IL FARO DEI SOGNI

Categoria:Inventori italiani

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Gli ultimi anni (1508–1519)
Castello di Clos-Lucé
Il secondo soggiorno milanese (1508-1513)

A Firenze Leonardo cominciò a essere lusingato dal governatore francese di Milano, Charles d'Amboise, che lo sollecitava, fin dal 1506, a entrare al servizio di Luigi XII di Francia. L'anno successivo fu lo stesso re a richiedere espressamente Leonardo, che infine accettò di tornare a Milano dal luglio 1508. Il secondo soggiorno milanese, durato fino al 1513, con alcuni viaggi dall'ottobre 1506 al gennaio 1507 e dal settembre 1507 al settembre 1508, fu un periodo molto intenso:[85] dipinse la Sant'Anna, la Vergine e il Bambino con l'agnellino, completò, in collaborazione col De Predis, la seconda versione della Vergine delle Rocce e si occupò di problemi geologici, idrografici e urbanistici.[86] Studiò fra l'altro un progetto per una statua equestre in onore di Gian Giacomo Trivulzio, come artefice della conquista francese della città.[86]

Viveva nei pressi di San Babila e sul suo stato finanziario resta l'annotazione di una provvigione ottenuta per quasi un anno di 390 soldi e 200 franchi dal re di Francia.[87] Il 28 aprile 1509 scrisse di aver risolto il problema della quadratura dell'angolo curvilineo e l'anno dopo andò a studiare anatomia con Marcantonio della Torre[88], giovanissimo professore dell'università di Pavia; allo scopo, scrisse, di dare «la vera notizia della figura umana, la quale è impossibile che gli antichi e i moderni scrittori ne potessero mai dare vera notizia, sanza un'immensa e tediosa e confusa lunghezza di scrittura e di tempo; ma, per questo brevissimo modo di figurarla» – ossia rappresentandola direttamente con disegni, «se ne darà piena e vera notizia. E acciò che tal benefizio ch'io do agli uomini non vada perduto, io insegno il modo di ristamparlo con ordine».[89]

Durante i suoi brevi viaggi visitò Como, poi si avventurò verso le pendici del Monte Rosa, (all'epoca era infatti impossibile salire sino sulla vetta che è alta ben 4.634 metri), poi con il Salaì e il matematico Luca Pacioli soggiornò a Vaprio d'Adda, in provincia di Milano, dove gli fu affidato dal padre il giovane Francesco Melzi, l'ultimo e il più caro dei suoi allievi che lo seguì fino alla morte[86].

Nel 1511 morì il suo mecenate Charles d'Amboise. L'anno seguente la nuova guerra della Lega Santa scacciò i Francesi da Milano, che tornò agli Sforza[86].
A Roma (1514-1516)
Mappa dell'Agro Pontino, Royal Library, Windsor

Nell'incertezza della situazione, il 24 settembre 1514 Leonardo partì per Roma, portandosi gli allievi più vicini, il Melzi e il Salaì[90]. Giuliano de' Medici, fratello di papa Leone X, gli accordò il suo favore, ottenendo per lui un alloggio negli appartamenti del Belvedere al Vaticano.[86] Qui l'artista si dedicò ai suoi studi scientifici, meccanici, di ottica e di geometria[91] e cercò fossili sul vicino monte Mario,[92] ma si lamentò con Giuliano che gli fossero impediti i suoi studi di anatomia nell'Ospedale di Santo Spirito. Non ottenne commissioni pubbliche, ma ebbe modo di rivedere Giuliano da Sangallo, che si stava occupando della fabbrica di San Pietro, Raffaello Sanzio, che affrescava gli appartamenti papali, e forse anche Michelangelo, dal quale lo divideva l'antica inimicizia.

Si occupò del prosciugamento delle Paludi pontine, i cui lavori erano stati appaltati da Giuliano de' Medici – il progetto fu approvato da papa Leone X il 14 dicembre 1514, ma non fu eseguito per la morte sia di Giuliano sia del papa di lì a pochi anni – e della sistemazione del porto di Civitavecchia.[93] Con Giuliano e il papa fece un viaggio a Bologna, dove ebbe modo di conoscere direttamente Francesco I di Francia.[86]

Dal settembre 1514 al 1516, Leonardo trascorse la maggior parte del tempo vivendo nel cortile del Belvedere nel Palazzo Apostolico, dove Michelangelo e Raffaello erano entrambi attivi.[94] Leonardo riceveva un'indennità di 33 ducati al mese e, secondo il Vasari, decorava una lucertola con scaglie immerse nel mercurio.[95] Il papa gli diede una commissione pittorica di materiale sconosciuto, ma la cancellò quando l'artista iniziò a sviluppare un nuovo tipo di finitura.[95] Leonardo si ammalò, in quello che potrebbe essere stato il primo di molteplici ictus che portarono alla sua morte.[95]
Leda e il cigno, Chatsworth
La Scapigliata esposto alla Galleria Nazionale di Parma. Si è anche ipotizzato che l'opera possa essere uno studio per la Leda col cigno ora perduta.

Secondo il Vasari, durante questa sua breve permanenza a Roma, fece «per messer Baldassarre Turini da Pescia, che era datario di Leone, un quadretto di una Nostra Donna col figliuolo in braccio con infinita diligenza e arte» e ritrasse «un fanciulletto che è bello e grazioso a maraviglia, che sono tutti e due a Pescia», ma delle due opere si è persa ogni traccia, unitamente alla Leda col cigno, celebre al tempo, e vista ancora da Cassiano dal Pozzo nel 1623 a Fontainebleau: «una Leda in piedi, quasi tutta ignuda, col cigno e due uova al piè della figura».

A Roma cominciò anche a lavorare a un vecchio progetto, quello degli specchi ustori che dovevano servire a convogliare i raggi del sole per riscaldare una cisterna d'acqua, utile alla propulsione delle macchine. Il progetto però incontrò diverse difficoltà soprattutto perché Leonardo non andava d'accordo con i suoi lavoranti tedeschi, specialisti in specchi, che erano stati fatti arrivare apposta dalla Germania. Contemporaneamente furono ripresi i suoi studi di anatomia, già iniziatisi a Firenze e Milano, ma questa volta le cose si complicarono: una lettera anonima, inviata probabilmente per vendetta dai due lavoranti tedeschi, l'accusò di stregoneria. In assenza della protezione di Giuliano de' Medici e di fronte a una situazione fattasi pesante, Leonardo si trovò costretto, ancora una volta, ad andarsene. Questa volta aveva deciso di lasciare l'Italia. Era anziano, aveva bisogno di tranquillità e di qualcuno che l'apprezzasse e l'aiutasse.

L'ultima notizia del suo periodo romano data all'agosto 1516, quando misurava le dimensioni della basilica di San Paolo fuori le mura,[96] dopodiché dovette accettare gli inviti del re di Francia.[86]
In Francia, al servizio di Francesco I (1517-1519)

Nel 1517 Leonardo partì per la Francia, dove arrivò nel mese di maggio, insieme con Francesco Melzi e col servitore Battista de Vilanis, essendo alloggiato dal re nel castello di Clos-Lucé,[86] vicino ad Amboise, e onorato del titolo di premier peintre, architecte, et mecanicien du roi, con una pensione di 5.000 scudi. Francesco I era un sovrano colto e raffinato, amante dell'arte soprattutto italiana, come dimostrò anche negli anni successivi accogliendo con onori altri artisti (Francesco Primaticcio, Rosso Fiorentino, e Benvenuto Cellini).

Gli anni passati in Francia furono sicuramente il periodo più sereno della sua vita, assistito dai due fedeli allievi e, sebbene indebolito dalla vecchiaia e da una probabile trombosi cerebrale che gli paralizzò la mano destra, poté continuare con passione e dedizione i propri studi e le ricerche scientifiche.[86]

L'alta considerazione di cui godette è dimostrata anche dalla visita ricevuta, il 10 ottobre, del cardinale d'Aragona e del suo segretario Antonio de Beatis che lasciò scritto nel suo diario di viaggio che Leonardo, colpito da una «certa paralesi ne la dextra», gli mostrò «tre quadri, uno di certa donna Fiorentina facta di naturale ad istantia del quondam mag.co Juliano de Medici, l'altro de San Joane Bap.ta giovane et uno de la Madona et del figliolo che stan posti in grembo di S.ta Anna tucti perfectissimi, et del vero che da lui per esserli venuta certa paralesi ne la dextra, non se ne può expectare più bona cosa. Ha ben facto un creato Milanese chi lavora assai bene, et benché il p.to M. Lunardo non possa colorir con quella dulceza che solea, pur serve a far disegni et insegnar ad altri. Questo gentilhomo ha composto de notomia tanto particularmente con la demonstratione de la pictura sì de membri come de muscoli, nervi, vene, giunture, d'intestini tanto di corpi de homini che de done, de modo non è stato mai facto anchora da altra persona [...] Ha anche composto la natura de l'acque, de diverse machine et altre cose, secondo ha riferito lui, infinità di volumi et tucti in lingua vulgare, quali se vengono in luce saranno proficui et molto dilectevoli».[97]

Progettò il palazzo reale di Romorantin, che Francesco I intendeva erigere per la madre Luisa di Savoia. Si trattava del progetto di una cittadina, per la quale previde lo spostamento di un fiume che l'arricchisse d'acque e fertilizzasse la vicina campagna: «El fiume di mezzo non riceva acqua torbida, ma tale acqua vada per li fossi di fori della terra, con quattro molina dell'entrata e quattro all'uscita [...] il fiume di Villafranca sia condotto a Romolontino, e il simile sia fatto del suo popolo [...] se il fiume mn [Bonne Heure], ramo del fiume Era [Loira] si manda nel fiume di Romolontino, colle sue acque torbide esso grasserà le campagne sopra le quali esso adacquerà, e renderà il paese fertile».[98]

Partecipò alle feste per il battesimo del Delfino e a quelle per le nozze di Lorenzo de' Medici duca di Urbino. Tra i lavori come curatore di feste e apparati si ricorda quello messo in scena a Lione nel 1515 e ad Argenton nel 1517, in entrambi i casi per festeggiare la presenza di Francesco I. Si trattava dell'automa del leone, che era in grado di camminare e poi fermarsi aprendosi il petto "tutto ripieno di gigli e diversi fiori, [...] che fu di tanta meraviglia a quel re".[99]

L'ultima data presente su un manoscritto di Leonardo risale al 24 giugno 1518: preso da calcoli di geometria, gli studi sono bruscamente interrotti con un "eccetera, perché la minestra si fredda"! Si tratta di una rara annotazione istintiva di vita quotidiana, che rende la dimensione umana del personaggio che, incalzato dai richiami di qualcuno, forse dalla domestica Mathurine[100] deve rompere la concentrazione per mangiare.[101]


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La morte
La tomba di Leonardo, nella cappelletta di Saint-Hubert presso il castello di Amboise

Il 23 aprile 1519 redasse il testamento davanti al notaio Guglielmo Boreau, alla presenza di cinque testimoni e dell'inseparabile Francesco Melzi: dispose di voler essere sepolto nella chiesa di San Fiorentino, con una cerimonia funebre accompagnata dai cappellani e dai frati minori, oltre che da sessanta poveri, ciascuno reggente una torcia; richiese la celebrazione di tre messe solenni, con diacono e suddiacono, e di trenta messe "basse", a San Gregorio, a Saint-Denis e nella chiesa dei francescani.[101]

A Francesco Melzi, esecutore testamentario, lasciò «li libri [...] et altri Instrumenti et Portracti circa l'arte sua et industria de Pictori», oltre alla collezione dei disegni e del guardaroba;[101] al servitore De Vilanis e al Salaì la metà per ciascuno di «uno iardino che ha fora de le mura de Milano [...] nel quale iardino il prefato Salay ha edificata et constructa una casa»; alla fantesca Maturina dei panni e due ducati; ai fratellastri fiorentini il suo patrimonio nella città toscana, cioè 400 scudi depositati in Santa Maria Nuova e un podere a Fiesole.[102]

Leonardo morì pochi giorni dopo, il 2 maggio, presso il maniero di Clos-Lucé ad Amboise. Aveva 67 anni.

Francesco I, a Saint-Germain-en-Laye dove si trovava per il battesimo del figlio, apprese la notizia della scomparsa direttamente dal Melzi e si lasciò andare a un pianto sconsolato.[101]

Trent'anni prima aveva scritto delle parole che suonano profetiche nel suo caso:

«Sì come una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire.»

(Trattato della pittura, 27 r.)
Inumazione

Il 12 agosto un registro ricorda come «fu inumato nel chiostro di questa chiesa [Saint-Florentin ad Amboise] M. Lionard de Vincy, nobile milanese e primo pittore e ingegnere e architetto del Re, meschanischien di Stato e già direttore di pittura del duca di Milano».[103] Cinquant'anni dopo, violata la tomba, le sue spoglie andarono disperse nei disordini delle lotte religiose tra cattolici e ugonotti.[86]

Nel 1874 delle ossa ritrovate e attribuite a Leonardo[104] furono poste nella cappelletta di Saint-Hubert presso il castello di Amboise.[105]
Studi, attività e interessi
Il problema della lingua

Nel Rinascimento italiano gli uomini illustri come i grandi artisti-artigiani che volevano presentarsi ai contemporanei come autori di libri e trattati, dovevano necessariamente confrontarsi con gli esponenti della cultura umanistica che giudicava le arti figurative e quelle ingegneristiche come "arti meccaniche", inferiori rispetto alle arti liberali. Da questo nasce la necessità per Leonardo d'impegnarsi in quella che Italo Calvino ha chiamato la «battaglia con la lingua»[106]: il rifornirsi cioè di un vocabolario dotto minimo[107] che egli però lascia inconcluso e tendente piuttosto a mutarsi e ad adattarsi sempre meglio ai cambiamenti della realtà. Anche in questo Leonardo è alla ricerca della perfezione: scrive e riscrive gli stessi testi cercando il massimo di esattezza e concretezza e li trasferisce da un quaderno all'altro, ma alla fine sa bene di non potersi confrontare con le competenze linguistiche degli umanisti:

«So bene che, per non essere io letterato, che alcuno prosuntuoso gli parrà ragionevolmente potermi biasimare coll'allegare io essere omo sanza lettere. Gente stolta! Non sanno questi tali ch'io potrei, sì come Mario rispose contro a' patrizi romani, io sì rispondere, dicendo: "Quelli che dall'altrui fatiche se medesimi fanno ornati, le mie a me medesimo non vogliono concedere". Or non sanno questi che le mie cose son più da esser tratte dalla esperienza, che d'altrui parola, la quale fu maestra di chi bene scrisse, e così per maestra la piglio e quella in tutti i casi allegherò.[108]»

"Omo sanza lettere" confessa di essere Leonardo, che ha scarsa conoscenza del latino e ignoranza del greco, ma «Io ho tanti vocaboli nella mia lingua materna, ch'i' m'ho piuttosto da doler del bene intendere le cose, che del mancamento delle parole, colle quali bene esprimere il concetto della mente mia»; e se il volgare ha piena capacità di esprimere ogni concetto, il problema riguarda piuttosto quello della verità di ciò che si argomenta. La parola non conta nulla senza l'esperienza, e inorgoglirsi della conoscenza letteraria significa vantarsi di cose non proprie, ma create da altri.
Lo scienziato
L'Uomo vitruviano, studio di proporzionalità di un corpo umano, Venezia, Gallerie dell'Accademia

Secondo il pensiero di Leonardo, una prima verità si trae dall'esperienza diretta della natura, dall'osservazione dei fenomeni: «molto maggiore e più degna cosa a leggere» non è allegare l'autorità di autori di libri ma allegare l'esperienza, che è la maestra di quegli autori. Coloro che argomentano citando l'autorità di altri scrittori vanno gonfi «e pomposi, vestiti e ornati, non delle loro, ma delle altrui fatiche; e le mie a me medesimo non concedano; e se me inventore disprezzeranno, quanto maggiormente loro, non inventori, ma trombetti e recitatori delle altrui opere, potranno essere biasimati».[109] Se poi costoro lo criticano sostenendo che «le mie prove esser contro all'alturità d'alquanti omini di gran riverenza appresso a' loro inesperti iudizi», è perché non considerano «le mie cose esser nate sotto la semplice e mera sperienza, la quale è maestra vera».[108]

«Io credo che invece che definire che cosa sia l'anima, che è una cosa che non si può vedere, molto meglio è studiare quelle cose che si possono conoscere con l'esperienza, poiché solo l'esperienza non falla. E laddove non si può applicare una delle scienze matematiche, non si può avere la certezza.»

(Codice Atlantico a 119 v)

Se l'esperienza fa conoscere la realtà delle cose, non dà però ancora la necessità razionale dei fenomeni, la legge che è nascosta nelle manifestazioni delle cose: «la natura è costretta dalla ragione della sua legge, che in lei infusamene vive» e «nessuno effetto è in natura sanza ragione; intendi la ragione e non ti bisogna sperienza», nel senso che una volta che si sia compresa la legge che regola quel fenomeno, non occorre più ripeterne l'osservazione; l'intima verità del fenomeno è raggiunta.

Le leggi che regolano la natura si esprimono mediante la matematica: «Nissuna umana investigazione si può dimandare vera scienza, s'essa non passa per le matematiche dimostrazioni»[110], restando fermo il principio per il quale «se tu dirai che le scienze, che principiano e finiscano nella mente, abbiano verità, questo non si concede, ma si niega, per molte ragioni; e prima, che in tali discorsi mentali non accade sperienza, senza la quale nulla dà di sé certezza».[110]

Il rifiuto della metafisica non poteva essere espresso in modo più netto. Anche la sua concezione dell'anima consegue dall'approccio naturalistico delle sue ricerche: «nelle sue [della natura] invenzioni nulla manca e nulla è superfluo; e non va con contrapesi, quando essa fa li membri atti al moto nelli corpi delli animali, ma vi mette dentro l'anima d'esso corpo contenitore, cioè l'anima della madre, che prima compone nella matrice la figura dell'uomo e al tempo debito desta l'anima che di quel debbe essere abitatore, la qual prima restava addormentata e in tutela dell'anima della madre, la qual nutrisce e vivifica per la vena umbilicale» e con prudente ironia aggiunge che «il resto della difinizione dell'anima lascio ne le menti de' frati, padri de' popoli, li quali per ispirazione sanno tutti i segreti. Lascio star le lettere incoronate [le Sacre Scritture] perché son somma verità».[111]

Tuttavia, ribadisce: «E se noi dubitiamo della certezza di ciascuna cosa che passa per i sensi, quanto maggiormente dobbiamo noi dubitare delle cose ribelli ad essi sensi, come dell'essenza di Dio e dell'anima e simili, per le quali sempre si disputa e contende. E veramente accade che sempre dove manca la ragione suppliscono le grida, la qual cosa non accade nelle cose certe».

Riconosce validità allo studio dell'alchimia, «partoritrice delle cose semplici e naturali», considerata non già un'arte magica ma «ministratrice de' semplici prodotti della natura, il quale uffizio fatto esser non può da essa natura, perché in lei non è strumenti organici, colli quali essa possa operare quel che adopera l'omo mediante le mani», ossia scienza dalla quale l'uomo, partendo dagli elementi semplici della natura, ne ricava dei composti, come un moderno chimico; l'alchimista non può però creare alcun elemento semplice, come testimoniano gli antichi alchimisti, che mai «s'abbatero a creare la minima cosa che crear si possa da essa natura» e sarebbero stati meritevoli dei massimi elogi se «non fussino stati inventori di cose nocive, come veneni e altre simili ruine di vita e di mente».

È invece aspramente censore della magia, la «negromanzia, stendardo ovver bandiera volante mossa dal vento, guidatrice della stolta moltitudine». I negromanti «hanno empiuti i libri, affermando che l'incanti e spiriti adoperino e sanza lingua parlino, e sanza strumenti organici, sanza i quali parlar non si po', parlino e portino gravissimi pesi, faccino tempestare e piovere, e che li omini si convertano in gatte, lupi e bestie, benché in bestia prima entran quelli che tal cosa affermano».[112]

Leonardo è conosciuto soprattutto per i suoi dipinti, per i suoi studi sul volo, probabilmente molto meno per le numerose altre cose in cui è stato invece un vero precursore, come ad esempio nel campo della geologia. È stato tra i primi, infatti, a capire che cos'erano i fossili, e perché si trovavano fossili marini in cima alle montagne. Contrariamente a quanto si riteneva fino a quel tempo, cioè che si trattasse della prova del diluvio universale, l'evento biblico che avrebbe sommerso tutta la terra, Leonardo immaginò la circolazione delle masse d'acqua sulla terra, alla stregua della circolazione sanguigna, con un lento ma continuo ricambio, arrivando quindi alla conclusione che i luoghi in cui affioravano i fossili, un tempo dovevano essere stati dei fondali marini. Anche se con ragionamenti molto originali, la conclusione di Leonardo era sorprendentemente esatta.

