine qui rappresentata del "paradigma", dell'"archetipo" del "cavallo" che risiede nel mondo delle idee vuole genericamente raffigurare visivamente uno di quei "modelli" che per Platone sono privi di figura, di colore e invisibili. Essendo puramente intelligibili, la loro esistenza, infatti, non può essere in alcun modo appurata per mezzo dei dati sensibili come la vista, ma solo per il tramite dell'intelletto.

Per testimoniare l'essere delle idee, Platone porta l'esempio delle figure geometriche, dei solidi platonici da lui stesso scoperti, dei triangoli e dei cerchi. In natura non esiste un cerchio o un quadrato perfetto, che pur ogni individuo conosce sapendone calcolare area e perimetro. Una tale capacità è dovuta al fatto che l'intelletto vede al di là del sensibile un'idea di cerchio e quadrato che non si trova nel mondo esteriore.

Soltanto nelle idee quindi si trova la dimora dell'Essere, che è una dimensione trascendente rispetto a quella della semplice esistenza. L'ontologia platonica si presenta così come "dualistica", comprensiva cioè di due piani concettuali, quello delle realtà sensibili e quello delle idee, tra i quali esiste una differenza ontologica, incolmabile e costitutiva della loro stessa natura. L'unico rapporto possibile tra il piano dei fenomeni e quello delle idee è quello "mimetico" (mimesis): ogni realtà sensibile (ente) ha il suo modello (eidos) nel mondo intelligibile. L'unico "salto" possibile tra i due livelli resta quello che può compiere l'anima umana, elevandosi attraverso la conoscenza dall'esistenza materiale a quella intellettuale. Platone, come già accennato, si rifà alla concezione orfica pitagorica dell'anima, ove questa infatti è scissa in due parti: la prima, mortale, che muore insieme al corpo, e la seconda, immortale, che secondo Pitagora si reincarna in altri corpi.

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Ontologia e dialettica

Come conciliare la differenza tra mondo sensibile e intelligibile e tuttavia la loro corrispondenza? Come partecipano tra loro i due piani della realtà? A queste domande è chiamata a rispondere la dialettica.

Il problema è legato storicamente alla presenza di Aristotele nell'Accademia, durante gli anni della tarda maturità platonica. È infatti presumibile che da un certo momento la critica aristotelica all'ontologia della differenza abbia costretto il vecchio maestro a rivedere criticamente le sue originali concezioni in funzione di un maggior "realismo" logico della teoria delle idee. In altri termini, la domanda è: se il mondo delle idee e quello empirico si contrappongono – essere e non-essere – che senso ha porre l'idea come causa della realtà apparente? Non sarebbe più coerente concludere, come già aveva fatto Parmenide, che esiste solo il mondo delle idee, riducendo il mondo della natura a pura illusione?

La prima soluzione che Platone aveva cercato a questa aporia era stata la teoria della partecipazione (mèthexis): le entità particolari parteciperebbero ognuna dell'idea corrispondente.

In una seconda fase, il filosofo aveva proposto come si è visto la teoria dell'imitazione (mimesis), secondo la quale gli enti naturali sarebbero imitazioni della loro rispettiva idea. A tal proposito Platone introdurrà nel Timeo, dialogo della vecchiaia, la figura del Demiurgo proprio per attribuirgli il ruolo di mediatore tra le due dimensioni.[107] Il Demiurgo è un semi-dio che vitalizza il cosmo attraverso un'Anima del mondo, plasmando la chora, una materia già esistente ma sottoposta al caos, allo scopo di darle una forma sul modello delle Idee.[108]
L'Essere secondo Parmenide: chiuso e incompatibile con il non-essere
L'Essere secondo Platone: gerarchicamente strutturato secondo passaggi graduali che vanno da un minimo a un massimo

Entrambe le risposte però mantenevano aperte molte e complesse contraddizioni di carattere logico. In una terza fase Platone mette allora in discussione una delle basi parmenidee della sua ontologia, quella dell'immobilità dell'essere, attuando quello che lui chiama un «parricidio», ritenendosi egli filosoficamente "figlio" di Parmenide. Ora infatti il mondo delle idee assume l'aspetto di un sistema complesso, in cui trovano posto i concetti di diversità e molteplicità. Più che di una contrapposizione tra idea e realtà, entra in gioco il principio della divisione (diairesis) del mondo intelligibile, che consente di collegare dialetticamente ogni realtà empirica al suo principio sommo. Ciascuna idea si articola con quelle a essa subordinate (più particolari) e sovraordinate (più generali), secondo regole dialettiche di somiglianza e comunanza (generi, specie); in cima a tutte sta l'idea del Bene. In questa ipotesi teorica entra in gioco la possibilità dell'errore: esso consiste nella determinazione di connessioni arbitrarie tra generi e specie, non rispettose delle loro relazioni logiche. Viene inoltre profondamente modificato il concetto stesso di "non-essere": esso non è più il "nulla", ma viene a costituirsi come il "diverso", come un'altra modalità dell'essere. In altri termini, ora anche il non-essere in certo qual modo è, perché non è più radicalmente contrapposto all'essere, ma esiste in senso relativo (relativo cioè agli enti sensibili). Il non-essere esiste come "corrosione" o decremento della bellezza originaria delle idee iper-uraniche calate nella materia per dare forma agli elementi, in un sinolo o unità di materia e forma, come dirà Aristotele; unione che si decomporrà poi con la morte o distruzione dei singoli enti.

