Diciamolo chiaramente: poteva andargli anche peggio, viste le esperienze passate; al contrario di Robinson che, con le sue sole forze ed il suo ingegno tipico dell’eroe romantico, deve sopravvivere in un ambiente che nulla offre senza il sudore e la sofferenza umana, Ulisse non ha nulla da fare, non deve costruirsi capanne, né procurarsi il cibo, né difendersi da animali selvatici. Calipso non è un indigeno poco attraente e rozzo come doveva essere di certo Venerdì; è una ninfa che chiede solo di essere amata. È il massimo che si possa chiedere alla vita, e Ulisse di certo non si lascia sfuggire l’occasione di passare un po’ di tempo in vacanza. L’immortalità, però, la rifiuta; probabilmente non accetta il dono divino solo perché in tal modo si sarebbe legato a Calipso per sempre, e ciò non rientra nei suoi piani. Vuole sentirsi libero: ama la ninfa finché gli piace, e poi? Anche le passioni più grandi finiscono: sette anni sono lunghi e poi non è forse vero che esiste la cosiddetta “crisi del settimo anno”? Anzi, sono convinta che tale credenza popolare trovi la sua conferma proprio nella vicenda di cui parliamo.
Calipso, da parte sua, sa che lui non se ne può andare: dove trova una nave? Con il favore di quali dei può partire, visto che in passato proprio dall’ostilità divina era stato privato della gioia di un veloce ritorno a casa? Ormai, però, la donna non ha più davanti l’uomo focoso e passionale di un tempo; deve condividere il letto con un relitto umano, incapace di provare alcun sentimento positivo, pervaso dalla tristezza e dalla malinconia.
Ecco come lo descrive Omero:
E lo trovò [Calipso] seduto sul lido: né mai gli occhi
erano asciutti di lacrime, e la dolce vita si consumava
a lui che piangeva per il ritorno, poiché la ninfa non più gli piaceva;
e la notte invero egli dormiva ma per necessità
nel cavo antro, non volente accanto a lei volente,
e il giorno poi, seduto sulle rocce e sul lido,
in lacrime e gemiti e affanni lacerandosi il cuore
guardava verso il mare inquieto stillando lacrime. (V,vv.151-158)
Beh, questa non è proprio l’immagine di un eroe: un uomo di tal sorta che piange come una “femminuccia”, che scruta l’orizzonte senza vederlo perché l’immagine è offuscata dalle lacrime! L’ideatore del cavallo di Troia, colui che aveva ingannato perfino il gigante Polifemo, che aveva superato ogni sorta d’insidia, ora non è altro che un disperato, anzi, come dice Omero, è il più infelice fra quanti/ eroi combatterono per la città di Priamo/ nove anni, e al decimo distrutta la città partirono/ verso casa … (V, vv.105-108).
In quell’isola ormai si sente in trappola e non spera nemmeno che gli dei, Poseidone in testa, provino pietà per lui. Nemmeno in Calipso la sua disperazione suscita pietà. Colei che nel suo nome cela la vera natura: è la “nasconditrice”, come la chiama Pascoli, rifacendosi all’etimologia greca, colei che sottrae gelosamente alla vista il suo uomo, ma non può nasconderlo agli occhi degli dei che dall’alto dell’Olimpo tutto vedono. Del resto, se l’isola è disabitata, chi può mai vederlo? Non c’è pericolo di una fuga, non si pone nemmeno l’eventualità che qualcuno lo possa portare via da lì. L’ignaro Ulisse nemmeno immagina che gli dei, approfittando della momentanea assenza del suo acerrimo nemico, il dio Poseidone, riuniti in concilio decidono che è giunta l’ora X: Odisseo deve ritornare in patria, ha già sofferto troppo. E Poseidone? Per Zeus non esiste alcun problema:
Smetterà Poseidone
la collera sua, non potrà contro tutti
gli dei immortali voler lottare da solo! (I, vv.77-79)
Liquidato con soluzioni poco divine e molto umane l’ignaro dio del mare, ad Ermes, corriere espresso dell’Olimpo, viene affidato l’ingrato compito di rendere nota a Calipso l’irrevocabile decisione divina.
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