Il contributo di Leonardo a quasi tutte le discipline scientifiche fu decisivo: anche in astronomia ebbe intuizioni fondamentali, come sul calore del Sole, sullo scintillio delle stelle, sulla Terra, sulla Luna, sulla centralità del Sole, che ancora per tanti anni avrebbe suscitato contrasti e opposizioni. Ma nei suoi scritti si trovano anche esempi che mostrano la sua capacità di rendere in modo folgorante dei concetti difficili; a quel tempo si era ben lontani dall'aver formulato le leggi di gravitazione, ma Leonardo già paragonava i pianeti a calamite che si attraggono vicendevolmente, spiegando così molto bene il concetto di attrazione gravitazionale. In un altro suo scritto, sempre su questo argomento, fece ricorso a un'immagine veramente suggestiva; dice Leonardo: immaginiamo di fare un buco nella terra, un buco che l'attraversi da parte a parte passando per il centro, una specie di "pozzo senza fine"; se si lancia un sasso in questo pozzo, il sasso oltrepasserebbe il centro della terra, continuando per la sua strada risalendo dall'altra parte, poi tornerebbe indietro e dopo aver superato nuovamente il centro, risalirebbe da questa parte. Questo avanti e indietro durerebbe per molti anni, prima che il sasso si fermi definitivamente al centro della Terra. Se questo spazio fosse vuoto, cioè totalmente privo d'aria, si tratterebbe, in teoria, di un possibile, apparente, modello di moto perpetuo, la cui possibilità, del resto, Leonardo nega, scrivendo che «nessuna cosa insensibile si moverà per sé, onde, movendosi, fia mossa da disequale peso; e cessato il desiderio del primo motore, subito cesserà il secondo».[113]

Anche nella botanica Leonardo compì importanti osservazioni: per primo si accorse che le foglie sono disposte sui rami non casualmente, ma secondo leggi matematiche (formulate solo tre secoli più tardi); è una crescita infatti, quella delle foglie, che evita la sovrapposizione per usufruire della maggiore quantità di luce. Scoprì che gli anelli concentrici nei tronchi indicano l'età della pianta, osservazione confermata da Marcello Malpighi più di un secolo dopo.

Osservò anche l'eccentricità nel diametro dei tronchi, dovuta al maggior accrescimento della parte in ombra. Soprattutto scoprì per primo il fenomeno della risalita dell'acqua dalle radici ai tronchi per capillarità, anticipando il concetto di linfa ascendente e discendente. A tutto questo si aggiunse un esperimento che anticipava di molti secoli le colture idroponiche: avendo studiato idraulica, Leonardo sapeva che per far salire l'acqua bisognava compiere un lavoro; quindi nelle piante, in cui l'acqua risale attraverso le radici, doveva compiersi una sorta di lavoro. Per comprendere il fenomeno tolse la terra, mettendo la pianta direttamente in acqua, e osservò che la pianta riusciva ancora a crescere, anche se più lentamente.

Si può trarre un conclusivo giudizio sulla posizione che spetta a Leonardo nella storia della scienza citando Sebastiano Timpanaro:[114] «Leonardo da Vinci attinge dai Greci, dagli Arabi, da Giordano Nemorario, da Biagio da Parma, da Alberto di Sassonia, da Giovanni Buridano, dai dottori di Oxford, dal precursore ignoto del Duhem, ma attinge idee più o meno discutibili. È sua e nuova la curiosità per ogni fenomeno naturale e la capacità di vedere a occhio nudo ciò che a stento si vede con l'aiuto degli strumenti. Per questo suo spirito di osservazione potente ed esclusivo, egli si differenzia dai predecessori e da Galileo Galilei. I suoi scritti sono essenzialmente non ordinati e tentando di tradurli in trattati della più pura scienza moderna, si snaturano. Leonardo (bisogna dirlo ad alta voce) non è un super-Galileo: è un grande curioso della natura, non uno scienziato-filosofo. Può darsi che qualche volta vada anche più oltre di Galileo, ma ci va con un altro spirito. Dove Galileo scriverebbe un trattato, Leonardo scrive cento aforismi o cento notazioni dal vero; mentre Galileo è tanto coerente da diventare in qualche momento conseguenziario. Leonardo guarda e nota senza preoccuparsi troppo delle teorie. Molte volte registra il fatto senza nemmeno tentare di spiegarlo». Sullo stesso piano le considerazioni di Paolo Rossi:

«la ricerca di Leonardo, che è straordinariamente ricca di balenanti intuizioni e di geniali vedute, non oltrepassa mai il piano degli esperimenti curiosi per giungere a quella sistematicità che è una delle caratteristiche fondamentali della scienza e della tecnica moderne. [...] Leonardo non ha alcun interesse a lavorare a un corpus sistematico di conoscenze e non ha la preoccupazione (che è anch’essa una dimensione fondamentale di ciò che chiamiamo tecnica e scienza) di trasmettere, spiegare e provare agli altri le proprie scoperte.[115]»
Il filosofo
Acquista cosa nella tua gioventù che ristori il danno della tua vecchiezza. E se tu intendi la vecchiezza aver per suo cibo la sapienza, adoprati in tal modo in gioventù, che a tal vecchiezza non manchi il nutrimento.[116]

Secondo Leonardo la capacità di ben descrivere e rappresentare la realtà è propria di chi pratica la pittura che è la più "filosofica" delle altre arti, perché essa tratta della realtà intesa come «campo del "visibile", nella sua interezza, in tutte le sue possibilità»[117] e, nello stesso tempo, si sgancia dalla contingenza naturale poiché, grazie alla prospettiva, non subisce le limitazioni dello spazio e del tempo, ma le signoreggia liberamente combinandole, («tutte è parti porta seco»)[118].

Il pittore quindi, può essere considerato come il signore della natura poiché egli è in grado di fissare nel tempo la bellezza della natura che il tempo corrompe: «Quante pitture han conservato il simulacro d'una divina bellezza che 'l tempo o morte in breve ha distrutto il natural essempio, et è restata più degna l'opera del pittore che della natura sua maestra!».[119] Il pittore, inoltre, è in grado di creare una visione illusoria dello spazio tale che ne vengano ingannati uomini e animali[120]. La mente del pittore è simile a quella divina «imperò che con libera potestà discorre alla generazione di diverse essenzie di varii animali, piante, frutti, paesi, campagne, ruine di monti, loghi paurosi e spaventevoli, che danno terrore alli loro risguardatori»[121].

Il pittore, quasi come un dio, può rendere eterna la bellezza e sconvolgere le emozioni e i sentimenti dei popoli: «Con questa [la pittura] si move li amanti inverso li simulacri della cosa amata a parlare con le imitate pitture; con questa si move li populi con infervorati voti a ricercare li simulacri delli iddii[122]. «Con questa [la pittura] si fa simulacri alli dii; [...] con questa si dà copia alli amanti della causa de' loro amori; con questa si riserva le bellezze, le quali il tempo e la natura fa fuggitive[123].

Il pittore può superare con un'operazione mentale l'aspetto scientifico razionale della necessità delle leggi naturali creando quell'"artifizio e meraviglia" che invece la scultura, maggiormente legata alla realtà naturale[124], non può mettere in atto.[125]

Altrettanta superiorità ha la pittura nei confronti della poesia che è costretta a servirsi del "linguaggio" mentre quella crea l'immagine, diretta emanazione della natura e realtà fissata al di fuori del tempo. La parola poetica, invece, costretta alla dimensione orale non solo è dominata dal tempo, ma può solo alludere alla realtà poiché le parole, come «opere degli omini»[126], sono per loro natura contingenti e imperfette.[127]

Del resto anche il pittore deve ricorrere all'immagine contingente se vuole dominare la natura e allora il pensiero di Leonardo oscilla tra la concezione della pittura come una «scienza semidivina»[128] e un'arte che si pone come mediatrice tra sé stessa e la natura per cui il pittore si fa «interprete infra essa natura e l'arte»[129] divenendo per un verso mediatore di una creazione che va oltre la contingenza umana e per un altro come un modesto artigiano che educa il popolo tramite l'arte.
Leonardo filosofo? Una critica crociana

Se le considerazioni di Leonardo sulla pittura possono considerarsi un contributo alla storia del pensiero, vale la pena anche riferirsi all'analisi operata da Benedetto Croce, fortemente critica del riconoscimento di una valenza filosofica attribuibile al pensiero leonardesco sia pure limitata a una sua teoria dell'arte deducibile dai suoi trattati sulla pittura.

La negazione di una filosofia leonardesca origina in Croce dalla sua polemica nei confronti del positivismo. Croce, infatti, confessa che la sua critica, esposta nel saggio Leonardo filosofo[130], aveva come oggetto primario lo scientismo positivista del suo tempo esaltante la presunta filosofia naturalista di Leonardo: «Perché quelle conferenze erano, nel loro complesso, manifestazione dell'odierna moda del culto leonardesco, io volli reagire nel trattare il tema a me assegnato e fare alquanto l'avvocato del diavolo. Dico ciò, perché s'intenda l'intonazione del mio discorso.[131]

Croce chiarisce che occorre riconoscere tuttavia al naturalismo il merito di aver sottratto alla filosofia certi temi che non le competevano aprendo alla speculazione propriamente filosofica argomenti riguardanti il mondo e l'esperienza prima tralasciati. In questo senso «Leonardo […] deve essere per ciò stesso allogato tra i promotori per indiretto della filosofia moderna; e potrà anche essere chiamato, se così piace, per metonimia, filosofo».[132] Quindi Leonardo solo metaforicamente può essere chiamato filosofo nel senso di un «sottile e rigoroso e infaticabile investigatore dei fatti della natura» ma la filosofia non è riducibile all'oggetto della sua riflessione quanto piuttosto essa deve essere concepita come un percorso, una «tradizione spirituale che, dal gran pensiero ellenico, attraverso il neoplatonismo e il cristianesimo e le controversie della scolastica, si annoda al Cusano e al Bruno, a Cartesio e allo Spinoza, e procede via via fino a raggiungere Kant e l'idealismo del secolo decimonono»[133] Leonardo compie un percorso solitario, estraneo a quel cammino spirituale: egli «è tutto vòlto a osservare e calcolare: verso l'osservazione e il calcolo effonde ogni suo entusiasmo».[134]

Leonardo anticipa la visione galileiana del "gran libro della natura scritto in caratteri matematici"[135] poiché «nissuna umana investigazione si po' dimandare vera scienzia, s'essa non passa per le matematiche dimostrazioni»[136] ma non crede alle scienze elaborate solo mentalmente poiché «in tali discorsi mentali non accade esperienzia, senza la quale nulla dà di sé certezza».[137] È impossibile quindi per Leonardo trattare problemi spirituali poiché essi non possono essere trascritti matematicamente: «E così piacessi al nostro altore [autore] che io potessi dimostrare la natura delli omini e loro costumi nel modo che io descrivo la sua figura».[138] Quindi egli, sfidando il divieto di sezionare privatamente i cadaveri, compirà studi accurati di anatomia sperando di scoprire le segrete parti spirituali della perfetta macchina umana, ma se ne ritrarrà alla fine deluso.

Giovanni Gentile concorda con la critica crociana sostenendo che

«Leonardo, artista e scienziato (naturalista e matematico), è filosofo dentro alla sua arte e alla sua scienza: voglio dire che si comporta da artista e da scienziato di fronte al contenuto filosofico del proprio pensiero, che non svolge perciò in adeguata e congrua forma filosofica, ma intuisce con la genialità dell’artista e afferma con la dommaticità dello scienziato. La sua filosofia, in questo senso, non è un sistema, ma l’atteggiamento del suo spirito[139]»

In tempi più recenti anche il filosofo e storico della filosofia Eugenio Garin esprime l'impossibilità di definire Leonardo come filosofo: «Allo storico e al critico che facciano il mestiere loro, e non vogliano trovar solamente occasioni di sonante oratoria, non pochi dei testi anche celebri di Leonardo appariranno alla fine piuttosto appunti buttati giù tra frettolose letture che conclusioni sottilmente ragionate; e rispetto alla validità del contenuto scientifico non di rado confusi e contraddittori. [...] Ma lo storico delle idee non potrà non sentire talora smarrimento e sconforto; perché riconoscerà certamente una sete inesauribile di conoscere unita a una singolare ricchezza espressiva, un acume raro ed un'insuperabile capacità, non solo di osservazione visiva, ma di tradurre in termini visivi i vari stati d'animo. Eppure dovrà anche constatare una certa incapacità di ordinate sintesi razionali non meno che di ben disposti procedimenti sperimentali»[140].




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Leonardo e la paleontologia

Alcuni studiosi recentemente hanno attribuito a Leonardo da Vinci il ruolo di padre fondatore della paleontologia, per avere interpretato correttamente la natura dei due principali gruppi di fossili: i resti fossili di organismi (ad esempio le conchiglie fossilizzate) e gli icnofossili, ovverosia le tracce lasciate dagli organismi mentre interagivano con il substrato[141]. Leonardo studiò infatti le conchiglie (nichi) e i coralli 'pietrificati' provenienti dai depositi sedimentari dell'Appennino; anche molti contemporanei di da Vinci conoscevano simili fossili, interpretandoli spesso come curiosità inorganiche della roccia.

Tuttavia, Leonardo da Vinci osservò le tracce (icnofossili) lasciate da antichi organismi perforanti:

«Vedesi in nelle montagnie di Parma e Piacentia le moltitudini di nichi e coralli intarlati, ancora appiccicati alli sassi, de' quali quand'io facevo il gran cavallo di Milano, me ne fu portato un gran sacco nella mia fabbrica da certi villani»

(Codice di Leicester, folio 9 recto)

Conseguentemente, le conchiglie pietrificate non potevano essere curiosità inorganiche, ma resti di antichi organismi[142]. Con le parole di Leonardo:

«Ancora resta il vestigio del suo andamento sopra la scorza che lui già, a uso di tarlo sopra il legname, andò consumando [...]»

(Codice di Leicester, folio 9 verso)

Le intuizioni paleontologiche di Leonardo, prive del tutto del supporto del metodo scientifico, sono ritenute eccezionali in quanto da Vinci riuscì ad interpretare correttamente non solo le perforazioni fossili prodotte da antichi organismi nel guscio dei molluschi, ma anche le gallerie scavate nel soffice sedimento da antichi organismi marini[143].

La storia della paleontologia mostra che le gallerie di invertebrati sono i fossili più difficili da comprendere: fino ai primi anni del Novecento erano generalmente interpretati come resti fossili di alghe, tanto da essere denominati fucoidi. Quasi cinquecento anni prima, Leonardo aveva intuito che quelle strutture sugli strati (falde) erano icnofossili prodotti da organismi vermiformi nel soffice fondale marino, poi divenuto roccia[141]:

«Come nelle falde, infra l'una e l'altra si trovano ancora gli andamenti delli lombrici, che caminavano infra esse quando non erano ancora asciutte»

(Codice di Leicester, folio 10 verso)
Gli studi di anatomia
Anatomia femminile, Windsor, Raccolte Reali

Fra le molte discipline alle quali Leonardo da Vinci dedicò la sua attenzione, un posto privilegiato è senza dubbio occupato dall'Anatomia umana. L'insaziabile desiderio di conoscere, di capire tutto ciò che vedeva, portava Leonardo a esplorare ogni cosa. Anche il corpo umano l'affascinava, quale macchina perfetta e ben più complicata delle macchine fatte di ingranaggi. Leonardo voleva capire cosa c'era dentro, come funzionava e cosa succedeva quando si fermava definitivamente con la morte. Tutti gli organismi viventi, vegetali o animali, si offrirono allo studioso quale oggetto di indagine scientifica. Ma «quella cosa che contiene in sé più universalità e varietà di cose, quella sarà detta di più eccellenza»[144]: questa cosa è senza dubbio l'uomo, secondo la visione dello studioso. Per questo, prima a Milano, alla fine del Quattrocento, e poi a Firenze, agli inizi del Cinquecento, era solito recarsi in segreto negli obitori e, utilizzando forbici e bisturi, sezionava cadaveri (almeno trenta, secondo quanto riportano i suoi contemporanei)[145]. La pratica della pittura gli aveva fatto sentire il bisogno prepotente di conoscere l'uomo nelle sue più intime fibre, non solo nel suo aspetto esteriore, ma fin nelle più piccole particolarità. «La Pittura s'estende nelle superfizie, colori e figure di qualunque cosa creata dalla natura, e la Filosofia penetra dentro alli medesimi corpi, considerando in quelli per le lor proprie virtù...», scrisse il da Vinci. "Pittura e Filosofia costituiscono dunque la conoscenza dell'obietto, la prima quanto alla superficie, luce, colori e forma, la seconda perché ne rivela l'intima struttura e funzione"[146]. Nei suoi disegni mostra anche gli strumenti allora usati dai chirurghi, seghe e divaricatori. L'anatomia era ai primordi, le idee sul corpo umano erano molto confuse. Egli può a buon diritto essere considerato il fondatore di tale scienza, unitamente almeno con il belga Andrea Vesalio (1514 – 1564), la cui opera De humani corporis fabrica doveva apparire nel 1543.

È noto l'appunto su una di queste sue esperienze fiorentine: «questo vecchio, di poche ore innanzi la sua morte, mi disse lui passare i cento anni, e che non si sentiva alcun mancamento ne la persona, altro che debolezza; e così standosi a sedere sopra uno letto nello Spedale di Santa Maria Nova di Firenze, sanza altro movimento o seguito d'alcuno accidente, passò di questa vita. E io ne feci notomia, per vedere la causa di sì dolce morte».[147]

Leonardo studiò anatomia in tre distinti periodi: a Milano, tra il 1480 e il 1490, se ne occupò, interessandosi in particolare dei muscoli e delle ossa, in funzione della propria attività artistica; successivamente a Firenze, tra il 1502 e il 1507, si applicò in particolare della meccanica del corpo, e infine, dal 1508 al 1513, a Milano e a Roma, s'interessò allo studio degli organi interni e della circolazione del sangue.
Movimento del braccio

Leonardo fu il primo a rappresentare l'interno del corpo umano con una serie di disegni; si trattava anche di un modo del tutto nuovo per "guardare dentro" il corpo, rompendo tra l'altro antichi tabù. Sono centinaia i disegni conservati oggi al castello di Windsor e di proprietà della regina d'Inghilterra, che visualizzano quello che prima era soltanto descritto a parole e in modo poco chiaro. Scrisse Leonardo: «Con quali lettere descriverai questo core, che tu non empia un libro, e quanto più lungamente scriverai alla minuta, tanto più confonderai la mente dello uditore, e sempre avrai bisogno di sponitori o di ritornare alla sperienzia, la quale in voi è brevissima e dà notizie di poche cose rispetto al tutto del subbietto di che desideri integrar notizia».[148]

Leonardo inventò l'illustrazione anatomica; inventò anche un modo di illustrare che ancora oggi viene usato dai moderni disegnatori, la cosiddetta "immagine esplosa": un esempio si ha guardando come Leonardo rappresentava una testa sezionata, disegnando il cranio e il cervello in sequenza in modo da mostrare come entrano l'uno dentro l'altro. Studiò le ossa, i muscoli, le arterie, le vene, i capillari; riuscì a capire le alterazioni senili e persino a intuire l'arteriosclerosi. Gli sfuggì invece il ruolo del cuore, studiato a Roma fino al 1513: «Tutte le vene e arterie nascano dal core, e la ragione è che la maggiore grossezza che si trovi in esse vene e arterie è nella congiunzione che esse hanno col core, e quanto più se removano dal core, più si assottigliano e si dividano in più minute ramificazioni»[149] e questa convinzione gli deriva dall'analogia con le piante, le quali hanno le radici nella loro parte inferiore ingrossata: «è manifesto che tutta la pianta ha origine da tale grossezza, e per conseguenza le vene hanno origine dal core, dov'è la lor maggior grossezza».[150]

In Leonardo tuttavia lo studio dell'anatomia non fu mai disgiunto da quello della fisiologia, in quanto la nozione strutturale si completava necessariamente con quella funzionale. Egli fu il primo a proporre di distinguere tra funzione, forma e struttura di un organo[146]. Ciò nonostante i suoi studi di botanica lo sviarono, facendogli ritenere che la circolazione sanguigna funzionasse come la linfa delle piante, con una linfa ascendente e una discendente. Del cuore aveva bensì individuato la natura di muscolo: «il core è un muscolo principale di forza, ed è potentissimo sopra li altri muscoli»,[151] ma anche come equivalente di una stufa per dare calore al corpo: «Il caldo si genera per il moto del core; e questo si manifesta perché, quando il cor più veloce si move, il caldo più multiplica, come c'insegna il polso de' febbricitanti, mosso dal battimento del core».[152]

Tra i suoi disegni anatomici, i più spettacolari e impressionanti rimangono quelli che mostrano un feto prima della nascita: erano immagini del tutto nuove per l'epoca e, certamente, sconvolgenti.

Leonardo studiò anche i meccanismi dell'occhio per capire come funziona la visione tridimensionale, dovuta alla sovrapposizione di due immagini leggermente sfalsate. Fece bollire un occhio di bue in una chiara d'uovo, in modo da poterlo sezionare e vedere ciò che si trova all'interno. Scoprì così la retina e il nervo ottico, e riportò queste osservazioni nei suoi disegni.
Le tavole anatomiche di Leonardo da Vinci

(L'elenco è tratto dal pregevole lavoro di M. del Gaizo, Della pratica della anatomia in Italia sino al 1600. Atti della Reale Accademia medico-chirurgica di Napoli, anno XLVI, nuova serie, n. II, Napoli, 1892, pp. 27–28)

DE MONDEVILLE ENRICO. Pratica della chirurgia; Parigi 1306: ms. della Biblioteca nazionale di Francia n.2030 del fondo francese.
DE KETHAN I. Fasciculus Medicinae; Venetiis 1491
PELISK I. Compendiosa capitis physica declaratio, principalium humani corporis membrorum figuras liquido ostendens; Lipsiae 1499
HUND MAGNUS. Anthropologium: Lipsiae 1501
CARPI B. Commentaria cum amplissimis additionibus super anatomiam Mundini; Bononiae 1521
BERENGARII G. Isagoge Anatomices; Bononiae 1522

L'inventore
Progetto di macchina volante

Il 25 novembre 1796 i manoscritti di Leonardo sottratti alla Biblioteca Ambrosiana giungevano a Parigi e dalla loro analisi il fisico italiano Giovanni Battista Venturi, allora in Francia, traeva un Essai sur les ouvrages physico-mathématiques de Leonard de Vinci, escludendo da questo gli studi vinciani sul volo, giudicandoli probabilmente solo una bizzarria chimerica.