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La diairesi non elimina, naturalmente, il carattere trascendente delle idee, ma avvicina maggiormente il metodo dialettico alle possibilità conoscitive del metodo scientifico. Platone si vede costretto a postulare una tale gerarchia o suddivisione della realtà ontologica anche per rispondere al problema sorto con Parmenide, da lui definito «terribile e venerando»,[109] circa l'impossibilità di oggettivare l'Essere, al quale, secondo il filosofo eleata, non si poteva attribuire nessun predicato. In tal modo però diventava impossibile conoscere l'Essere, e in ultima analisi pensarlo: una condizione che secondo Platone equivaleva di fatto al non-essere, del quale pure, a rigore, nulla si può dire.

Nel Sofista, pertanto, Platone postula cinque generi sommi (essere, identico, diverso, stasi e movimento) a cui tutte le idee possono essere subordinate; la conciliazione di unità, molteplicità, staticità e movimento è detto «rapporto di comunanza» (koinonìa).

Una notevole difficoltà che s'incontra studiando gli ultimi dialoghi di Platone (Parmenide, Sofista, Teeteto) è la definizione di dialettica che Platone non dà mai. Nella Repubblica Platone ne parla come il metodo più efficace per raggiungere la verità. Nel Fedro si trova che la dialettica è un “processo di unificazione e moltiplicazione”:[110] partendo cioè da un'analisi di certi fenomeni, si tratta di unificarli sotto un unico genere; mentre all'opposto la dialettica si occupa anche di dividere un genere in tutte le specie che comprende sotto di sé. Possiamo forse dire che l'Idea è di fatto ununità del molteplice, che racchiude e assume in sé la caratteristica principale propria di alcuni esseri: si pensi ad esempio all'idea del bello che unifica in sé tutte le varie realtà belle.

Nel Parmenide Platone dà una dimostrazione di come lavora la dialettica all'interno del discorso: si tratta di trovare tutte le risposte possibili a una domanda; poi, con un procedimento falsificatorio, si procederà nel confutare a una a una le risposte date, sulla base di certi principi; la risposta che non è falsificata dal procedimento è meno confutabile delle altre e dunque risulta più vera delle altre, mai però vera in senso assoluto. Si potrebbe obiettare a questo punto che tale applicazione della dialettica non corrisponde alla pseudo-definizione datane da Platone nel Fedro. Tale obiezione si rafforza tenendo conto che nel Filebo Platone riformula una nuova concezione. Nel dialogo infatti Socrate è impegnato a definire che cosa sia il piacere. Anzitutto i piaceri sono tanti oppure è solo uno? Filebo non sa rispondere, e allora Socrate pronuncia la famosa frase secondo cui «i molti sono Uno e l'Uno è molti».

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Cosa significa quest'asserzione? Semplicemente ribadisce un principio proprio delle Idee, ossia quella di essere uniche e perfette, eppure, nel contempo, di riflettersi nella molteplicità del sensibile. La metodologia più coerente dell'applicazione della dialettica è probabilmente quella esposta nel Sofista: si tratta del metodo dicotomico. All'interno di una domanda si tratta di isolare il concetto che si vuole definire; nell'attribuire questo concetto a una classe più ampia nella quale siamo certi sia compreso il concetto medesimo; quindi nel suddividere tale classe in due parti, più piccole, per vedere in quale delle due sottoclassi è ancora compreso il concetto da trovare, e così via, suddividendo finché non troviamo più nulla da dividere e, dunque, la definizione trovata è proprio quella del concetto che volevamo spiegare. Pur presentandosi come scienza (epistème), la dialettica, è bene ribadirlo, è solo un procedimento rigoroso, che però non riesce mai ad arrivare alla verità (sempre per il fatto che si serve dei lògoi). Si può dire allora che la scienza presentata da Platone non è certo quella a cui cercherà di approdare ad esempio Cartesio nel Seicento, o in seguito Hegel. Da notare come anche Aristotele, nonostante le sue critiche a Platone, collocava i princìpi primi al di sopra del ragionamento dimostrativo sillogista, giudicandoli raggiungibili solo attraverso l'intuizione intellettuale.

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