Nel 1486 Leonardo aveva espresso la sua fede nella possibilità del volo umano: «potrai conoscere l'uomo colle sue congegnate e grandi alie, facendo forza contro alla resistente aria, vincendo, poterla soggiogare e levarsi sopra di lei». Dal 14 marzo al 15 aprile 1505 scrive parte di quello che doveva essere un organico Trattato delli uccelli, dal quale avrebbe voluto estrarre il segreto del volo, estendendo nel 1508 i suoi studi all'anatomia degli uccelli e alla resistenza dell'aria e, verso il 1515, vi aggiunge lo studio della caduta dei gravi e i moti dell'aria.
Modello di cannone con 33 canne esposto al Museo nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci di Milano

Chiama moto strumentale il volo umano realizzato con l'uso di una macchina: individua nel paracadute il mezzo più semplice di volo: «Se un uomo ha un padiglione di pannolino intasato, che sia di 12 braccia per faccia e alto 12, potrà gittarsi d'ogni grande altezza sanza danno di sé». Dall'analogia col peso e l'apertura alare degli uccelli cerca di stabilire l'apertura alare che la macchina dovrebbe avere e quale forza dovrebbe essere impiegata per muoverla e sostenerla.

La fede di Leonardo nel volo umano sembra essere rimasta immutata per tutta la sua vita, malgrado gli insuccessi e l'obiettiva difficoltà dell'impresa: «Piglierà il primo volo il grande uccello sopra del dosso del suo magno Cecero (il monte Ceceri, presso Firenze), empiendo l'universo di stupore, empiendo di sua fama tutte le scritture e gloria eterna al loco dove nacque». Un esperimento in tale senso si svolse veramente e fece da cavia il suo amico Tommaso Masini.

Durante la sua vita, Leonardo ideò numerose progettazioni; alcune di esse, come la macchina volante, furono veri e propri prototipi. I suoi appunti contengono numerose invenzioni in campo militare: gli scorpioni, una macchina «la quale po' trarre sassi, dardi, sagitte» che può anche distruggere la macchine nemiche; i cortaldi, cannoncini da usare contro le navi; vari tipi di cannoni tra cui il cannone con 33 canne e il circumtronito o circumfolgore ossia un cannone navale, le serpentine, adatte contro le «galee sottili, per poter offendere il nimico di lontano. Vole gittare 4 libre di piombo»; le zepate, zattere per incendiare le navi nemiche ormeggiate in porto, e progetta navi con spuntoni che rompano le carene nemiche e bombe incendiarie composte di carbone, salnitro, zolfo, pece, incenso e canfora, un fuoco che «è di tanto desiderio di brusare, che seguita il legname sin sotto l'acqua».

Un altro progetto avrebbe compreso il palombaro – vi è chi ha pensato addirittura al sottomarino – a proposito del quale scrive però di non volerlo divulgare «per le male nature delli omini, li quali userebbono li assassinementi né fondi mari col rompere i navili in fondo e sommergerli insieme colli omini che vi son dentro». Pensa all'attuale bicicletta, all'elicottero[153] (un modello del quale è stato realizzato nel parco del castello di Clos-Lucé), al deltaplano,[153] al salvagente,[154], allo scafandro, a un apparecchio a ruote dentate che è stato interpretato come il primo calcolatore meccanico, a un'automobile spinta da un meccanismo a molla e a un telaio automatico, ricostruito dal Museo nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci di Milano, che tesse 2 centimetri di tela al minuto, progettò la viola organista.



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L'ingegneria civile e l'architettura di Leonardo
Progetto di chiesa a pianta centrale, Parigi, Institut de France

Scrive il Vasari che Leonardo «nell'architettura ancora fe' molti disegni così di piante come d'altri edifizii e fu il primo ancora che, giovanetto, discorresse sopra il fiume Arno per metterlo in canale da Pisa a Fiorenza», testimonianza che, a parte che nell'occasione del progetto di deviazione dell'Arno, avvenuto nel 1503, Leonardo non era affatto "giovanetto", mostra che gli interessi di Leonardo o le richieste a lui rivolte riguardavano soprattutto progetti di idraulica o di ingegneria militare. In compenso, nella nota lettera indirizzata a Ludovico il Moro nel 1492, Leonardo vanta le sue competenze di natura militare, ma aggiunge che in tempo di pace crede di «satisfare benissimo a paragone de omni altro in architectura, in composizione di edifici pubblici e privati, et in conducer acqua de uno loco ad un altro».

A Milano avrà in effetti solo il titolo di "ingegnarius", mentre nel suo secondo soggiorno fiorentino potrà fregiarsi del titolo di architetto e pittore.

È certo che per l'approfondimento delle nozioni ingegneristiche si giovasse della conoscenza personale del senese Francesco di Giorgio Martini e dei suoi scritti: possiede e postilla una copia del suo Trattato di architettura militare e civile; progetta fortificazioni con bastioni spessi e irti di angoli che possano opporsi alle artiglierie nemiche. Tali studi confluiranno poi nella realizzazione del rivellino di Locarno, tuttora esistente.

Sono noti suoi disegni sia per la cupola del Duomo di Milano sia per edifici signorili, per i quali pensa a giardini pensili e a innovative soluzioni interne, come scale doppie e quadruple e per l'interno delle case ipotizza che «col molino farò generare vento d'ogni tempo della state; farò elevare l'acqua surgitiva e fresca, la quale passerà pel mezzo delle tavole divise [...] e altra acqua correrà pel giardino, adacquando li pomeranci e cedri ai lor bisogni [...] farassi, mediante il molino, molti condotti d'acque per casa, e fonti in diversi lochi, e alcuno transito dove, chi vi passerà, per tutte le parti di sotto salterà l'acque allo insù».

Si occupa anche della ideazione di moderne scuderie, "una polita stalla", come quella realizzata a Vigevano da Ludovico il Moro[155] e immagina una città ideale, strutturata su più livelli stradali, dove al livello inferiore transitassero i carri e in quello superiore avessero agio i pedoni.

Nel 1502 Leonardo da Vinci produsse il disegno di un ponte a campata unica di 300 metri, come parte di un progetto di ingegneria civile per il sultano ottomano Bayezid II. Era previsto che un pilone del ponte sarebbe stato collocato su uno degli ingressi alla bocca del Bosforo, il Corno d'Oro, ma non fu mai costruito. Il governo turco, nei primi anni del XXI secolo, ha deciso la costruzione di un ponte che segua il progetto leonardesco.




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Le opere idrauliche
Studi di acque, circa 1508

Nel Seicento, Francesco Arconati, figlio illegittimo del nobile Galeazzo Arconati e della sua amante, Caterina Vaghi, trasse dagli scritti vinciani da questi donati alla Biblioteca Ambrosiana, un trattato che intitolò Del moto e misura dell'acqua, che tuttavia sarà pubblicato solo nel 1826.

Leonardo si dedicò a studi idraulici a partire dalla sua permanenza a Milano, già ricca di navigli, e in Lombardia, solcata da un'ampia rete di canali.

Collaborò con la Repubblica di Venezia per la sistemazione dell'assetto del fiume Brenta, per evitarne le esondazioni e renderlo navigabile, ma non si conoscono opere realizzate su suoi progetti, alcuni dei quali, particolarmente grandiosi, sono attestati dai suoi scritti: un canale che unisca Firenze con il mare, ottenuto regolando il corso dell'Arno; il prosciugamento delle Paludi Pontine, nel Lazio, che si sarebbe dovuto realizzare deviando il corso del fiume Ufente; la canalizzazione della regione francese della Sologna, con la deviazione del fiume Cher, presso Tours.

Leonardo progettò anche macchine per l'uso dell'energia idraulica, per il prosciugamento e per l'innalzamento delle acque. Secondo il suo costume, egli studia la natura dell'acqua: «infra i quattro elementi il secondo men grieve e di seconda volubilità. Questa non ha mai requie insino che si congiunge al suo marittimo elemento dove, non essendo molestata dai venti, si stabilisce e riposa con la sua superfizie equidistante al centro del mondo»,[156] la sua origine, il movimento, certe caratteristiche, come la schiuma: «l'acqua che da alto cade nell'altra acqua, rinchiude dentro a sé certa quantità d'aria, la quale mediante il colpo si sommerge con essa e con veloce moto resurge in alto, pervenendo a la lasciata superfizie vestita di sottile umidità in corpo sperico, partendosi circularmente dalla prima percussione».[157]

Osserva gli effetti ottici sulla superficie dell'acqua e trova che «il simulacro del sole si dimostrerrà più lucido nell'onde minute che nelle onde grandi» e che «il razzo del sole, passato per li sonagli [le bolle] della superfizie dell'acqua, manda al fondo d'essa acqua un simulacro d'esso sonaglio che ha forma di croce. Non ho ancora investigato la causa, ma stimo che per cagion d'altri piccoli sonagli che sien congiunti intorno a esso sonaglio maggiore».[158]

Si occupa dei fossili che si trovano sui monti e ironizza con coloro che fanno risalire la loro origine al diluvio universale: «Della stoltizia e semplicità di quelli che vogliono che tali animali fussin in tal lochi distanti dai mari portati dal diluvio. Come altra setta d'ignoranti affermano la natura o i celi averli in tali lochi creati per infrussi celesti [...] e se tu dirai che li nichi [le conchiglie] che per li confini d'Italia, lontano da li mari, in tanta altezza si vegghino alli nostri tempi, sia stato per causa del diluvio che lì li lasciò, io ti rispondo che credendo che tal diluvio superassi il più alto monte di 7 cubiti – come scrisse chi 'l misurò! – tali nichi, che sempre stanno vicini a' liti del mare, doveano stare sopra tali montagne, e non sì poco sopra la radice de' monti».[159]

È convinto che con il tempo la terra finirà con l'essere completamente sommersa dall'acqua: «Perpetui son li bassi lochi del fondo del mare, e il contrario son le cime de' monti; séguita che la terra si farà sperica e tutta coperta dall'acque, e sarà inhabitabile».[160]
La pittura
Studio per la testa di Leda, Windsor, Raccolte Reali
Lo stesso argomento in dettaglio: Trattato della pittura.

Copie di scritti di Leonardo sulla pittura circolavano già nel Cinquecento: il Vasari riferisce di un anonimo pittore milanese che gli mostrò «alcuni scritti di Lionardo, pur di caratteri scritti con la mancina a rovescio, che trattano della pittura e de' modi del disegno e del colorire»; Benvenuto Cellini possedeva scritti di Leonardo sulla prospettiva.

Grazie all'impegno di Cassiano dal Pozzo, una raccolta di manoscritti di Leonardo, redazione estremamente abbreviata di quella messa insieme dall'allievo ed erede Francesco Melzi, fu pubblicata per la prima volta a Parigi nel 1651, insieme con la traduzione francese, con incisioni tratte da disegni di Nicolas Poussin; un'altra edizione italiana del Trattato della pittura fu pubblicata a Napoli nel 1733.

La pittura, per Leonardo, è scienza, rappresentando «al senso con più verità e certezza le opere di natura», mentre «le lettere rappresentano con più verità le parole al senso», ma Leonardo aggiunge, riprendendo un concetto aristotelico, che è «più mirabile quella scienza che rappresenta le opere di natura, che quella che rappresenta [...] le opere degli uomini, com'è la poesia, e simili, che passano per la umana lingua».[110] Leonardo utilizzò la tecnica della prospettiva aerea in alcuni suoi capolavori come la Gioconda e la Vergine delle Rocce. L'artista si rifece anche agli studi dello scienziato arabo Alhazen secondo il quale da ogni minuscola particella di un oggetto ipoteticamente osservato, si staccano "scorzettine", cioè informazioni luminose che viaggiano nell'aria fino a raggiungere la nostra retina (dove le immagini si fissano capovolte).[161]

Leonardo studiò anche per primo in Europa la possibilità di proiettare immagini dal vero su un foglio dove potevano essere facilmente ricopiate, con la cosiddetta camera oscura leonardiana. Egli inoltre fu tra i pionieri dell'uso della pittura a olio in Italia, che usava essenzialmente in tecniche miste, soprattutto per i ritocchi.[162]
Tecniche pittoriche

Leonardo Da Vinci era affascinato dai colori, la cosa che lo colpiva maggiormente era l'effetto che aveva l'atmosfera sui colori dei soggetti più distanti. Una delle teorie pittoriche affinate da Leonardo Da Vinci è l"Inazzurrimento dei lontani" che consiste nell'aumentare la percentuale di ciano nei soggetti terzo piano (montagne) per dare una maggiore illusione di profondità nelle opere. Questo effetto è dato dalla sovrapposizione dei vari strati dell'atmosfera che dona una colorazione sempre più azzurrina man mano che l'occhio umano si allontana dai soggetti in primo piano. Da Vinci non fu il primo ad accorgersene, ma fu il primo a registrare calcoli e spiegare tecniche per rendere questo effetto nella pittura.

Secondo gli ultimi studi svolti dal neuroscienziato Christopher W. Tyler della City University di Londra, la profondità che caratterizza i dipinti di Leonardo sarebbe frutto di una forma intermittente di strabismo chiamata exotropia che avrebbe consentito all'artista di passare da una visione bioculare a monoculare tanto da cogliere la tridimensionalità di volti, oggetti e paesaggi.[163]
Leonardo scrittore

La prosa di Leonardo è giudicata tra le migliori del Rinascimento italiano; aliena da ogni retorica, artificio e sonorità, è tutta aderente alle cose: rifacendosi al linguaggio parlato, ha colore, robustezza, concisione, in modo da dare energia e spigliatezza all'espressione.

Per Francesco Flora,[164] Leonardo si dimostrò inventore anche nella scrittura, tanto da apparire molto più moderno rispetto tanto ai suoi predecessori che ai suoi contemporanei: «Non diremo più il Boccaccio padre della prosa italiana [...] nel suo insieme la prosa di Boccaccio tende alla sintassi lirica [...] prosa fu quella del Convivio di Dante e d'alcune cronache e trattati; ma la prosa grande, la prima prosa grande d'Italia, è da trovare negli scritti di Leonardo: la prosa più alta del primo Rinascimento, sebbene in tutto aliena dal modello umanistico e liberamente esemplata sul comune discorso».

La sua opera più importante è il Trattato della pittura, raccolta postuma curata da un allievo anonimo.
I manoscritti
Lo stesso argomento in dettaglio: Codici di Leonardo da Vinci.

Nella caratteristica scrittura speculare, svolta da destra a sinistra, tale da poter esser letta facilmente solo ponendo i fogli davanti a uno specchio, i manoscritti di Leonardo, dati in eredità a Francesco Melzi, pervennero dopo la morte di questi allo scultore Pompeo Leoni che, per commerciarli più facilmente, li suddivise in diversi gruppi, mutandone l'aspetto originario. Raccolti in gran parte nel XVII secolo dal conte milanese Galeazzo Arconati, furono donati alla Biblioteca Ambrosiana di Milano dalla quale furono trasferiti nel 1796 a Parigi, da dove tornò a Milano, dopo la caduta di Napoleone, il solo Codice Atlantico, mentre gli altri, per un errore dell'incaricato austriaco, rimasero all'Institut de France. Altri codici erano già da tempo finiti in Inghilterra.

Oggi esistono oltre 8.000 fogli di appunti (più di 16.000 pagine) con molte decine di migliaia di disegni lasciati da Leonardo, ma si ritiene che siano solo una piccola parte di ciò che ha scritto e disegnato. Alcuni pensano che abbia scritto 60.000, forse 100.000 pagine, ormai perdute. Ma forse qualcosa ancora esiste, sepolta in qualche antico archivio; nel 1966 per esempio sono stati trovati due nuovi codici a Madrid. Si tratta di pagine scritte quasi "di getto", tant'è vero che gli esperti di Leonardo dicono: "sembra di sentirlo parlare come da un registratore".
Leonardo e la musica
Il modello funzionante della clavi-viola suonato per la prima volta alla mostra Leonardo da Vinci's Workshop a New York nel 2009 e dal 2013 presso il Mondo di Leonardo di Milano[165]

Leonardo teneva in grande stima la disciplina musicale. Tra le migliaia di pagine pervenuteci i progetti di carattere musicale sono moltissimi. Non si trovano solo considerazioni di carattere matematico o i semplici rebus noti ai più, ma articolati progetti di strumenti musicali del tutto inediti. I più semplici riguardano strumenti per lo più con impiego militare: tamburi meccanici di vario tipo, trainati da animali o azionati da leve mosse da suonatori. In questi progetti semplici Leonardo cerca di automatizzare, come spesso accade, il funzionamento dello strumento rendendone elementare l'utilizzo. Il più celebre tra questi è sicuramente il tamburo meccanico disegnato sul foglio 837 del Codice Atlantico.

La Lira a forma di teschio (codice Ashburnham I, f. Cr) è un altro celebre strumento disegnato da Leonardo. Si racconta che l'avesse realizzata utilizzando un teschio e, dotatala di corde, l'abbia utilizzata presentandosi al Duca di Milano. Si tratta tuttavia di testimonianze molto deboli, che non trovano un reale riscontro. I progetti musicali di Leonardo interessanti sono altri, e in particolar modo due: la viola organista (Codice Atlantico f. 586)[166] e la clavi-viola (Codice Atlantico f. 93r).[167] Ancora oggi esistono decine di progetti di strumenti musicali estremamente complessi progettati da Leonardo e ancora mai realizzati. Entrambi gli strumenti sono estremamente complessi e dimostrano come Leonardo non solo fosse un abile ingegnere-inventore, ma anche un profondo conoscitore dell'arte musicale. Il tentativo di progettare, inventare e realizzare strumenti completamente inediti testimonia come Leonardo intendesse contribuire in maniera fondamentale, con il suo genio, a questa arte.




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La personalità di Leonardo
Lo stesso argomento in dettaglio: Vita personale di Leonardo da Vinci.
Le fattezze di Leonardo

Le fattezze di Leonardo si conoscono grazie ad un Autoritratto senile a lui attribuito, databile al 1515 circa e conservato nella Biblioteca Reale di Torino. L'opera, dalla quale derivano altri ritratti ideali, fa parte ormai dell'immaginario collettivo.

Per le fattezze di Leonardo in età giovane o matura si hanno alcune ipotesi di identificazione, in opere sue o di altri artisti, come nel giovane in piedi all'estrema destra dell'Adorazione dei Magi, nel David di Verrocchio o nella figura di Platone nella Scuola di Atene di Raffaello.

Esistono poi varie fonti che, pur senza descrivere il suo aspetto fisico in maniera precisa, parlano dei suoi modi e celebrano la sua bellezza. Ad esempio l'Anonimo Gaddiano scrisse: «[La Natura] non solo della bellezza del corpo, che molto bene gli concedette, volse dotarlo, ma di molte rare virtù volse anchora farlo maestro. [...] Era di bella persona, proportionata, gratiata et bello aspetto. portava uno pitocco rosato corto sino al ginocchio, che allora s'usavano i vestiri lunghi, haveva sino al mezo in petto una bella capellaia et anellata et ben composta».

Vasari colse invece l'aspetto docile e amorevole del suo carattere: «Egli con lo splendor dell'aria sua, che bellissima era, rasserenava ogni animo mesto, e con le parole volgeva al sì et al no ogni indurata intenzione. Egli con le forze sue riteneva ogni violenta furia. [...] Con la liberalità sua raccoglieva e pasceva ogni amico povero e ricco, pur che egli avesse ingegno e virtù. [...] Per il che ebbe veramente Fiorenza grandissimo dono nel nascere di Lionardo, e perdita più che infinita nella sua morte.»
Presunta omosessualità
Disegno erotico
Ritratto di Gian Giacomo Caprotti, detto Salaì, di anonimo, circa 1495, Vaduz, Fondazione Alois

Che Leonardo possa essere stato omosessuale è un'ipotesi che secondo alcuni studiosi[36] sarebbe avvalorata da alcuni documenti e altri indizi, a partire dalla doppia denuncia anonima del 1476 in cui era accusato di sodomia assieme ad altri quattro giovani fiorentini, tra cui due di famiglia patrizia (un Salterelli e un Tornabuoni), che si concluse con un ammonimento. Secondo altri studiosi, le accuse che portarono al giudizio erano calunniose e create al solo fine di screditare gli interessati tramite l'accusa del reato di sodomia.[168]

In ogni caso, non sono note relazioni di Leonardo con donne, non si sposò mai, non ebbe figli e lo stesso Vasari pubblicò accenni alla bellezza dei suoi discepoli.[169] Secondo alcuni è controverso il rapporto con i suoi allievi Melzi e Caprotti (detto il Salaì) molto più giovani di lui e avvenenti: forse furono semplici garzoni, ma alcuni congetturano che oltre al discepolato si fosse instaurato un legame pederastico.[36] Per quanto riguarda il comportamento sessuale di Melzi sappiamo soltanto che dopo la morte di Leonardo rientrò in patria, si sposò, ebbe otto figli e fu sempre ben considerato tra i più importanti patrizi milanesi.

Un foglio del Codice Atlantico (186v = ex 66v-b) contiene in scrittura sinistrorsa un ricordo d'infanzia di Leonardo:

«Questo scriver sì distintamente del nibio par che sia mio destino, perché ne la prima ricordatione della mia infantia e' mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venissi a me e mi aprissi la bocha cholla sua coda e molte volte mi percotessi con tal coda dentro alle labbra.»

Sigmund Freud, nel suo opuscolo Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci, pubblicato nel 1910, lo interpretò come fantasia di un atto sessuale orale, mentre il nibbio rappresenterebbe androginicamente la madre;[170] dalla curiosità sessuale infantile dell'artista deriverebbe la sua curiosità artistica e scientifica mai soddisfatta e conclusa.[36]

Da questa interpretazione data da Freud deriva, in massima parte, la teoria moderna sulla presunta omosessualità di Leonardo perché fu proprio dal saggio Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci che diversi episodi della vita di Leonardo furono rianalizzati come "prove" a favore della sua omosessualità. Tuttavia, tale interpretazione era basata su una traduzione imprecisa di Marie Herzfeld che tradusse erroneamente "nibbio" con "Geier", cioè avvoltoio. Lo stesso Freud, venuto a sapere di questo errore di traduzione, confessò il suo disappunto a Lou von Salomé perché, come ebbe a dire, considerava il proprio saggio su Leonardo come la cosa più bella che avesse mai scritto.[171] Pertanto, l'ipotesi formulata da Freud, basata su alcuni geroglifici egizi che rappresentavano la madre come "avvoltoio", non può essere applicata al racconto di Leonardo. Carlo Vecce rileva piuttosto il valore di sogno profetico di quel ricordo d'infanzia, avente un preciso significato recepito nel Somniale Danielis («Nebio vedere significa morte de toi parenti»), e considera l'appunto come strettamente legato alla morte del padre Piero avvenuta nel 1504.[172]

Un altro foglio del Codice Atlantico (816r = ex 297v-a) contiene la minuta frammentaria di una lettera di risposta a una «M(agnifi)ca d(onna) Cecilia»,[173] generalmente ritenuta Cecilia Gallerani, amante del Moro e ritratta da Leonardo nella Dama con l'ermellino. Per Luca Beltrami (1919) tale minuta fu scritta con la mano destra da Leonardo stesso e, per il lessico utilizzato, dimostra una «famigliarità» tra il pittore e la sua modella;[174][175] Raymond S. Stites (1970) ha persino ipotizzato una relazione tra i due,[176] ma entrambe le tesi sono superate dalla critica più moderna e specificamente da Carlo Vecce (2022), per il quale la lettera non è attribuibile a Leonardo, ma a un letterato suo amico.[177][178]
«Domenedio putto»

Un altro probabile increscioso episodio in cui incappò Leonardo, ancora giovanissimo allievo nella bottega del Verrocchio, fu quello a cui sembra accennare, con una certa dose di timoroso rimprovero, un oscuro appunto da lui lasciatoci:

«Quando io feci Domene Dio putto, voi mi mettesti in prigione: ora s’io lo fo grande, voi mi farete peggio[179]»

Nella officina del Verrocchio si producevano infatti dipinti e sculture di angeli-bambini che richiamavano il personaggio mitico pagano di Cupido non solo per ornare fontane di giardini o pareti di ricche abitazioni ma anche per raffigurazioni sacre come quella per «l'altare di S. Giovanni».[180]
La vergine delle rocce - Dettaglio, Gesù Bambino

L'apprendista Leonardo si era esercitato dunque non solo a modellare in creta e poi in gesso teste di donne sorridenti e di putti, già di grande valore artistico secondo il Vasari, ma anche una scultura riproducente Gesù bambino[181] come attesta Lomazzo:

«Anch’io mi trovo una testicciuola di terra di un Cristo, mentre che era fanciullo, di propria mano di Leonardo Vinci; nella quale si vede la semplicità e purità del fanciullo, accompagnata da un certo che, che dimostra sapienza, intelletto e maestà, e l’aria che pure è di fanciullo tenero, e par aver del vecchio savio; cosa veramente eccellente».[182].»

Leonardo quindi, era andato oltre le regole del Libro di pittura nella raffigurazione di Gesù bambino rappresentandolo come un infante, ma anche come un «vecchio savio». Questo lo esponeva a quelle accuse di irreligiosità per cui, come riporta il suo appunto, fu messo in prigione ma, forse, confermano anche quelle più gravi relative alle imputazioni di sodomia del 1476 poiché il Maestro forse si proponeva di usare il Salai come modello, come in effetti fece per molti dipinti e schizzi, per raffigurare Gesù adulto («grande»)[183][184].

Rimane comunque il dubbio sul significato di quell'appunto riguardo un'infrazione sofferta come scandalosa confermata da un'altra annotazione sullo stesso foglio dove Leonardo rimproverava sé stesso di non aver ancora imparato a destreggiarsi prudentemente tra le cose della vita:

«Quando io crederò imparare a vivere, e io imparerò a morire[185].»
Irreligiosità

Se l'omosessualità di Leonardo resta incerta, con tutte le possibili disquisizioni su quanto questo possa aver influito o meno sulla sua arte,[36] la sua irreligiosità e scetticismo sono indubbi, legati alle osservazioni del Vasari, per il quale «tanti furono i suoi capricci, che filosofando de le cose naturali, attese a intendere la proprietà delle erbe, continuando et osservando il moto del cielo, il corso della luna e gli andamenti del sole. Per il che fece ne l'animo un concetto sì eretico, che è non si accostava a qualsivoglia religione, stimando per avventura assai più lo esser filosofo che cristiano».

L'Aretino scrive che «vedendosi vicino alla morte, disputando de le cose cattoliche, ritornando nella via buona, si ridusse a la fede cristiana con molti pianti. Laonde confesso e contrito, se bene è non poteva reggersi in piedi, volse devotamente pigliare il Santissimo Sacramento fuor de 'l letto», morendo, sempre secondo il Vasari, poi nelle braccia del re Francesco I, ciò non poteva accadere in quanto Francesco I si trovava a Saint-Germain-en-Laye, vicino a Parigi, per il battesimo del figlio.

Molte sue note mostrano disprezzo verso gli uomini di Chiesa: sui preti che dicono messa: «Molti fien quelli che, per esercitare la loro arte, si vestiran ricchissimamente, e questo parrà esser fatto secondo l'uso de' grembiuli»;[186] sulle chiese: «Assai saranno che lasceranno li esercizi e le fatiche e povertà di vita e di roba, e andranno abitare nelle ricchezze e trionfanti edifizi, mostrando questo esser il mezzo di farsi amico a Dio»;[150] sul vendere il Paradiso: «Infinita moltitudine venderanno pubblica e pacificamente cose di grandissimo prezzo, senza licenza del padrone di quelle, e che mai non furon loro, né in lor potestà, e a questo non provvederà la giustizia umana»[150] o anche «Le invisibili monete [le promesse di vita eterna] faran trionfare molti spenditori di quelle»;[150] o sui conventi: «Quelli che saranno morti [i santi], dopo mille anni, fien quelli che daranno le spese a molti vivi [i frati]»;[187] o ironizza sui riti: «Quelli che con vestimente bianche andranno con arrogante movimento minacciando con metallo e foco [il turibolo con l'incenso] chi non faceva lor detrimento alcuno»[188] e sulla devozione delle immagini: «Parleranno li omini alli omini che non sentiranno; aran gli occhi aperti e non vedranno; parleranno a quelli e non fie lor risposto; chiederan grazie a chi arà orecchi e non ode; faran lume a chi è orbo».[189]

Non per questo però si può dire che Leonardo fosse ateo. Al contrario, nei suoi scritti più intimi parlava spesso di Dio come se vi credesse sinceramente. Ad esempio scriveva «Tu, o Iddio, ci vendi tutti li beni per prezzo di fatica… Io t'ubbidisco, Signore, prima per l'amore che ragionevolmente ti debbo, secondariamente che sai abbreviare le vite a li omini» e ancora «La fama vola e si leva al cielo, perché le cose vertudiose sono amiche di Dio.»[190] Inoltre considerava i pittori i «nipoti di Dio». Per questo è considerato da molti esperti un deista ante litteram.[191][192]




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Leonardo "esoterico"

Leonardo è sempre stato un personaggio avvolto da un certo alone di mistero, sia per la sua singolare personalità, sia per l'incredibile poliedricità dei suoi interessi, che suscitano ancora oggi curiosità.[194] Non mancano nel suo personaggio alcuni lati "oscuri", che possono suscitare incertezze e perplessità, come i metodi con cui riusciva a condurre le sue indagini anatomiche, o il suo approccio materiale e immanente, quasi agnostico, così anticipatore dei tempi.[194] A ciò va aggiunta la scrittura criptica da destra a sinistra e l'abitudine, per divertimento, di inventare frasi in codice, anagrammi e rebus.[194]

Questi e altri elementi hanno costituito un immenso serbatoio da cui attingere per rileggere la sua vicenda umana, oltre che artistica e intellettuale, secondo nuove interpretazioni, a volte veri e propri travisamenti o strumentalizzazioni che poco hanno a che fare col senso autentico della sua complessa personalità.[194] Il caso più eclatante ed emblematico resta senz'altro il romanzo Il codice da Vinci di Dan Brown, col suo clamoroso successo editoriale e mediatico in tutto il mondo.[194] In esso, tra enigmi, omicidi e un fitto intreccio di storia, esoterismo, arte e teologia, si narra di un segreto sconvolgente per la Cristianità tramandato nei secoli da una sorta di società segreta, il Priorato di Sion, ma tenuto occulto dalle gerarchie ecclesiastiche e, negli ultimi tempi, dall'Opus Dei. Tale segreto riguarderebbe la natura umana di Cristo, il suo matrimonio con Maria Maddalena (simboleggiata essa stessa dal Graal) e l'esistenza di una loro progenie. Tra fatti storici realmente avvenuti e altri di pura fantasia, si sostiene che Leonardo abbia rivestito la carica di Gran Maestro del Priorato, celando in alcune sue opere, tramite allusioni e messaggi in codice, una serie di riferimenti alla sua partecipazione attiva e al segreto.[195]

Tra le varie opere scelte da Dan Brown ci sono la Gioconda e il Cenacolo: il primo nasconderebbe un autoritratto del pittore in vesti femminili, il secondo sarebbe una rappresentazione del "segreto", con san Giovanni che andrebbe identificato come la Maddalena.[195] Nonostante le infinite polemiche generate dal libro, per le discutibili ricostruzioni storiche e documentali e per gli ingenui errori iconografici, la curiosità e l'attenzione quasi maniacale generata su quasi tutto ciò che riguarda Leonardo ha avuto tutto sommato il merito di portare sotto i riflettori il genio di Vinci, con mostre, convegni, inchieste e documentari passati su tutti i media del mondo.[195]
Leonardo e la Sacra Sindone

Secondo alcuni studiosi Leonardo sarebbe l'autore della Sindone di Torino. Per Vittoria Haziel, sarebbe stata disegnata usando un ferro arroventato su una tela antica, con un autoritratto per il volto. La tecnica, sempre secondo la Haziel, ricorda lo sfumato leonardesco.[196] La Haziel ha anche pubblicato, nel 1998, un libro al riguardo, La Passione Secondo Leonardo.[197] Anche un'artista americana, Lillian Schwartz, sostiene che la Sindone sia un autoritratto di Leonardo.[198] La Schwartz ha usato delle immagini computerizzate per sostenere la somiglianza della Sindone con gli autoritratti di Leonardo. La Schwartz è la pittrice che negli anni ottanta sostenne essere anche la Gioconda un autoritratto di Leonardo. Tuttavia, secondo John Jackson, direttore di un centro studi sulla Sacra Sindone negli Stati Uniti, l'ipotesi del falso di Leonardo sarebbe infondata: egli sostiene infatti che esiste un medaglione commemorativo, risalente alla metà del XIV secolo e conservato al Museo di Cluny, per cui la prima notizia sulla Sindone precederebbe di circa 100 anni la nascita di Leonardo.[199]
Mancinismo

Si sostiene anche che Leonardo da Vinci fosse probabilmente nato mancino e che, secondo i pregiudizi della sua epoca sull'uso della mano sinistra, fu corretto. L'utilizzo della mano sinistra non era visto di buon occhio, anzi: la mano sinistra era considerata la "mano del diavolo", e i mancini erano giudicati come degli "invertiti" e dei "rovesciati". I bambini erano costretti, anche con punizioni corporali, a scrivere con la mano destra[200]. Ma già Luca Beltrami, in seguito all'analisi di molte scritte destrorse contenute nel Codice Atlantico e in precedenza considerate altrui in base alla convinzione che Leonardo fosse mancino, lo ritenne invece ambidestro.[201] Recenti studi condotti dalla storica dell'arte Cecilia Frosinini hanno confermato che Leonardo fosse ambidestro e che scrivesse preferibilmente con la mano sinistra, ma anche con la destra:[202]

«Leonardo da Vinci era ambidestro e la conferma, definitiva, arriva dall'analisi su quello che da molti è considerato il primo disegno dell'artista, datato 5 agosto 1473. Il dipinto, un paesaggio di proprietà delle Gallerie degli Uffizi, inventariato con il numero 8 P, è stato passato al setaccio dall'Opificio delle pietre dure di Firenze […]. Sul dipinto ci sono due scritte, una sul davanti e una sul retro, […] entrambe per certo autografe e tracciate con lo stesso inchiostro, […] e da qui è arrivata la conferma che l'artista poteva scrivere con entrambe le mani: la scritta sul davanti fu tracciata appunto 'a specchio', presumibilmente con la sinistra, mentre quella sul retro fu tracciata verosimilmente con la destra.[203]»
La biblioteca di Leonardo
Lo stesso argomento in dettaglio: La biblioteca di Leonardo.

Secondo le stime degli studiosi alla morte di Leonardo la sua biblioteca comprendeva oltre centocinquanta volumi. Nonostante la progressiva dispersione dei libri (già cominciata in seguito al trasferimento di Francesco Melzi, a cui il Maestro aveva donato la biblioteca, da Amboise a Vaprio d'Adda nell'agosto 1519 e proseguita dopo che gli eredi del Melzi vendettero tutto il patrimonio lasciatogli dal padre) è possibile tracciare la fisionomia della biblioteca vinciana sulla base degli indizi che l'autore stesso ha lasciato nei propri manoscritti; i copiosi riferimenti riscontrabili negli appunti del Maestro testimoniano, infatti, un dialogo fitto e costante coi libri e, più in generale, con la cultura antica, medievale e coeva. A causa dei suoi numerosi spostamenti Leonardo stilò, inoltre, dei veri e propri inventari dei volumi da lui posseduti. Tali elenchi sono oggi conservati in tre manoscritti: il primo, risalente alla fine degli anni ottanta del '400, è contenuto nel Codice Trivulziano (carta 2 recto); il secondo, del 1495, è contenuto all'interno del Codice Atlantico (carta 559 recto); il terzo, della fine del 1503, lo si trova all'interno del Codice di Madrid (carte 2 verso e 3 recto).
Altri aspetti

Il Vasari riferisce della sua generosità, della sua grandezza d'animo e del suo orgoglio: «andando al banco per la provvisione ch'ogni mese da Pier Soderini soleva pigliare, il cassiere gli volse dare certi cartocci di quattrini, ed egli non li volse pigliare, rispondendogli: "Io non sono dipintore da quattrini"»; della piacevolezza della sua conversazione e del suo amore per gli animali: «spesso passando dai luoghi dove si vendevano uccelli, di sua mano cavandogli di gabbia, e pagatogli a chi li vendeva il prezzo che n'era chiesto, li lasciava in aria a volo, restituendogli la perduta libertà». E questa sua compassione e tenerezza nei confronti degli animali si lega alla notizia, riferita da Andrea Corsali, sul fatto che Leonardo fosse vegetariano.[204]

Dai suoi scritti traspare, però, l'immagine di un uomo molto meno socievole di quello che l'agiografia vasariana voglia imporre: «se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo, e se sarai accompagnato da un solo compagno, sarai mezzo tuo, e tanto meno quanto sarà maggiore la indiscrezione della sua pratica. E se sarai con più, cadrai di più in simile inconveniente» e altrove scrive ancora che «salvatico è quel che si salva» e in tante parti dei suoi manoscritti appare la sfiducia e il pessimismo nei confronti della "umana spezie". Le sue ricerche e i suoi lavori erano infatti preferibilmente espletati in solitudine, come ricorda la vivace descrizione del maestro all'opera al Cenacolo di Matteo Bandello nella sua novella LVIII.[205] Non era solito seguire regole rigide o abitudini prefissate, preferendo assecondare l'estro e l'ispirazione del momento.[82] La sua ricerca quasi maniacale della perfezione, con infiniti ritocchi e modifiche (come avvenne per la Gioconda) derivano dalla sua convinzione per cui la pittura, a differenza della musica, è destinata a restare e non a esaurirsi nella singola esibizione: «la pittura non muore immediate dopo la sua creazione come fa la musica, ma lungo tempo darà testimonianza dell'ignoranza tua [...] ma se studierai [...] tu lascerai opere che ti daranno più onore che la pecunia».[206]

Ben presto però Leonardo si renderà conto che quella sua ansia di perfezione lo porterà alla sconfitta e al fallimento che egli non vorrà mai accettare studiando e "inventando" nuovi metodi di pittura e colori come quelli usati per la Battaglia di Anghiari, quando il dipinto non si asciugava e i colori si liquefacevano per il calore dei grandi bracieri usati allo scopo o per il "nuovo" sistema per la pittura affresco, che permettesse le correzioni successive dell'artista, sperimentato con l'Ultima cena, l'opera che appena finita cominciò a creparsi.[207]

Considerato per la vastità dei suoi interessi la massima e irripetibile manifestazione del Rinascimento, Leonardo, non legato a nessuna città, Stato o principe, è un esempio del cosmopolitismo degli intellettuali italiani.




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La fortuna critica del pittore

La fortuna critica del pittore è stata immediata e non ha mai subito oscuramenti. Già per il Vasari[208] «volle la natura tanto favorirlo, che dovunque è rivolse il pensiero, il cervello e l'animo, mostrò tanta divinità nelle cose sue che nel dare la perfezione di prontezza, divinità, bontade, vaghezza e grazia nessun altro mai gli fu pari». Non a caso lo storico aretino gli ascrisse l'avvio della "Maniera moderna", ponendolo all'inizio della terza parte delle Vite. Per il Lomazzo «Leonardo nel dar il lume mostra che habbi temuto sempre di non darlo troppo chiaro, per riservarlo a miglior loco et ha cercato di far molto intenso lo scuro, per ritrovar li suoi estremi. Onde con tal arte ha conseguito nelle facce e corpi, che ha fatto veramente miracoli, tutto quello che può far la natura. Et in questa parte è stato superiore a tutti, tal che in una parola possiam dire che 'l lume di Leonardo sia divino».[209]
L'ultima cena (particolare)

Per Goethe,[210] «Leonardo si rivela grande soprattutto come pittore. Regolarmente e perfettamente formato, appariva, nei confronti della comune umanità, un esemplare ideale di essa. Come la chiarezza e la perspicacia dell'occhio si riferiscono più propriamente all'intelletto, così la chiarezza e l'intelligenza erano proprie dell'artista. Non si abbandonò mai all'ultimo impulso del proprio originario impareggiabile talento e, frenando ogni slancio spontaneo e casuale, volle che ogni proprio tratto fosse meditato e rimeditato».

Per il pittore Delacroix,[211] Leonardo «giunge senza errori, senza debolezze, senza esagerazioni e quasi di un balzo a quel naturalismo giudizioso e sapiente, lontano del pari dall'imitazione servile e da un ideale vuoto e chimerico. Cosa strana! Il più metodico degli uomini, colui che fra i maestri del suo tempo si è maggiormente occupato dei metodi di esecuzione, che li ha insegnati con tanta precisione che le opere dei suoi migliori allievi sono sempre confuse con le sue, quest'uomo, la cui maniera è così tipica, non ha retorica. Sempre attento alla natura, consultandola senza tregua, non imita mai sé stesso; il più dotto dei maestri è anche il più ingenuo e nessuno dei suoi emuli, Michelangelo e Raffaello, merita quanto lui tale elogio».

Scrive Hippolyte Taine[212] che «non c'è forse al mondo un esempio di genio così universale, inventivo, incapace di contentarsi, avido di infinito e naturalmente raffinato, proteso in avanti, al di là del suo secolo e di quelli successivi. Le sue figure esprimono una sensibilità e uno spirito incredibili; traboccano di idee e di sensazioni inespresse. Vicino a esse, i personaggi di Michelangelo non sono che atleti eroici; le vergini di Raffaello non sono che placide fanciulle, la cui anima addormentata non ha vissuto. Le sue sentono e pensano con ogni tratto del viso e della fisionomia; ci vuole un certo tempo per stabilire un dialogo con loro: non che il sentimento che esse esprimono sia troppo poco definito; al contrario, esso scaturisce dall'intero aspetto, ma è troppo sottile, troppo complicato, troppo al fuori e al di là del comune, impenetrabile e inesplicabile. L'immobilità e il silenzio di esse lasciano indovinare due o tre pensieri sovrapposti, e altri ancora, celati dietro quello più lontano; s'intravede confusamente questo mondo intimo e segreto, come una delicata vegetazione sconosciuta sotto la profondità di un'acqua trasparente».

Per il Wölfflin,[213] «è il primo artista che abbia studiato sistematicamente le proporzioni nel corpo degli uomini e degli animali e si sia reso conto dei rapporti meccanici, nell'andare, nel salire, nel sollevare pesi e nel portare oggetti; ma anche quello che ha scoperto le più lontane caratteristiche fisionomiche, meditando coordinatamente sopra l'espressione dei moti dell'animo. Il pittore è per lui il chiaro occhio del mondo, che domina tutte le cose visibili».
La Vergine delle rocce

Per Octave Sirén[214] Leonardo «fu fiorentino fino al midollo, benché più sagace, più duttile, più intelligente dei suoi predecessori. Più tardi s'interessò ai problemi pittorici via via che andava approfondendo quelli scientifici; dal che deriva la presenza, nella sua arte, di tendenze nuove e di tratti sconosciuti ai suoi contemporanei. Il passaggio dai dettagli precisi, dai contorni netti, alle gradazioni del chiaroscuro, alla corposità dello sfumato, riassume una tendenza generale nella pittura del Rinascimento; ma ciò che attorno a Leonardo non si attuò prima di due o tre generazioni, in lui divenne maturo nello spazio di venti o trent'anni».

Per Emilio Cecchi, «da lui ebbe origine una pittura d'intensità insuperata, dove il rude chiaroscuro e luminismo di Masaccio è genialmente dedotto in una quantità di espressione plastica che, se ancora una volta dobbiamo richiamarci al ricordo della Grecia, non si può confrontare che alla grazia misteriosa e sublime della scultura prassitelica».[215]

Per André Chastel,[216] premessa la precarietà e l'ambiguità della stessa vita umana, il «senso di una posizione ambigua dell'uomo tra l'orribile e lo squisito, fra il certo e l'illusorio, si è accentuato in Leonardo con gli anni: c'è nella sua opera pittorica uno sviluppo parallelo del chiaroscuro. Il principio di esso era anzitutto l'interesse del contrasto che valorizza i termini opposti [...] egli si è dunque compiaciuto di far scivolare insensibilmente le dolci luci nelle ombre deliziose, risolvendo in questo modo il conflitto fra disegno e modellato [...] Dichiarando che, come Giotto e Masaccio, si deve essere unicamente figli della natura, egli intende affermare che tutti i problemi della pittura, a tutti i gradi, devono essere ripensati integralmente. Lo sfumato risolve le difficoltà del disegno e ottiene l'unità delle forme entro lo spazio avvolgendole nell'atmosfera».

Per l'Argan,[217] infine, in Leonardo «tutto è immanenza. L'esperienza della realtà deve essere diretta, non pregiudicata da alcuna certezza a priori: non l'autorità del dogma e delle scritture, non la logica dei sistemi filosofici, non la perfezione degli antichi. Ma la realtà è immensa, possiamo coglierla solo nei fenomeni particolari [...] e il fenomeno vale quando, nel particolare, manifesta la totalità del reale». Se nell'arte di Michelangelo predomina il sentimento morale, per cui dalla natura occorre riscattare la nostra esistenza spirituale con la quale siamo legati a Dio, in Leonardo predomina il sentimento della natura, «quello per cui sentiamo il ritmo della nostra vita pulsare all'unisono con quello del cosmo».
Elenco delle opere
Lo stesso argomento in dettaglio: Dipinti di Leonardo da Vinci.

Non vi è certezza sull'attribuzione di tutti i dipinti di Leonardo. Su una quindicina di essi l'attribuzione è pressoché universale, altri sono semplicemente stati realizzati a più mani (specie le prime opere di Leonardo, nel periodo in cui lavorava "a bottega" dal Verrocchio). Di altre, fino ad ora attribuite ad altri artisti, recentemente gli studiosi propendono per l'attribuzione al maestro. L'elenco di alcuni disegni nella lista delle opere è puramente indicativo e incompleto: si basa sulla selezione di Milena Magnano.
Gioventù a Firenze

Madonna Dreyfus (Madonna della melagrana), 1469-1470, olio su tavola, 15,7×12,8 cm, Washington, National Gallery of Art (attribuita anche a Lorenzo di Credi o opera di collaborazione)
Tobiolo e l'angelo, 1470-1475 circa, tempera su tavola, 84×66 cm, Londra, National Gallery (opera di Andrea del Verrocchio con alcune parti attribuite a Leonardo)
Studio di manica per l'Annunciazione, 1470-1473, disegno a sanguigna su carta, 8,5×9,5 cm, Oxford, Christ Church Picture Gallery
Testa di donna, 1470-1476, disegno a penna, inchiostro e pigmento bianco su carta, 28,2×19,9 cm, Firenze, Gabinetto dei disegni e delle stampe
Studio di drappeggio per una figura seduta, 1470-1484 circa, pennello e tempera grigia su tela grigia, 26,6×23,3 cm, Parigi, Cabinet des Dessins
Annunciazione, 1472-1475 circa, tempera e olio su tavola, 98×217 cm, Firenze, Galleria degli Uffizi
Paesaggio con fiume, 1473, disegno su carta, 19×28,5 cm, Firenze, Gabinetto dei disegni e delle stampe
Madonna del Garofano, 1473 circa, olio su tavola, 62×47,5 cm, Monaco di Baviera, Alte Pinakothek (attribuzione recente, ma "storicamente" assegnata dal Verrocchio)
Studio di mani, 1474 circa, punta d'argento e lumeggiature di biacca su carta preparata in tinta rosa, 21,4×15 cm, Windsor, Royal Library
Ritratto di Ginevra de' Benci, 1474 circa, olio e tempera su tavola, 38,8×36,7 cm, Washington, National Gallery of Art
Profilo di capitano antico, 1475 circa, punta d'argento su carta preparata, 28,5×20,7 cm, Londra, British Museum
Battesimo di Cristo, 1475-1478, olio e tempera su tavola, 177×151 cm, Firenze, Galleria degli Uffizi, (collaborazione col Verrocchio e altri)
Annunciazione, 1475-1478 circa, tempera su tavola, 16×60 cm, Parigi, Museo del Louvre (attribuzione contesa con Lorenzo di Credi)
Corpo di Bernardo Baroncelli impiccato, 1478, disegno, Bayonne, Musée Bonnat
Studio, 1478-1480, disegno a penna e inchiostro su carta, Londra, British Museum
Studio per Madonna con ciotola di frutta, 1478 circa, disegno a punta d'argento, penna e inchiostro su carta, 35,8×25,2 cm (facsimile), Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe
Madonna Benois, 1478-1482, olio su tavola trasportato su tela, 48×31 cm, San Pietroburgo, Ermitage
Martirio di san Sebastiano, 1478-1483, disegno a penna e inchiostro su carta (19,3 × 13 cm), Francia, privato
San Girolamo, 1480 circa, olio su tavola, 103×75 cm, Città del Vaticano, Pinacoteca vaticana
Lorenzo de' Medici, 1480 circa, disegno a penna e inchiostro su carta, 7,3×4,9 cm, Castello di Windsor, Royal Library
Studi di dispositivi di difesa, 1480 circa, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Studi di strumenti idraulici, 1480 circa, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Studio di fiori, 1480-1481, disegno, Venezia, Galleria dell'Accademia
Schizzo per la Madonna del gatto, 1480-1481, disegno, Londra, British Museum
Studio prospettico per l'Adorazione dei Magi, 1481 circa, disegno, Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe
Studio per l'Adorazione dei Magi, 1481 circa, disegno, Parigi, Cabinet des Dessins
Adorazione dei Magi, 1481-1482, olio su tavola, 246×243 cm, Firenze, Galleria degli Uffizi

Primo soggiorno a Milano

Monumento equestre a Francesco Sforza, 1482-1493, opera incompiuta di cui esisteva un modello colossale del cavallo in terracotta, già a Milano, Corte Vecchia, distrutto
Studio di orso che cammina, 1483-1485, disegno a punta metallica su carta preparata a tinta marrone e luce rosa, 10,3×13,4 cm, Castello di Windsor, Royal Library
Gola rocciosa con anatre, 1482-1485 circa, disegno a penna e inchiostro su carta, 22×15,8 cm, Castello di Windsor, Royal Library
Presunto studio per l'angelo della Vergine delle Rocce, 1483-1485, disegno, Torino, Biblioteca Reale
Studi per la Vergine delle Rocce, 1483 circa, disegno, Venezia, Gallerie dell'Accademia
Vergine delle Rocce, 1483-1486, olio su tavola trasportato su tela, 199×122 cm, Parigi, Museo del Louvre
Ritratto di musico, 1485 circa, olio su tavola, 44,7×32 cm, Milano, Pinacoteca Ambrosiana
Studio per il monumento a Francesco Sforza, 1485 circa, disegno, Castello di Windsor, Royal Library
Vite aerea, 1487 circa, disegno, Parigi, Bibliothèque de l'Institut de France
Progetto per la copertura per crociera del Duomo di Milano, 1487-1488, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Studio per macchina da guerra (Carri falcati), 1487-1490, disegno, Torino, Biblioteca Reale
Dama con l'ermellino, 1488-1490 circa, olio su tavola, 54,8×40,3 cm, Cracovia, Museo nazionale di Cracovia
Idea per la figura di san Pietro nell'Ultima Cena, 1488-1490 circa, disegno, Vienna, Graphische Sammlung Albertina
Studio per il Cenacolo, 1488-1490 circa, disegno, Venezia, Gallerie dell'Accademia
Studio per il Cenacolo, 1488-1490 circa, Parigi, Cabinet des Dessins
Sezione di cranio, 1489 circa, disegno, Castello di Windsor, Royal Library
Studio di testa femminile, 1490 circa, punta metallica su carta preparata in tinta verdastra, 18×16,8 cm, Parigi, Cabinet des Dessins
Uomo vitruviano, 1490 circa, matita e inchiostro su carta, 34×24 cm, Venezia, Gallerie dell'Accademia
Studio delle gambe anteriori di un cavallo, 1490 circa, disegno, Torino, Biblioteca Reale
Figure geometriche e disegno botanico, 1490 circa, disegno, Parigi, Bibliothèque de l'Institut de France
Raggi luminosi attraverso uno spiraglio angolare, 1490-1491, disegno, Parigi, Bibliothèque de l'Institut de France
Belle Ferronnière, 1490-1495 circa, olio su tavola, 63×45 cm, Parigi, Museo del Louvre
Progetto per l'armatura di fusione della testa del cavallo, 1491-1493 circa, disegno, Madrid, Biblioteca Nacional de España
Foglio manoscritto per il monumento Sforza, 1493 circa, disegno a penna e inchiostro su carta, Madrid, Biblioteca Nacional de España
Studio di rapporto sessuale e dell'organo sessuale maschile, 1492 circa, disegno a penna e inchiostro su carta, 27,3x20,2 cm, Castello di Windsor, Royal Library
Emblema degli Sforza, 1492-1494, disegno, Parigi, Bibliothèque de l'Institut de France
Vergine delle rocce, 1494-1508, olio su tavola, 189,5×120 cm, Londra, National Gallery
Testa di Cristo, 1494 circa, gessetto e pastello su carta, 40×32 cm, Milano, Pinacoteca di Brera
Capelli, nastri, oggetti per mascherare, 1494 circa, disegno, Londra, Victoria and Albert Museum
Cacciatore di ermellino, 1494 circa, disegno a penna e inchiostro marrone su tracce di gessetto nero su carta, 9,1 cm, Cambridge, Fitzwilliam Museum
Studio di testa virile, 1494 o 1499, disegno, Torino, Biblioteca Reale
Progetto per un dispositivo, 1494-1496 circa, disegno, Madrid, Biblioteca Nacional de España
Ultima Cena, 1494-1498, olio su parete, 460×880 cm, Milano, Refettorio di Santa Maria delle Grazie
Ritratto di una Sforza, 1495 circa, gesso e inchiostro su pergamena, 33×23 cm, Canada?, collezione privata
Schizzo di tre figure di profilo, 1495 circa, disegno, Firenze, Gabinetto dei disegni e delle stampe
Vecchio e giovane affrontati, 1495 circa, disegno, Milano, Biblioteca Trivulziana
Ritratti dei duchi di Milano con i figli, 1497, tempera e olio su parete, 90 cm circa di base ciascuno, Milano, Refettorio di Santa Maria delle Grazie
Schizzo di borsetta da signora, 1497, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Intrecci vegetali con frutti e monocromi di radici e rocce, 1498 circa, tempera su intonaco (ripassata in età moderna), Milano, Castello Sforzesco, Sala delle Asse
Ritratto di Beatrice d'Este

Periodo errabondo

Studio per il Ritratto d'Isabella d'Este, 1499 circa, disegno, Firenze, Gabinetto dei disegni e delle stampe
Ritratto di Isabella d'Este, 1500 circa, 63×46 cm, sanguigna e pastello su carta, Parigi, Museo del Louvre
Tempesta su un paesaggio, 1500 circa, disegno a sanguigna su carta, 20×15 cm, Firenze, Gabinetto dei disegni e delle stampe
Bosco di betulle, 1500 circa, disegno a sanguigna su carta, 19,3×15,3 cm, Firenze, Gabinetto dei disegni e delle stampe
Studio per la Madonna dei Fusi (?), 1501 circa, disegno a sanguigna e punta d'argento su carta preparata in tinta rosa, 25,7×20,3 cm, Venezia, Gallerie dell'Accademia
Madonna dei Fusi, 1501 circa, olio su tavola trasferito su tela e incollato su tavola, 50,2×36,4 cm, New York, collezione privata
Madonna dei Fusi, 1501 circa, olio su tavola, 48,3×36,9 cm, Edimburgo, deposito del duca di Buccleuch alla National Gallery of Scotland
Paesaggio presso Pisa, 1502-1503 circa, disegno a sanguigna su carta, 21,1×15 cm, Madrid, Biblioteca Nacional de España
Bastione a stella con indicazione delle troniere rivolte verso un cavedio circolare, 1502-1503, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Piazzaforte poligonale, 1502-1503 circa, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Studio per la Vergine e sant'Anna, 1501 circa, disegno, Venezia, Galleria dell'Accademia
Studio per la Vergine e sant'Anna, 1501 circa, disegno, Parigi, Cabinet des Dessins
Testa di Leda, 1503-1507 circa, disegno a gessetto nero, penna e inchiostro su carta, Castello di Windsor, Royal Library
Studi di Leda e di un cavallo, 1503-1507, disegno a gessetto nero, pennello e inchiostro su carta, Castello di Windsor, Royal Library
Leda inginocchiata e il cigno, 1503-1507 circa, disegno a penna e inchiostro e acquerello su gessetto nero su carta, 16×13,9 cm, Chatsworth, collezioni del duca di Devonshire
Studio per Leda inginocchiata, 1503-1507 circa, disegno a gessetto nero, penna e inchiostro su carta, Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen
Studio per Sant'Anna, la Vergine e il Bambino, 1503-1517 circa, disegno a gessetto nero, sfumato e biacca su carta, 23×24,5 cm, Parigi,Museo del Louvre
Studio per il cartone di Burligton-House, 1503-1510 circa, disegno a carboncino, penna e pennello su carta, 26×19,7 cm, Londra, British Museum
Cartone di sant'Anna, 1503-1510 circa, gessetto nero, biacca e sfumino su carta, 141,5×104,6 cm, Londra, National Gallery
Gioconda, 1503-1514, olio su tavola, 77×53 cm, Parigi, Museo del Louvre
Studi anatomici, 1504-1506, disegno a penna su carta preparata in tinta rossa, 25,3×19,7 cm, Torino, Biblioteca Reale
Cavaliere al galoppo e altre figure, 1503-1504, disegno a sanguigna su carta, 16,8×24 cm, Castello di Windsor, Royal Library
Studio di proporzioni per la Battaglia di Anghiari: fanti e cavalieri, 1503-1504, disegno, Venezia, Gallerie dell'Accademia
Studio della testa di un guerriero per la Battaglia d'Anghiari, 1504 circa, disegno, Budapest, Museo di belle arti
Battaglia di Anghiari, 1505 circa, pittura murale, Firenze, Palazzo Vecchio, Salone dei Cinquecento, perduto
Testa di Leda, 1505-1510 circa, gessetto rosso su carta preparata rossa, 20×15,7 cm, Milano, Castello Sforzesco
Leda col cigno, 1505-1510 circa (perduto, di esso ne furono fatte diverse copie da altri artisti)

Gli ultimi anni

Mirtillo palustre, 1506 circa, disegno, Castello di Windsor, Royal Library
Studio di gambe d'uomo e di cavallo, 1506-1507, disegno a penna, inchiostro e sanguigna su carta preparata in tinta rossa, 28,5×20,5 cm, Castello di Windsor, Royal Library
Studio per il monumento al Maresciallo Trivulzio, 1507 circa, disegno, Castello di Windsor, Royal Library
Scapigliata, 1508 circa, ambra inverdita e biacca su tavola, 24,7×21 cm, Parma, Galleria nazionale
Osservatore che guarda attraverso un modello vitreo di occhio umano, 1508-1509, disegno, Parigi, Bibliothèque de l'Institut de France
San Giovanni Battista, 1508-1513, olio su tavola, 69×57 cm, Parigi, Museo del Louvre
Studi anatomici (laringe e gamba), 1510, disegno, Castello di Windsor, Royal Library
Studi di bambino, 1510 circa, disegno a gesso su carta, Firenze, Gabinetto dei disegni e delle stampe
Testa di donna, 1510 circa, disegno a gesso su carta, Castello di Windsor, Royal Library
Sant'Anna, la Vergine e il Bambino con l'agnellino, 1510-1513, olio su tavola, 168×112 cm, Parigi, Museo del Louvre
Bacco, 1510-1515, olio su tavola trasportato su tela, 177×115 cm, Parigi, Museo del Louvre
Caustiche di riflessione, 1510-1515, disegno, Londra, British Museum
Canale da navigare tra il lago di Lecco e il Lambro, 1513 circa, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Studi di geometria, 1513 circa, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Studi di cavalli, 1513-1515, disegno a penna, inchiostro e gesso nero su carta, 29,8×21,2 cm, Castello di Windsor, Royal Library
Studi di gatti, draghi e altri animali, 1513-1515, disegno a penna, inchiostro e gesso nero su carta, 27,1×20,4 cm, Castello di Windsor, Royal Library
Studi per Civitavecchia, 1514 circa, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Studio di tre figure danzanti, 1515 circa, disegno, Venezia, Gallerie dell'Accademia
Autoritratto, 1515 circa, sanguigna su carta, 33,5×21,3 cm, Torino, Biblioteca Reale
Allegoria con volpe e aquila, 1516 circa, sanguigna su carta, 17×28 cm, Castello di Windsor, Royal Library
Diluvio universale sopra una città, 1517-1518, disegno a gessetto nero su carta, 16,3×21 cm, Castello di Windsor, Royal Library
Catastrofe naturale, 1517-1518, disegno a gessetto nero, penna e inchiostro su carta, 16,2×20,3 cm, Castello di Windsor, Royal Library

Altri disegni di datazione incerta

Disegno di Madonna, Parigi, Cabinet des Dessins
Testa di bimbo, Parigi, Cabinet des Dessins
Giovane uomo, Parigi, Cabinet des Dessins
Testa di donna, Firenze, Gabinetto dei disegni e delle stampe
Studio di Madonna col Bambino, Firenze, Gabinetto dei disegni e delle stampe
Testa di Madonna, Castello di Windsor, Royal Library
Vecchio seduto, Castello di Windsor, Royal Library
Studio delle proporzioni della testa e degli occhi, Torino, Biblioteca Reale
Studio di torso femminile, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Cuore e vasi sanguigni, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Studio di torso e braccia, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Studio di granchi, Colonia, Wallraf-Richartz Museum
Studio di vecchio, Roma, Istituto centrale per la grafica
Caricature, Venezia, Gallerie dell'Accademia
Testa di vecchio, Venezia, Gallerie dell'Accademia

Copie da originali perduti di Leonardo

Giovanni Antonio Boltraffio, Madonna Litta, 1490-1491, tempera su tavola, 42×33 cm, San Pietroburgo, Ermitage
Francesco Melzi?, Leda col cigno, 1505-1508 circa, olio e resine su tavola, 130×77,5 cm, Firenze, Galleria degli Uffizi
Cesare da Sesto, Leda col cigno, 1515-1520 circa, tempera grassa su tavola, 112×86 cm, Roma, Galleria Borghese
Pieter Paul Rubens, Battaglia di Anghiari, disegno, Parigi, Museo del Louvre

segue Opere attribuite

 
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Michele (XIII-XIV secolo) - Notaio. Originario di Vinci (da cui la famiglia prese il cognome) emigrò a Firenze all'inizio del XIV secolo, ma la famiglia mantenne poi alcuni beni nel paese avito.
Guido (XIV secolo) - Notaio, attivo nel 1339, visse a Firenze.

Piero (*? †1417) - Notaio, attivo nel 1381; notaio e cancelliere della Repubblica di Firenze 1413.

Antonio (*1372? †1468) - Senza professione, viveva della rendita del podere di famiglia, a Vinci (Catasto della Repubblica di Firenze, comune di Vinci, 1457); sposa Lucia (*1392 †1469 circa) figlia di Ser Piero Zosi da Bachereto.

Piero (*1426 †1504) - Notaio a Pisa, Pistoia, Firenze. Sposò: (I) nel 1452 Albiera (*1436 †1464), figlia di Giovanni Amadori; (II) nel 1465 Francesca (†1473), figlia di Ser Giuliano Lanfredini; (III) nel 1475 circa Margherita (*1458 †1486), figlia di Jacopo di Guglielmo; (IV) nel 1487 circa Lucrezia (*1464 †post 1520), figlia di Guglielmo Cortigiani.

LEONARDO (*1452 †1519) - illegittimo.

(III) Antonio (*1476 †?)

(III) Maddalena (*? †1477)

(III) Giuliano (*1479 †?) - Capeggiò la causa contro il fratellastro Leonardo per l'eredità dello zio Francesco, ma perse giacché Leonardo ne ottenne nel 1507 l'usufrutto in vita, e alla sua morte l'eredità passò ai fratellastri nel 1515.

(III) Lorenzo (*1484 †?)

(III) Violante (*1485 †?)

(III) Domenico (*1486 †?)

(IV) Margherita (*1491 †?)

(IV) Benedetto (*1492 †?)

(IV) Pandolfo (*1494 †?)

(IV) Guglielmo (*1496 †?)

(IV) Bartolomeo (*1497 †?)

Pier Francesco detto Pierino (*1530 †1553) - Scultore.

(IV) Giovanni (*1498)

Violante (*1433 †?) - Sposò Simone d'Antonio.

Francesco (*1436 †1506?) - Senza professione, viveva della rendita del podere di famiglia, a Vinci; morì senza figli e lasciò la piccola proprietà detta "il Broto" a Leonardo (e per tal motivo questi ebbe una lunga causa con i fratellastri); sposò Alessandra.

Giovanni (XIV-XV secolo) - Notaio. Sposa Lottiera Beccanti.


Caterina, madre di Leonardo, dopo il matrimonio ebbe altri cinque figli: Piera (1454), Maria (1457), Lisabetta (1459), Francesco (1461) e Sandra (1463).

In totale i fratellastri di Leonardo erano 21.[226]
I discendenti di Piero da Vinci

Secondo uno studio presentato nella città di Vinci e condotto da Alessandro Vezzosi e Agnese Sabato nel 2016 erano presenti 35 discendenti viventi di Piero da Vinci, padre di Leonardo, tra i quali il regista Franco Zeffirelli.[227]
Nella cultura di massa
Televisione

Cortometraggio - Un tragico amore di Monna Lisa di Albert Capellani (1912)
Cortometraggio - Leonardo da Vinci di Giulia Cassini Rizzotto e Mario Corsi (1919)
Documentario - Portrait of a Genius di Sammy Lee (1943)
Lungometraggio - L'ultima cena di Luigi Giachino (1949)
Documentario - Leonardo da Vinci di Luciano Emmer e Enrico Gras (1952)
Film TV - La vita di Leonardo da Vinci di Renato Castellani (1971)
Film TV - I, Leonardo: A Journey of the Mind di Chandler Cowles (1983)
Film TV - Leonardon ikkunat di Pirjo Honkasalo (1986)
Cortometraggio animato - Leonardo da Vinci di Richard Rich (1996)
Film TV - Leonardo: A Dream of Flight di Allan King (1998)
Film TV - Leonardo di Sarah Aspinall (2003)
Cortometraggio animato - Perpetuum Mobile di Raquel Ajofrin ed Enrique García (2006)
Documentario - The Secret Life of Leonardo Da Vinci di Michael Bouson (2006)
Lungometraggio animato - Perpetuum Mobile di Enrique García e Rubén Salazar (2008)
Serie TV - I Borgia di Tom Fontana (2011)
Serie TV - Da Vinci's Demons di David S. Goyer (2013)
Anime - Lupin III - L'avventura italiana (2015)
Documentario - Leonardo: l'uomo che anticipò il futuro di Massimo Polidoro (2019)
Serie TV - Leonardo (2021-)

Teatro

Essere Leonardo da Vinci, da Trattato della pittura, diretto e interpretato da Massimiliano Finazzer Flory (2014)

Omaggi

Dal 1967 al 1974, Leonardo da Vinci è stato raffigurato sulla banconota da 50.000 lire italiane.

Aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino, principale aeroporto di Roma
Leonardo-Finmeccanica, azienda italiana attiva nei settori della difesa, dell'aerospazio e della sicurezza
Leonardo da Vinci, nave da battaglia italiana
Leonardo da Vinci, sommergibile italiano
3000 Leonardo, asteroide della fascia principale
da Vinci, cratere lunare
Da Vinci, cratere marziano
TGR Leonardo Rubrica di approfondimento scientifico in onda su Rai 3
Leonardo rivista Rivista letteraria pubblicata a Firenze dal 1903 al 1907



fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Leonardo_da_...pere_attribuite

 
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Vito Leto


Vito Leto (Ciminna, 21 febbraio 1838 – New York, 1º settembre 1901) è stato un presbitero e inventore italiano. Realizzò degli oggetti che potevano essere utilizzati per i trasporti, per l'insegnamento, per il commercio ma non riuscì a brevettare neanche una sua invenzione.
Biografia
Invenzioni

Ordinato nel 1883, lo stesso anno inventò l'avvisatore automatico e il sorvegliatore elettro-automatico, due dispositivi di sicurezza per i treni. Poco dopo, inventò anche il sillabatropio, che era utile nell'insegnamento nelle scuole elementari. Queste tre invenzioni vennero apprezzate e anche elogiate pubblicamente dall'Università di Palermo, senza però fornirgli alcun guadagno.

L'invenzione della scrutinatrice Leto, una macchina che accelerava le operazioni di voto e di scrutinio, gli valse anche una lode da re Umberto I di Savoia, ma neanche in questo caso il sacerdote poté brevettarla.

Emigrato negli Stati Uniti, creò il contamonete, un apparecchio utile ai commercianti per ordinare il denaro. Gli fu offerto di brevettarlo, ma morì qualche giorno prima di firmare il contratto.

A Ciminna una via ricorda la sua fama e genialità.[1]



..........................................................................................


Lucio e Giuseppe Lozza

Lucio Lozza (Calalzo di Cadore, 19 aprile 1877 – Calalzo di Cadore, 29 giugno 1954) e
Lucio e Giuseppe Lozza nel 1930

Giuseppe Lozza (Calalzo di Cadore, 19 agosto 1870 – Calalzo di Cadore, 30 gennaio 1954), conosciuti dal nome della loro ditta come Fratelli Lozza, sono stati due imprenditori, inventori e dirigenti d'azienda italiani, fondatori dell'omonimo marchio industriale operativo prima nella meccanica, in seguito nel settore degli occhiali.

Biografia
Giovanni Lozza: il primo laboratorio di Calalzo

Le basi della futura industria sono poste nel 1878. Il 15 marzo di tale anno, infatti, viene sottoscritto nello studio del notaio Giacomelli di Padova l'atto costitutivo della "Fabbrica Occhiali A. Frescura e C.", promossa da Angelo e Leone Frescura, cui partecipa suo padre Giovanni (1840-1915), riparatore di attrezzi e arrotino ambulante. I due fratelli sono agricoltori che nelle fasi stagionali di fermo vendono occhiali di produzione tedesca e francese e i pettini prodotti dal capofamiglia Francesco, cacciatore che li ricava dalle ossa della selvaggina catturata.
La Fabbrica Occhiali A. Frescura e C. ospitata in un vecchio mulino in località Le Piazze.

L'iniziativa è stata presa da Angelo, l'anima imprenditoriale della famiglia, titolare di un'attività cominciata da ragazzo quindicenne con i fratelli Leone, Giovanni e Giuseppe che dal 1868 si è stabilizzata a Padova, prima con una bancarella e in seguito con una bottega artigiana.[1] Lo scopo è quello di recuperare le posizioni perdute dalla locale produzione di lenti sia correttive che d'ingrandimento, legata all'arte vetraria di Murano, che dopo la scomparsa della Repubblica di Venezia è stata sopraffatta dall'importazione da centri esteri specializzati. Giovanni Lozza, abile artigiano nella meccanica di precisione, fabbricante e arrotino di coltelli, è chiamato a realizzare e mantenere attive le attrezzature necessarie ad un'attività prettamente industriale, che prende però il via coi tre soci (che si dividono in parti uguali l'utile netto), a fare da operai per la molatura e il montaggio di lenti provenienti dall'estero su occhiali cerchiati metallici, anch'essi d'importazione.
L'officina meccanica Fratelli Lozza
Giovanissimi operai alle dipendenze del gruppo Colon, Bonomi e Ferrari.

L'attività dei tre pionieri dell'occhialeria cadorina va avanti fino alla morte di Angelo Frescura, avvenuta il 13 luglio 1886. La scomparsa del fondatore sembra dover mettere fine all'impresa per il disinteresse del fratello, che torna a tempo pieno all'attività di agricoltore, e la mancanza dei mezzi necessari a mettersi in proprio di Lozza. Dopo una trattativa di alcuni mesi l'azienda viene rilevata dal gruppo milanese "Colon, Bonomi e Ferrari" fondato da Carlo Enrico Ferrari, un ex ufficiale dello stato maggiore che ha lasciato l'esercito per l'attività imprenditoriale. La nuova società viene costituita l'8 gennaio 1887 e la produzione, sempre assemblando materiale d'importazione, viene ripresa con trenta operai e un volume di affari che porta la locale camera di commercio a definirla "unica del genere in Italia e rivale in qualche caso anche delle officine estere".

La Ferrari viene a sua volta liquidata nel 1901, quando l'attività passa a Ulisse Cargnel, un altro pioniere della locale industria degli occhiali. Giovanni Lozza decide di reinvestire la sua quota di liquidazione mettendo su un'officina meccanica su un terreno affittato dal comune in località San Francesco d'Orsina. È qui che il giovane Lucio, all'epoca quattordicenne, inizia un lungo apprendistato che lo vede alternarsi tra l'attività paterna e lo stabilimento Cargnel. In quest'ultimo viene successivamente assunto proprio in qualità di meccanico, addetto alla lavorazione delle piastre meccaniche destinate alle trance con uno strumento di taglio messo a punto nell'officina paterna.
Dalle apparecchiature meccaniche agli occhiali
Lo stabilimento di Ulisse Cargnel.

Apprendista meccanico lo è anche suo fratello Giuseppe (1870-1954), con il quale nel 1911 dà vita alla Fratelli Lozza officina meccanica, un'impresa in forma di società in accomandita che inizialmente produce attrezzi meccanici e ottici per le prime occhialerie della zona utilizzando lo stabilimento paterno, opportunamente ampliato e ristrutturato. La nuova società ha un rapporto preferenziale con la Cargnel, che dal 1910 (prima in Italia) ha attivato un apposito reparto per la costruzione di montature in celluloide, tecnica che richiede apposite attrezzature. Questa intesa viene ulteriormente messa a frutto dopo la prima guerra mondiale e una breve esperienza del Lozza a Roma, dove nel 1917-18 lavora all'ottica di binocoli e cannocchiali per il ministero della guerra.
Lucio e Giuseppe Lozza con i dipendenti della Industria Cadorina Occhialeria Lozza nel 1930.

La domanda di occhiali in celluloide cresce infatti in modo esponenziale, al punto che la Cargnel da sola non può far fronte da sola a tutte le richieste. Tornato definitivamente a Calalzo, nel 1919, Lucio Lozza decide di convertire lo stabilimento alla medesima produzione ma non in concorrenza, bensì in sinergia, tanto che Ulisse Cargnel non solo sostiene l'iniziativa ma gli mette anche a disposizione la propria rete commerciale (rappresentanze e negozi). La società muta per l'occasione la ragione sociale in Fratelli Lozza occhiali e opera inizialmente con sette operai supervisionati dai due fratelli, Lucio in qualità di direttore amministrativo e Giovanni come supervisore delle fasi di lavorazione. L'azienda cresce rapidamente (nel 1930 i dipendenti sono già gli oltre duecento della foto qui a lato), grazie all'indipendenza dei due fratelli nel delicato campo dell'attrezzaggio dei laboratori, dove possono progettare e costruire in proprio, con un grande vantaggio economico, praticamente ogni tipo di attrezzo meccanico.

Una relazione[2] della locale camera di commercio, pubblicata nel 1926, descrive le occhialerie Lozza come un'azienda di tipo moderno, che non risparmia sui costi di assicurazione e sicurezza, ed anzi investe molte risorse finanziarie nel riutilizzo del celluloide non lavorato per la creazione di apparecchi protettori da far indossare agli operai e da installare sui macchinari. Gran parte del danaro investito nella sicurezza e nel nido per i figli delle operaie proviene dalla vendita dei cascami di celluloide e degli altri scarti del processo produttivo, ceduti perlopiù per la fabbricazione di bottoni.
La guerra e gli ultimi anni dei Lozza
Guglielmo Tabacchi, il fondatore della S.A.F.I.L.O.
Foto ricordo della Fratelli Lozza al raggiungimento dei 500 operai.

La totale indipendenza dei Lozza sul delicato fronte delle attrezzature porta ad una crescita del fatturato e del gruppo che sbaraglia qualsiasi concorrenza, al punto che Ulisse Cargnel, costretto ad avvalersi di costose consulenze, è costretto a gettare la spugna nel 1934. La sua attività viene rilevata da Guglielmo Tabacchi, imprenditore nato nel 1900 a Solvay nello stato di New York, figlio di emigranti italiani che ha deciso di cercare fortuna laddove non l'hanno trovata i genitori.[3] La Fabbrica Italiana Occhialeria di U. Cargnel e C. viene trasformata nella Safilo, Società Azionaria Fabbrica Italiana Lavorazione Occhiali, che prosegue in una politica di collaborazione interaziendale che porta, nella seconda metà degli anni '30, alla creazione di un indotto formato da piccoli laboratori che svolgono alcune fase minori ma essenziali della produzione come astucci, armature, minuterie metalliche, etc.

Quando la guerra è ormai alle porte l'industria locale copre la produzione nazionale all'88% nelle montature da occhiali e al 53% in quella degli astucci. Calalzo diventa un vero e proprio distretto industriale, che Lucio Lozza pubblicizza mediante il finanziamento del periodico Cadore, diretto da Alberto Pais. Durante l'occupazione tedesca Sàfilo produsse un solo tipo di occhiali da inviare in Germania e parallelamente, senza l'autorizzazione tedesca, produceva a marchio Italottica altri prodotti ottici. Questa strategia le permise di crescere al'interno del settore. [4]

Cessate le ostilità i processi di epurazione vedono i due Lozza prosciolti per non avere mai approfittato della loro vicinanza al fascismo per arricchimenti personali e per le numerose testimonianze favorevoli ai lunghi anni di gestione del comune da parte di Lucio, che ricopre la carica di podestà dal 1929 al 1941. Nel 1949 l'azienda diventa una società per azioni con la ragione sociale Industria cadorina occhialeria Fratelli Lozza, il cui capitale passa dagli iniziali 1.200.000 ai 19.200.000 lire del 1951.[2] Lucio Lozza ricopre dal 1950 al 1952 le cariche di presidente dell'Associazione italiana degli ottici e della sezione provinciale di Belluno della Confindustria. I due fratelli stanno ponendo le basi dell'espansione internazionale del gruppo nei paesi dove esportano fin dagli anni '30, che vanno dall'Europa agli Stati Uniti, dall'Africa settentrionale al Medio Oriente e all'America Latina, quando vengono entrambi a mancare a distanza di pochi mesi l'uno dall'altro.

Il marchio Lozza, portato avanti dai loro figli, è oggi commercializzato dalla De Rigo
Onorificenze (Lucio Lozza)
Cavaliere del Lavoro - nastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere del Lavoro
«Di umili origini, iniziò a lavorare dopo la quinta elementare, prima nell'officina paterna di fabbro, poi presso una piccola fabbrica di occhiali in metallo. Mise a profitto a poco a poco le sue qualità di meccanico, disegnatore e costruttore di macchine. A 24 anni tornò nell'officina paterna e la trasformò in un laboratorio di meccanica di precisione, per la costruzione di attrezzi destinati agli stabilimenti locali. Dopo la prima guerra mondiale ricominciò la sua attività, con la grande intuizione di fabbricare occhiali in celluloide, fino ad allora sconosciuta in Europa. A partire dal 1920 ottenne un crescente successo nella produzione di occhiali. Si occupò sia della parte tecnica sia di quella commerciale. Passò dai 7 operai degli inizi agli oltre 500. Istituì numerose filiali di produzione e vendita in Italia e di rappresentanza all'estero. Podestà per 13 anni di Calalzo e commissario prefettizio di alcuni comuni, riorganizzò la categoria degli ottici dirigendo diverse associazioni.»
— 1º maggio 1941



https://it.wikipedia.org/wiki/Lucio_e_Giuseppe_Lozza
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Vincenzo Lunardi


Vincenzo Lunardi (Lucca, 11 gennaio 1754 – Lisbona, 1º agosto 1806) è stato un inventore e ufficiale italiano, pioniere dell'aeronautica.

Biografia

Ufficiale del genio nell'esercito del Regno di Napoli, fu nominato segretario dell'ambasciatore del Reame di Napoli in Inghilterra. L'eco delle ascensioni dei Fratelli Montgolfier, i quali il 4 giugno 1783 riuscirono a far sollevare il primo pallone aerostatico ad aria riscaldata che prese il loro nome, spinse Lunardi a progettare un pallone a gas, un tipo di pallone dotato di migliore capacità ascensionale e di più grande autonomia. L'anno successivo, il 15 settembre 1784, utilizzando un pallone gonfiato con idrogeno, Lunardi compì la prima ascensione in Inghilterra, a Chelsea (Londra), alla presenza della Corte inglese. Il pallone aveva un diametro di 33 piedi (all'incirca 10 metri) ed era provvisto di due leggere pale per mezzo delle quali Lunardi intendeva regolare l'ascesa, ma che all'atto pratico si rivelarono inutili. Dopo un volo di 2 ore e 15 minuti, Lunardi atterrò a Ware, una località dell'Hertfordshire[1].
Sul luogo della discesa di Lunardi è stata posta la seguente iscrizione:

«Let posterity know, and knowing, be astonished, that on thefifteenth day of September, 1784, Vincent Lunardi of Lucca, in Tuscany, the first aerial traveller in Britain, mounting from the Artillery Ground in London, traversing the regions of theair for two hours and fifteen minutes, in this spot revisited the earth. On this rude monument for ages be recorded, that wondrous enterprise, successfully achieved by the powers of chemistry and the fortitude of man, that improvement in science, which the great Author of all knowledge, patronising by His providence the inventions of mankind, hath graciously permitted to their benefit and His own eternal glory.»

(Notes and Queries, Number 53, November 2, 1850, [2])
Esibizione di Lunardi al Pantheon, Oxford Street
In basso a sinistra, pala del pallone di Lunardi

Dopo altre ascensioni nel Regno Unito, Lunardi ripeté i suoi voli in altre città europee. Ebbe particolare successo a Napoli, davanti a Ferdinando I delle Due Sicilie e atterrò a Capodrise[2], e a Palermo[3]. Si recò poi in Spagna e a Lisbona, città dove morì, nel convento dei Cappuccini italiani (Convento dos Barbadinhos Italianos), il 1º agosto 1806. La notizia della sua morte, avvenuta dopo tre mesi di malattia, fu annunciata con rilievo nella Gazeta de Lisboa il 15 agosto.

Massone, non si sa dove e quando fu iniziato, ma la sua appartenenza alla massoneria è certa, poiché il 14 ottobre 1785 figura come visitatore in una riunione della Loggia St. Andrew n. 160 di Edimburgo[4].
Scritti

Vincenzo Lunardi, Ragguaglio circostanziale del primo viaggio aereo in Inghilterra felicemente eseguito dal capitano Vincenzo Lunardi cittadino lucchese in una serie di lettere scritte da lui medesimo al cavaliere Gherardo Compagni di Lucca... Fedelmente tradotte dall'Inglese. Parimenti varie lettere concernenti altri suoi viaggi nell'atmosfera con l'aggiunta d'una raccolta delle meglio poesie scritte in Napoli, in occasione della sua salita in aria. Palermo, per le stampe del Gagliani, 1790.





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Francesco Malacarne
Francesco Malacarne (Riva del Garda, 5 febbraio 1779 – Venezia, luglio 1855) è stato un ingegnere e inventore italiano anticipatore della fotografia. Mise a punto una tecnica - a metà strada tra la litografia e la fotografia - per riprodurre disegni e stampe su carta fotosensibile che chiamò papirografia.

Malacarne morì a Venezia nel luglio 1855, dopo lunga malattia[1].





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Arturo Malignani

Arturo Malignani (Udine, 4 marzo 1865 – Udine, 15 febbraio 1939) è stato un imprenditore e inventore italiano che si segnalò in particolare per i brevetti nel campo dell'illuminazione elettrica, per lo sviluppo e le applicazioni in Friuli dell'energia elettrica e dei cementifici.

Il metodo da lui inventato per creare il vuoto nelle lampadine ad incandescenza a oggi risulta essere il più efficace e utilizzato al mondo. Grazie a lui, a partire dal 1 gennaio 1889, la città di Udine, in Friuli Venezia Giulia, fu la terza, dopo Parigi nel 1870 e Londra nel 1882, ad avere l'illuminazione pubblica delle strade con luce elettrica, in Europa.[1][2][3]
Biografia

Arturo nacque a Udine il 4 marzo 1865. Il padre Giuseppe, originario di Torreano, dopo aver acquisito una formazione tecnico-artistica presso l’Accademia di Venezia, lavorò come fotografo e pittore a Udine. Dal primo matrimonio era nata Adele. Dopo aver divorziato, Giuseppe sposò Carolina Ruggeri, da cui ebbero Arturo. L’attività del padre, titolare di un laboratorio di fotografia, fu il primo fortissimo stimolo per il giovane Malignani, che fin da bambino si cimentò negli esperimenti chimici e ottici, nella lavorazione del vetro e naturalmente nella fotografia. In seguito alla morte del padre (1868) la sua formazione passò sotto la guida della sorella Adele, che divenne un insostituibile punto di riferimento. Erano questi gli anni durante i quali iniziava a diffondersi in Italia ed in Europa la Seconda Rivoluzione Industriale, che portò come conseguenza l'utilizzo dell’energia elettrica. La stessa città di Udine aveva istituito nel 1878 una commissione incaricata di studiare il problema dell'illuminazione pubblica cittadina e, nel 1882, Arturo, che stava tra l’altro per conseguire presso il regio Istituto tecnico di Udine la licenza in fisica e matematica, poté assistere ad uno fra i primi esperimenti della Edison italiana. Durato all'incirca una decina di giorni, colpì profondamente la sua immaginazione. Un secondo esperimento, eseguito questa volta dalla Siemens di Berlino, venne compiuto nell'agosto del 1883, in occasione del cambio di denominazione della piazza Contarena in piazza Vittorio Emanuele II e dell'inaugurazione del monumento equestre a Vittorio Emanuele.

Nel 1891 sul lato di ponente del colle del castello di Udine, all'interno del giardino della sua abitazione, Malignani impiantò una stazione meteorologica. Quest'ultima inizialmente affiancò la stazione meteo dell'Osservatorio di Udine, ma dopo il 1914 divenne la stazione con la strumentazione più avanzata del momento.

A lui è intitolato l'istituto superiore "Arturo Malignani" di Udine.
Brevetti e produzione di lampade per l'illuminazione elettrica

Tra i primi in Italia sviluppò una produzione di lampade ad incandescenza, registrando diversi brevetti, tra cui il sistema per creare il vuoto nel bulbo della lampada e la veloce (e meno nociva per i lavoratori) produzione in serie di lampadine. Malignani brevettò questo sistema solamente nel 1894[4] in quanto lo riteneva non necessario: era infatti certo che all'estero inventori come Edison e Philips avessero certamente fatto meglio di lui. In realtà Udine, terza città in Europa con l'illuminazione elettrica dopo Milano e Londra, aveva grazie a Malignani le lampadine migliori al mondo per qualità. La Edison italiana acquisì il brevetto da Malignani e fece da intermediaria con la Edison statunitense per la cessione del brevetto. Nel 1896 Malignani si recò a New York e lo stesso Thomas Edison rimase meravigliato della qualità del brevetto del giovane friulano, che divenne con la cessione l'uomo più ricco di Udine. Il suo metodo per produrre il vuoto nelle lampade ad incandescenza — grazie al quale molti dei gas venivano estratti con l'ausilio di una pompa meccanica, mentre il rimanente (che era sempre stato la parte problematica da rimuovere) veniva precipitato nel bulbo dall'azione del fosforo — è tutt'oggi impiegato sia in tutte le lampade a vuoto che in tutte quelle a gas rarefatti, perché è necessario togliere tutti i gas atmosferici prima di introdurvi l'argon o l'azoto.
Attività di Malignani nell'energia idroelettrica. Udine città col tram
La cascata a valle della diga di Crosis, a Zomeais di Tarcento, costruita tra il 1897 ed il 1900

Malignani fu anche un pioniere nello sviluppo dell'energia idroelettrica, fondamentale in un paese, come l'Italia, tradizionalmente povero di fonti di energia fossile. Iniziò costruendo centrali termoelettriche e idroelettriche sui salti delle rogge cittadine, ancora insufficienti per le esigenze di consumo.

Il Friuli era però caratterizzato da corsi d'acqua di carattere discontinuo, quasi torrentizio, difficili da sfruttare per aver una fonte di energia stabile e continua. Fu così che fece costruire una diga a Crosis di Tarcento tra 1897 e 1901 [5] per rifornire d'acqua la centralina elettrica del cascamificio di Bulfons. La diga venne costruita dalla Società Malignani-Volpe-Armellini costituita all'uopo dallo stesso Malignani e da due proprietari di tessiture e filande della zona, e fu poi ceduta alla Società Veneta per la Filatura Cascami di Seta.

Tra 1906 e 1907 fece costruire una centrale idroelettrica a Vedronza di Lusevera, anch'essa progettata da lui, che sfruttava le acque del torrente Torre. Quest'ultima, distrutta dal terremoto del 1976, consentì di rifornire Udine di elettricità per le industrie, per l'illuminazione pubblica e privata, e per l'elettrificazione del sistema tranviario cittadino (anch'esso un'opera pionieristica di prim'ordine per l'epoca). È in tale occasione che la società si trasformò in Società Friulana di Elettricità, in seguito consociata della Società Adriatica di Elettricità (SADE)[6].
Le cave e i cementifici

Successivamente Malignani si impegnò per produrre cemento, sviluppando l'estrazione di marna e la produzione industriale mediante cementifici nella provincia di Udine. Fondò anche diverse cave di Pietra Piasentina nel suo paese natale, Torreano.
Filmografia

Una splendida invenzione, tra Malignani ed Edison (1980), di Roberto Serrani[7]



fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Arturo_Malignani

 
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Umberto Mandelli


Umberto Mandelli (Piacenza, 1940 – Piacenza, 2015) è stato un imprenditore e inventore italiano.

Biografia

Figlio di Renato Mandelli, fratello di Sante Mandelli e Giancarlo Mandelli, ha avuto quattro figli. Impegnato nello sviluppo della meccatronica piacentina, si adoperò per unire le tecniche della tradizionale meccanica alla intelligenza artificiale dei computer e dei robot.[1]
Umberto Mandelli
Umberto Mandelli, insieme ai suoi tre figli e la figlia
Umberto Mandelli, insieme ai suoi tre figli e la figlia

Nel 1960 il padre lo associa insieme ai fratelli Sante e Giancarlo alla conduzione della società Mandelli Sistemi; il fratello Giancarlo prende la carica di presidente, mentre lui si dedica ai prodotti e alla loro innovazione, portando sul mercato i primi esemplari di macchine a controllo numerico e sistemi flessibili di produzione. Ha ideato negli anni '70 modelli di macchine utensili, tra cui la Positiv, la Medal e la Thema, prodotti e distribuiti in tutto il mondo. Ha sfruttato l'dea di usare i tre assi lineari in movimento da una parte e il pezzo in lavorazione dall’altra[2][3].
Procedimenti giudiziari

Nel 1993, a causa della grave crisi che colpì la Mandelli Sistemi e che mise seriamente in forse la sopravvivenza dell'impresa fondata nel 1932 dal nonno Renato, Umberto viene accusato di bancarotta fraudolenta, per aver distratto od occultato «una somma non inferiore a 53 miliardi di lire» per l'acquisizione di una delle controllate. Viene costretto quindi a lasciare i vertici dell'azienda e iniziare l'iter processuale per difendersi dalle accuse rivolte nei suoi confronti.[4]i[5][6]. Questa scia di accuse e i conseguenti procedimenti giudiziari sono contestuali all’onda giudiziaria sull’imprenditoria italiana nota come Mani Pulite.

La prima sentenza arriva il 26 febbraio 2004, con la condanna di Umberto e Sante a quattro anni di reclusione per bancarotta fraudolenta, poi aumentati il 12 giugno 2008 a quattro anni e sei mesi dalla Corte di appello di Bologna, e confermate nel novembre 2008 dalla Corte di cassazione, che di fatto respinge il ricorso dei due fratelli.[4][7]

Il 10 agosto 2009 i due, Umberto e Sante Mandelli, decidono di fare ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo contro lo Stato Italiano, per mancanza di equità del procedimento penale appena conclusosi.

Nel luglio del 2015, Umberto muore nella sua abitazione per un improvviso aneurisma.[8]





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Innocenzo Manzetti


Innocenzo Vincenzo Bartolomeo Luigi Carlo[1] Manzetti (Aosta, 17 marzo 1826 – Aosta, 15 marzo 1877) è stato uno scienziato e inventore italiano.

Mente creativa ma pragmatica, Innocenzo Manzetti era noto nella comunità scientifica e nella città natale - Aosta - per le sue invenzioni: un automa che suona il flauto, un'automobile a vapore, una pompa idraulica, uno speciale cemento idraulico, una macchina per scolpire dall'eccezionale precisione, e altro ancora. Secondo alcune fonti è stato un precursore dell'invenzione del telefono, che studiò e perfezionò tra il 1843[2] e il 1865 pur non brevettandolo[3].
Storia
Il suonatore di flauto (1840), fotografato alla Maison de Mosse di Avise, è oggi esposto al Centre Saint-Bénin di Aosta

Fin da giovane si interessò di meccanica. Nel 1840, infatti, realizzò un automa in grado di suonare il flauto tramite un complesso sistema ad aria compressa ed un programma inciso su un cilindro rotante, come nei carillon. L'apparato era molto avanzato per l'epoca e ancora oggi il “robot” è oggetto di studio e di grande ammirazione da parte di studiosi ed appassionati, ed è considerato il primo motore pneumatico al mondo[4].

Il cruccio di Manzetti era quello di riuscire a far parlare il suo automa, che già aveva attirato la curiosità di molti scienziati di altre nazioni, intenzionati a esporlo presso le maggiori istituzioni scientifiche del tempo. Già nel 1843 aveva ipotizzato la possibilità di realizzare un "telegrafo vocale", che avrebbe sfruttato l'ultimo ritrovato tecnologico dell'epoca, i circuiti telegrafici, per trasmettere una voce "elettrica" tramite il principio dell'induzione elettromagnetica.[5]

Nel frattempo realizzò numerosi altri apparati meccanici: a lui, per esempio, si deve il brevetto della macchina per la pasta (1857)[6], oppure la realizzazione della prima autovettura a vapore in grado di circolare lungo le strade (1864), o un particolare tipo di calce idraulica sperimentata fin dal 1869, ma brevettata nel 1877[7], o ancora un orologio da caricarsi una sola volta all'anno[8].

Il suo lavoro era riconosciuto dalle istituzioni: per esempio, nel 1863 gli fu affidata la progettazione del Palazzo comunale di Villeneuve.[9]
Il telefono

Agli inizi degli anni sessanta dell'Ottocento tornò ad occuparsi del telegrafo vocale. Nel 1864-1865 creò un vero e proprio telefono elettrico in grado di trasmettere la voce umana ad oltre mezzo chilometro di distanza. L'apparato fu notevolmente perfezionato, tanto che venne presentato alla stampa nell'estate del 1865. I giornali di tutto il mondo, per la prima volta in assoluto, annunciarono che era stata trovata la possibilità pratica di trasmettere la parola a distanza per mezzo dell'elettricità.[10][11]
Aosta - Targa dedicata a Innocenzo Manzetti

Antonio Meucci, sconosciuto immigrato italiano a New York, aveva anch'egli concepito qualcosa di simile. Passato qualche mese dalla lettura della notizia, infatti, confidò ad un giornale americano: «Io non posso negare al sig. Manzetti la sua invenzione», e descrivendo il proprio prototipo rese evidente la minor perfezione di questo rispetto a quello inventato ad Aosta: per parlare con il telefono di Meucci, infatti, bisognava tenere tra i denti una "barretta di contatto", mentre l'apparecchio di Manzetti già prevedeva che la voce passasse attraverso una cornetta.[12]

Ma a causa del costo dei brevetti, né l'uno né l'altro brevettarono le loro invenzioni, ossia il telettrofono (Meucci) e il télégraphe vocal (telegrafo vocale) (Manzetti), anche se Meucci, già nel 1871, aveva pensato a registrare un “caveat” del suo prototipo valevole per due anni: furono solo le sue precarie condizioni economiche e sociali (Meucci viveva grazie ad un sussidio e non sapeva parlare l'inglese) che gli impedirono di spedire i 10 dollari necessari per rinnovare il "brevetto provvisorio".[13]
Pagina del periodico "Scena illustrata" numero del luglio 1902. L'articolo "Filibusteria americana" si occupa di Innocenzo Manzetti e delle sue invenzioni.

Il brevetto ufficiale del telefono fu quindi quello di Alexander Graham Bell del 14 febbraio 1876, ma l'enorme ritorno economico che il telefono avrebbe permesso ai suoi pionieri fece sì che si scatenasse una vera e propria battaglia legale. La storia insegna che Bell fu l'unico a poterne sfruttare il brevetto, ma ha anche restituito a Meucci il posto tra i grandi inventori e il primato su Bell per la sua intuizione dimostrata come antecedente: l'11 giugno 2002, infatti, il Congresso degli Stati Uniti ha riconosciuto storicamente a Meucci la paternità del telefono, grazie agli studi del professor Basilio Catania, a lungo direttore dello CSELT di Torino.

La paternità dell'invenzione, nonostante sia attestata da numerosi documenti come i giornali del 1865[14], o dall'ammissione di Meucci stesso, o ancora da alcune dichiarazioni del Ministero Italiano della Pubblica Istruzione contrario a un'invenzione che avrebbe permesso ai cittadini di comunicare direttamente tra loro scavalcando il controllo dei funzionari pubblici, deve ancora essere ufficialmente riconosciuta a Manzetti.[15]
Il cemento idraulico

Con il suo cemento idraulico nel 1874 Manzetti fece costruire anche la sua casa, nell'attuale via Xavier de Maistre ad Aosta, che ancora oggi porta la targa commemorativa.[16]
Vettura a vapore

È solo nel 2008 che sono state ritrovate le carte (registre) che descrivono la voiture à vapeur, consegnate dall'ultima erede di Manzetti a Mauro Caniggia Nicolotti e Luca Poggianti, biografi del Manzetti; esse sembrano illustrare una vera e propria antenata a vapore dell'automobile.[17] Si tratta della stessa carrozza a vapore citata da alcuni giornali valdostani e piemontesi tra il 1869 e il 1870.[18]
Museo Manzetti

Ad aprile 2012, in apertura della XIV Settimana della Cultura, è stata inaugurata in una sala del Centro Saint-Bénin di Aosta l'esposizione permanente dedicata alla figura di Manzetti e alle sue invenzioni; nella sacrestia della ex-cappella sono ospitati l'automa e alcuni pannelli didattici touch-screen.[19]. L'automa era in precedenza esposto alla Maison de Mosse di Runaz, all'interno dell'esposizione permanente Au fil des ondes sui 150 anni di telecomunicazioni in Valle d'Aosta. L'associazione culturale Museo Manzetti affianca il Centro Studi de Tillier nello studio e nella valorizzazione della figura dell'inventore e del museo a lui dedicato.
Memoria

Ad Aosta all'inventore sono intitolati l'Istituto per Ragionieri e la piazza della stazione di Aosta.
Filmografia

Innocenzo Manzetti I documenti, regia e produzione: Patrizio Vichi, 14 minuti, documentario, 1994.
Innocenzo Manzetti, inventore, regia e produzione: Patrizio Vichi, 22 minuti, sceneggiato, 1994.



fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Innocenzo_Manzetti

 
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Serafino Marchionni


Serafino Marchionni (Montegranaro, 13 ottobre 1875[1] – Fermo, 11 agosto 1963[1]) è stato un monaco cristiano, inventore e stenografo italiano, creatore di un omonimo sistema stenografico.

Biografia

Il monaco agostiniano Serafino Marchionni creò un originale sistema stenografico di tipo geometrico, ispirandosi soprattutto ad Isaac Pitman, ma tentando una maggiore facilità di tracciamento e di unioni, proporzionando i segni secondo la loro percettibilità e frequenza, e differenziandone le dimensioni e le posizioni. Iniziò il lancio del proprio metodo nel 1903. Trasferitosi poi a Roma, ed in seguito a Fermo, ne continuò costantemente la propaganda, ottenendo un discreto successo e buoni allievi, in particolare il campione di velocità Francesco Lucci; ma non ottenne mai un riconoscimento ufficiale, e dopo un buon primo periodo si trovò in declino. Nonostante l'autore si fosse dedicato con impegno al perfezionamento del metodo in varie pubblicazioni, nel 1908, poi nel 1911-12, ed in ultimo nel 1953, dopo la sua morte il sistema venne del tutto dimenticato.

La stenografia di Marchionni condivise l'ingiustificata malasorte di tutti i sistemi a base geometrica in Italia; causata dall'invece giustificata cattiva fama del primitivo, ma agli inizi molto diffuso, sistema Taylor-Delpino; un metodo geometrico ma poco efficiente, che di fatto "uccise" la Scuola geometrica in Italia; nonostante i successivi sistemi geometrici come il Marchionni e il Pitman-Francini si fossero dimostrati indubbiamente migliori.
Opere

Serafino Marchionni, Stenotachigrafia italiana, Acquaviva Picena 1903, 3ª ed. Ferrara 1905, 4ª ed. Amelia 1907
Serafino Marchionni, Guida stenografica italiana, Roma 1953





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Guglielmo Marconi


https://it.wikipedia.org/wiki/Guglielmo_Marconi





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Tullio Marengoni


Tullio Marengoni (7 aprile 1881 – 2 agosto 1965) è stato un ingegnere e progettista italiano. Fu, nella prima metà del XX secolo, il capo progettista della più grande industria armiera italiana, la Beretta di Gardone Val Trompia. Ideò e disegnò alcuni dei modelli in assoluto più riusciti e duraturi della casa bresciana, quali la Beretta M34 o il Beretta MAB 38.
Progetti

pistola Beretta M15
pistola Beretta M17
pistola Beretta M23
pistola Beretta M31
pistola Beretta M34
pistola Beretta M35
mitra Beretta MAB 18
carabina semiautomatica Beretta MAB 18/30
mitra Beretta MAB 38 e sue varianti
mitra Beretta M3




https://it.wikipedia.org/wiki/Tullio_Marengoni
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Giovanni Battista Marzi



Giovanni Battista Marzi (Tarquinia, 3 agosto 1857 – Roma, 16 giugno 1928) è stato un inventore italiano, inventore del telefono automatico e precursore nel campo della radiofonia.

Biografia

La cittadina di Corneto, dal 1872 chiamata Corneto-Tarquinia, oggi Tarquinia dette i natali a G. B. Marzi.

Frequentò il liceo classico e si dedicò particolarmente allo studio della lingua latina, tanto da ottenere il riconoscimento della Internazionale Academia Regia Disciplinarum Nederlandica Ex Legato Hoeufetiano oggi Institutum Internationale Historiae Socialis. Ultimati i suoi studi, anziché seguire le orme paterne e dedicarsi all'agricoltura ed alla zootecnica assumendo la direzione dell'azienda famigliare, si sentì fortemente attratto dall'elettromeccanica.

Dopo il servizio militare, a 23 anni, fu nominato direttore ed organizzatore della nascente Rete Telefonica Romana e nello stesso tempo segretario per l'Italia della "Société Générale des Téléphones".
Le invenzioni

Nell'anno 1884 abbandonò la direzione dei telefoni urbani e si dedicò alla costruzione sia di apparecchi di precisione, come di forniture elettriche e meccaniche di carattere militare. Impiantò, per conto della Direzione del Genio Militare, una complessa rete telefonica tra tutte le caserme, fortificazioni ed uffici militari di Roma.
I bersagli elettrici

Inventò i bersagli elettrici: utilizzò l'impatto del proiettile per generare la corrente elettrica necessaria alla segnalazione dell'impatto avvenuto su di un piccolo quadro posto presso il tiratore. La corazza del bersaglio, formata da diverse lastre di acciaio, di spessore atto a resistente all'urto della pallottola, produceva, una volta colpita, delle vibrazioni che, a mezzo di generatori elettromagnetici applicati dietro le sezioni della corazza, venivano trasformate in correnti indotte capaci di far funzionare il quadro vicino al tiratore, riproducendo in scala ridottissima tutte le sezioni del bersaglio.
Centralino Telefonico Automatico

Nel 1886, dopo molti tentativi e non indifferenti spese, immaginò ed attuò, primo nel mondo, una serie di originali dispositivi, creando in tal modo il Centralino Telefonico Automatico Marzi che installò in Vaticano[1]. Il Papa Leone XIII fu così il primo al mondo a far uso del telefono automatico. Sulla Rivista Telefoni e Telegrafi si legge:

«Sembra interessante far conoscere ai nostri lettori che, qualche primo, anzi primissimo passo, venne fatto in Italia, fin dai primordi della telefonia, nel campo della Telefonia Automatica, e precisamente dall'Elettronico Giovanni Battista Marzi. Qualche tentativo e brevetto di Telefonia Automatica apparve in America tre anni dopo che Graham Bell presentava al pubblico di Filadelfia un apparecchio telefonico; ma solo dopo molti anni, nel 1892, entrò in pratico funzionamento la prima Centrale Automatica nella città di Laporte (Indiana - Stati Uniti) costruita da una società che porta il nome di "Automatic Electric Company" di Chicago. Un gruppo di due apparecchi, costituenti il sistema automatico "Marzi" venne cortesemente offerto dall' Ing. Federico Mannucci, Foriere dei SS. Palazzi Apostolici, al Museo del nostro Istituto Superiore Poste e Telegrafi ed un altro campione si conserva nel Museo Postale e Telegrafico di Berlino. Benché si tratti di un sistema primordiale, pure si rivelano già in detti apparecchi, i primi germi che ebbero poi rapida applicazione nello sviluppo della Telefonia Automatica, come ad esempio il "trasmettitore d'impulsi" od eccentrico (came), analogo all'elica che serve per liberare le spazzole nel sistema "Western", ed il "selettore" semplice a passi successivi circolari adottato nello Strowger ed in altri sistemi automatici, nonché nel Pantelegrafo Cerebotani.»

Il sistema automatico del Marzi, benché attivato e provato da un lungo esperimento negli uffici della Biblioteca Vaticana[2], non ha avuto poi ulteriore incoraggiamento e più estese applicazioni: a quei tempi, quando il servizio telefonico anche nelle grandi città era limitato a reti di poche centinaia di abbonati, era ancora prematura la messa in opera di una centrale automatica, e poteva, tuttalpiù, costituire una curiosità ed un lusso.
Telegoniometro elettrico a base orizzontale

Altra invenzione è il "Telegoniometro elettrico a Base orizzontale sistema Marzi" per il tiro indiretto con obici, nelle batterie da costa.

L'invenzione consiste nel riprodurre a distanza, in piccolissime proporzioni, l'angolo formato dalle linee di visuale di due cannocchiali piazzati lungo una spiaggia a qualche chilometro di distanza fra loro e puntati ambedue contro uno stesso bersaglio.

Il sistema è basato principalmente sulla riproduzione a distanza di tutti i più piccoli movimenti di un telescopio in ogni direzione ed a tutte le velocità.

La caratteristica speciale del sistema "Marzi" è che ottiene il rovesciamento di marcia degli indici delle macchine riproduttrici senza il rovesciamento di rotazione degli ingranaggi e senza avere alcun attrito da vincere.

In tale maniera non accade mai che l'indice dell'apparecchio riproduttore continui a marciare in un senso determinato, mentre il telescopio abbia nel frattempo cambiato direzione, come si verifica molto spesso in altri sistemi: per esempio nel Distanziometro Siemens e nel Telemetrografo de Tromelin.

L'intersezione degli indici rappresenta il punto dove si trova la nave da colpire, contro la quale sono diretti i telescopi dei due osservatori.

Si possono in tal modo seguire gli spostamenti della nave e tracciare la rotta. Due contatori di giri, situati sulla piattaforma, indicano in ogni istante la posizione della nave in metri per la distanza ed in gradi e ventesimi di grado per la direzione. Inoltre vi è un dispositivo che serve a calcolare meccanicamente la posizione in cui si troverà la nave in un tempo prestabilito, onde poter fare il tiro preparato, colpire cioè nel punto in cui si troverà la nave dopo trascorso il tempo che impiega il proietto nella sua traiettoria. Sull'invenzione fu posto il divieto di divulgazione nell'interesse della difesa nazionale.

L'invenzione del Marzi comportò la rivoluzione della difesa delle coste. Le batterie invisibili alla flotta nemica, poiché riparate dietro l'ostacolo naturale dei monti potevano colpire il bersaglio senza neppure essere viste.

La Marina Italiana ed il suo Ministro di allora, Benedetto Brin, compresero l'importanza del "Telegoniometro Marzi" e ne vollero dotare un punto strategico per la nostra difesa marittima: l'Arcipelago della Maddalena.
Batterie di accumulatori di grande capacità

L'illuminazione elettrica, che allora cominciava ad imporsi nelle pubbliche vie e piazze ed anche presso i privati, non lasciò insensibile lo spirito d'iniziativa del Marzi, che, in concorrenza con l'allora Società Anglo-Romana del Gas, unica concessionaria della illuminazione della capitale, riuscì ad ottenere dal sindaco Gaetani, Duca di Sermoneta, il nulla osta per l'installazione di una centrale elettrica ad accumulatori.

Iniziata la distribuzione dell'illuminazione ad una vasta zona di Roma con batterie di accumulatori di grande capacità dal medesimo Marzi ideate e costruite costrinse la Società Anglo-Romana a ridurre le tariffe a tutto vantaggio della cittadinanza romana.
Telefono Altosonante Marzi

Altra invenzione del Marzi fu il "Telefono Altosonante Marzi"[3] con il quale si poté ottenere una potenza di ricezione talmente considerevole da poter percepire voci e suoni a distanze mai raggiunte, oltre i cento metri, per quei tempi incredibile. Il limite di potenza era solo imposto dal trasmettitore, che, come tutti i microfoni a base di polvere e granuli di carbone, non permettevano passaggi di corrente superiori a 0,4/0,5 ampere senza surriscaldarsi e bruciare.

La nuova intenzione del Marzi apriva alla telefonia un nuovo vasto campo di sfruttamento: non solo per le applicazioni militari, ma anche per tutte le altre molteplici applicazioni cui si sarebbe prestata nella vita civile. Il "Telefono Altosonante Marzi" destò il più vivo interessamento non solo nella Marina italiana, ma anche in molte altre marine estere ed in varie società di navigazione.

La Rassegna Universale, organo ufficiale dell'Esposizione di Marina ed Igiene, nell'anno 1914 pubblicava:

«Tre anni or sono nella circostanza dell'abituale suo passaggio per Venezia, S. M. l'Imperatore di Germania, dalla coperta del suo yacht "Hoenzollern" ascoltò, senza perdere una parola nè una cifra, una serie di ordini di artiglieria, che si trasmettevano con un Telefono Altosonante Marzi ad oltre un centinaio di metri di distanza dall'opposta poppa dell'incrociatore "Hamburg", quantunque spirasse un forte vento boreale, che tagliava normalmente la traiettoria della voce.»

A Roma, durante le elezioni amministrative, alcuni di questi telefoni, piazzati sul Corso Umberto I e precisamente dinanzi all'allora famoso Caffè Aragno, in piazza San Silvestro dove è il palazzo delle Poste, nella frequentatissima via delle Convertite ed in quella adiacente di S. Claudio, comunicavano direttamente al pubblico le notizie dello svolgersi delle elezioni, che venivano trasmesse dagli uffici del giornale La Vita.

Nell'occasione dell'arrivo a Parigi del Principe Scipione Borghese, vincitore del raid Pechino-Parigi, ebbe luogo al giardino delle Tuileries, una festa notturna con proiezioni di fotografie raccolte durante il raid. I Telefoni altosonanti Marzi, a gran voce, riproducevano al pubblico brani inneggianti agli arditi viaggiatori.
La trasmissione telefonica a distanza

Altra invenzione fu poi la soluzione del problema della trasmissione telefonica a distanza.

Marzi, fermò un giorno la sua attenzione sul classico orologio a sabbia, la clessidra, nel quale la sabbia, precipitando in misura uniforme di quantità e di tempo, marca l'ora che fugge. Il grande ostacolo che allora incontrava la radiotelefonia per entrare nel campo pratico e sostituirsi con vantaggio alla radiotelegrafia, era la mancanza di un microfono capace di sopportare correnti di una certa intensità. Gli ordinari microfoni, apparecchi delicatissimi, incapaci di sottostare a forti correnti, si dimostravano inadatti nelle trasmissioni radiotelefoniche, dove il superamento delle distanze era in proporzione diretta della corrente lanciata sull'antenna. Scartati i microfoni a carbone, si ricorse ai microfoni idraulici e fra tutti risultò il migliore quello ideato dal prof. Majorana, ma si dimostrò in pratica inutilizzabile per la sua estrema delicatezza e per le specialissime condizioni ambientali in cui doveva funzionare.

Il Marzi pensò di non far permanere nell'alveolo microfonico il carbone disgregato in modo da espellerlo in virtù delle vibrazioni della voce. Siccome tali vibrazioni in origine erano troppo deboli, si servì quale "relais amplificatore" del suo telefono altosonante, utilizzando le forti vibrazioni della membrana per modificare la distanza tra due carboni cilindrici messi tra di loro ad "ugnatura", di cui: il verticale forato per il passaggio dei granuli di carbone e l'orizzontale raccordato al centro della membrana vibrante del telefono altosonante, funzionante da relai. Ambedue i carboni, a loro volta, collegati ai capi di un circuito oscillatorio.

I granuli di carbone, discendendo attraverso il carbone verticale forato, vengono dall'altro carbone orizzontale più o meno compressi, modificando la resistenza della corrente ed ottenendo le variazioni nel circuito oscillatorio prodotte dal microfono trasmittente. Questo lavoro, essenzialmente meccanico, permette la caduta dei granuli di carbone prima di essere soggetti a riscaldamento. Con tale sistema fu possibile lanciare forti correnti sull'antenna ed aumentare sempre l'intensità con la messa in parallelo di più relai, azionati da un solo normale microfono.

Come raccontato nella ponderosa opera Tussen vonk en omroep di Bruno Brasseur e Guido Nys, del 2014, una piccola stazione trasmittente fu subito installata ed immediatamente si iniziarono saltuarie trasmissioni di sondaggio presso l'Ecole pratique de Télégraphie sans fil Goldschimdt, situata nella Villa Reale di Laeken (Bruxelles).

Sui giornali venne data notizia che un inventore italiano, l'elettrotecnico Giovanni Battista Marzi, avrebbe dalla stazione trasmittente di Laeken effettuato, ad ore stabilite, delle radio-audizioni. I tanti amatori, non solo del Belgio, ma anche dalle vicine nazioni, alle ore indicate erano presso i loro apparecchi in attesa dello straordinario evento.

Le Soir, Le XX Siècle, la Revue de Radiotelegraphie di Bruxelles e il quotidiano Le Matin di Parigi, riportarono l'avvenimento nelle prime pagine sotto grandi titoli: "Le milles et una nuits - Des concerts retentissants donnés a Bruxelles ils sont entendus jusqu'a Paris" - "Les expériences de telephonie sans fil en Belgique" : «une expérience sensationelle a eu lieu hier: on a téléphoné sans fil de cent kilometre et la voix a été merveilleusement entendue».

Ecco quanto si legge sul Courrier de l'Escaut del 31 marzo 1914:

«Malgrè Eiffel qui envoyait ses "bonsoir les amis" a toutes le postes francais d'Afrique, nous pûmes entendre à loisir l'orchestre de Laeken. Il exècuta ses plus beaux morceax; des artistes chanterent des duos ed des fragments d'opera et l'audition prit fin après d'une double et vibrante Brabanconne - Nous étion payès de nos peines. On eut voulu applaudir des deux mains et crier: bravo Signor Marzi, bravo les artistes; merci de nous avoir réservé la primieur de cette invention nouvel.»
Le commemorazioni
Lettere postali delle Poste Vaticane

Le Poste Vaticane il 27 dicembre 1966 hanno commemorato l'invenzione con l'emissione di due lettere postali in occasione dell'80º anniversario dell'installazione del primo Telefono Automatico del Marzi.
La milionesima carta telefonica

Il Vaticano ha festeggiato l'emissione della milionesima carta telefonica con due tessere telefoniche riportanti l'effigi di Papa Leone XIII e del Marzi e su ambedue il ricordo dell'installazione del primo Telefono Automatico Marzi nella Biblioteca Apostolica Vaticana.
Convegno Nazionale di studi scientifici - Tarquinia
Convegno su G.B. Marzi da sinistra: Ammiraglio Orazio Luigi Marzi, Ammiraglio Franco Papili, Presidente STAS Bruno Blasi, Prof. Ing. Francesco Fedi, Avv. Massimo Marzi - Archivio Famiglia Marzi
Convegno su G.B. Marzi da sinistra: Ammiraglio Orazio Luigi Marzi, Ammiraglio Franco Papili, Presidente STAS Bruno Blasi, Prof. Ing. Francesco Fedi, Avv. Massimo Marzi - Archivio Famiglia Marzi
Targa affissa su Palazzo Marzi in occasione del Convegno Nazionale di studi scientifici del 1991
Targa affissa su Palazzo Marzi in occasione del Convegno Nazionale di studi scientifici del 1991

Il 12 e 13 ottobre 1991 si è tenuto a Tarquinia, un convegno di studi scientifici su Giovanni Battista Marzi a cura della STAS Società Tarquiniense d'Arte e Storia, alla presenza dell'On. Luciana Castellina, pronipote dell'inventore, già coniugata con Alfredo Reichlin e madre di Lucrezia Reichlin e Pietro Reichlin, dell'allora Vice Presidente dell'Enel Ing. Alessandro Ortis, poi Presidente dell'Autorità per l'Energia Elettrica il Gas e il sistema Idrico, del Prof. Ing. Francesco Fedi, già Presidente del COST (European Cooperation in Science and Technology).

Le Forze Armate erano rappresentate dall'Amm. di Sq. Franco Papili, Presidente del Consiglio Superiore delle FF.AA. il quale non solo ha commemorato il grande inventore, ma ha anche sottolineato di essere presente per rendere giustizia: tutte le più importanti invenzioni del Marzi, infatti, non vennero pubblicate perché allora coperte dal segreto militare.
L'annullo Postale

Le Poste Italiane nel 1991 in occasione del "Convegno Nazionale in onore dello scienziato Giovanni Battista Marzi" hanno emesso un annullo speciale per ricordare l'evento.
Riconoscimenti nella stampa
Nella ricorrenza del cinquantenario dell'invenzione del Centralino Telefonico Automatico, la rivista settimanale di divulgazione scientifica Sapere n. 47 del 15 dicembre 1946, sotto il titolo L'italiano G. B. Marzi Primo inventore del Telefono Automatico rivendica all'Italia, in nome del Marzi, la priorità di tale invenzione.



fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Battista_Marzi

 
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Giuseppe Marzolo

Giuseppe Marzolo (Padova, 26 aprile 1821 – Padova, 2 gennaio 1867[1]) è stato un organaro e inventore italiano.
Biografia

Organaro padovano di modesta condizione sociale, apprese il mestiere da un sacerdote della sua città.

Fu autore di un'invenzione denominata organo stampatore e ripetitore. Si trattava di un congegno, che applicato ad un organo era in grado di stampare le note su un nastro di carta e di riprodurre le medesime note per un numero indefinito di volte. L'invenzione, che doveva essere straordinariamente complicata se contava un milione di molle, fu esposta nell'Esposizione nazionale dell'industria a Brera nel 1857 e premiata con medaglia d'oro. Fu nuovamente premiata con medaglia d'oro all'Esposizione nazionale di Firenze del 1861 ed esposta ancora a Parigi. L'organo stampatore e ripetitore è considerato un antenato del fonografo.

L'invenzione fu così descritta: "Ogni tasto, corrisponde a leve, che mentre schiudono i ventilabri, lasciano impronte sopra un cilindro metallico che rotando si traslata; intanto che uno speciale sistema segna i righi, le note, gli accidenti, gl'intervalli sopra una lista di fogli che esce uniformemente. Allora il cilindro impresso, può reagire sui tasti medesimi che lo impressero, riproducendo i medesimi suoni, il che oltre all'agevolare la lettura del tipo, fa che il maestro, divenuto semplice uditore, giudichi della propria composizione. Un registro cancellatore restituisce il cilindro allo stato di ricevere nuove impronte e ripeterle".[2]





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Mario Masciulli


Mario Masciulli, barone di Miglianico (Livorno, 15 settembre 1909 – Caracas, 16 ottobre 1991), è stato un militare italiano, ingegnere della Regia Marina e maggiore del Genio Navale; fu membro della famosa Xª Flottiglia MAS (Regno d'Italia) e direttore dell'Ufficio di Armi Subacquee Segrete durante la seconda guerra mondiale. Ricevette la medaglia d'argento al valor militare.
Biografia
Primi anni e carriera militare
1932, Accademia Navale di Livorno

Entrò nella Accademia Navale di Livorno nel 1925, risultando il primo nelle qualificazioni degli esami di ammissione fra un gruppo numeroso di aspiranti. In seguito fu inviato al quotato Politecnico di Torino dove ricevette, con lode, il titolo di ingegnere industriale; conseguì dopo un dottorato in ingegneria meccanica.
Seconda guerra mondiale

«“... In pari tempo, valendomi dell'opera silenziosa, tenace e competente di un tecnico di grande capacità, il Maggiore armi navali Mario Masciulli..."»

(Junio Valerio Borghese[1])

Prima dell'inizio della guerra, nel 1939, Masciulli compì studi e investigazioni tecniche a bordo di diverse unità da guerra, come la nave da battaglia Andrea Doria e il sommergibile Scirè, dove conobbe e strinse amicizia con il suo comandante, principe Junio Valerio Borghese. Nel 1940 fu richiesto direttamente da Borghese per formare parte della recentemente ristrutturata "Xª Flottiglia MAS".
Lavori sul Siluro a Lenta Corsa

Insieme al capitano G.N. Travaglini, Masciulli fu assegnato all'Ufficio di Armi Subacquee Segrete, dove fu incaricato del perfezionamento dei primi siluri umani con la sigla "SLC" (Siluro a Lenta Corsa), disegnati originalmente da Teseo Tesei e soprannominati "maiali", eliminando le cause di molti inconvenienti; si cominciò subito la costruzione di un prototipo analogo al precedente, ma di caratteristiche notevolmente superiori, frutto della esperienza acquistata e del progresso della scienza e della tecnologia industriale più aggiornata. Lanciato da un sommergibile più grande, lo SLC era manovrato da due uomini in una cabina scoperta che, giunti vicini a una nave nemica, collocavano allo scafo una testata esplosiva con un temporizzatore.

Altre armi, suggerite da particolari piani offensivi, furono pure progettate e costruite: mine acustiche e bombette incendiarie, che i piloti avrebbero disseminato nell'interno dei porti nemici in cui fossero penetrati. Il maggior risultato ottenuto con dei "maiali" avvenne il 19 dicembre del 1941, quando i tenenti di vascello Luigi Durand de la Penne e Emilio Bianchi riuscirono a portare i loro SLC fino al porto di Alessandria d'Egitto, dove colpirono severamente le grandi corazzate da battaglia britanniche HMS Valiant e HMS Queen Elizabeth, mettendole fuori uso.
Motoscafo Armato Silurante
Coppia di MAS in esercitazione, 1918 circa

Come direttore dell'Ufficio di Armi Subacquee Segrete, Masciulli si occupò anche del perfezionamento costante del Motoscafo Armato Silurante (MAS), battelli da 20 a 30 tonnellate con un equipaggio di 10 o 12 marinai e armati con due SLC ed altri due siluri convenzionali, oltre che di varie mitragliatrici e qualche volta un piccolo cannone a tiro rapido, dotati di potenti motori che permettevano una velocità di più di 45 nodi e una veloce manovabilità, che rendeva difficile alle batterie nemiche colpirli.
Masciulli nel 1941, come direttore dell'Ufficio di Armi Subacquee Segrete
Il Siluro San Bartolomeo
Esemplare di "Siluro San Bartolomeo" della seconda guerra mondiale, esposto nel Submarine Museum, Gosport

L'impiego degli SLC, sia nelle prove in mare che nelle missioni eseguite, aveva evidenziato diverse limitazioni, in parte dovute al design originario del mezzo (per esempio il fatto che il secondo operatore viaggiava completamente in immersione durante l'azione), tanto da considerare necessario procedere a una completa rielaborazione del progetto originario. Gli studi tecnici relativi vennero affidati a Masciulli, ora maggiore del Genio Navale, sempre con la collaborazione del capitano Travaglino (inviato anche sul piroscafo Olterra come responsabile dell'officina segreta ivi installata) e con la consulenza dell'ingegnere Guido Cattaneo della C.A.B.I. di Milano, su specifiche fornite dal Comando della Xª Flottiglia MAS.

I migliori materiali disponibili e la nuova tecnologia sviluppata parallelamente portarono a un mezzo molto superiore rispetto agli SLC, al punto di non poterlo neppure identificare più come una derivazione del "maiale". Avvalendosi anche della collaborazione della Direzione Armi Subacquee dell'Arsenale de La Spezia, la realizzazione del prototipo venne curata dall'Officina Siluri di San Bartolomeo, da cui la denominazione ufficiale del nuovo tipo di semovente: Siluro San Bartolomeo (SSB).

L'8 settembre 1943 il nuovo governo italiano di Pietro Badoglio annunciò la firma di un armistizio con gli Alleati; gli attacchi a Gibilterra, usando il nuovo Siluro San Bartolomeo, e una incursione programmata verso la città di New York, negli Stati Uniti, furono di conseguenza sospesi. Alla data dell'armistizio erano disponibili tre esemplari del SSB, di cui due risulta siano rimasti a La Spezia ed uno inviato in Adriatico a Venezia, dove venne ritrovato alla fine della guerra. I due SSB della base di La Spezia vennero assegnati al "Gruppo Operativo della Castagna" (una vecchia batteria posta sul lato occidentale della rada) della nuova Xª Flottiglia MAS e posti agli ordini del tenente di vascello Augusto Jacobacci, già designato per l'azione contro Gibilterra pianificata per il 2 ottobre 1943.
Piano descrittivo del Siluro San Bartolomeo
Del libro Decima Flottiglia MAS omaggiato da Borghese a Masciulli nel 1962. Si legge: “Al Colonnello Mario Masciulli (barone di Miglianico) in ricordo di quei tempi…” J.V.Borghese
Dopo la guerra

L'ingegnere Masciulli rimase ferito a una gamba e ad entrambe le mani a causa di un incidente tecnico nel 1943, mentre faceva una prova personale a bordo di un SLC. Dopo la guerra ottenne la promozione a colonnello delle Armi Navali nella Riserva. Mantenne sempre un affettuoso contatto con il principe Borghese. In seguito diventò, per vari anni, direttore tecnico di alcuni stabilimenti della Pirelli, prima a Napoli, dopo a Terni, a Narni e infine a Milano, dove divenne direttore commerciale. Nell'impresa già aveva evidenziato la sua alta preparazione e gran capacità quando, come direttore in capo dell'Ufficio Armi Subacquee Segrete, utilizzò i materiali della Pirelli per l'elaborazione di scafandri e tute di gomma utilizzate dagli uomini del "Gruppo Gamma".

Nel 1957 conobbe a Milano il vice ammiraglio venezuelano Carlos Larrazabal Ugueto, allora capo della Marina militare del Venezuela (Armada Nacional de Venezuela), intento a ordinare all'Italia varie fregate missilistiche ed armi navali di vario tipo; Ugueto era fratello di Wolfgang Larrazábal che, nel 1958, divenne capo della giunta civico-militare che si pose alla guida del Venezuela dopo il colpo di Stato che rovesciò il generale Marcos Pérez Jiménez. Masciulli fu così selezionato, per le sue profonde conoscenze militari e tecniche, per dare lezioni agli allievi della Scuola Navale venezuelana e decise di stabilirsi in Venezuela, dove poi fondò varie imprese, insieme ad altri appartenenti alla Regia Marina e alle Forze armate italiane durante la guerra.

Morì a Caracas, di cause naturali, il 16 ottobre del 1991. Lasciò vari figli e nipoti.


https://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Masciulli
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