| Ritornano le Riflessioni Inattuali del Prof. Galimberti. Buona lettura!
3. Consumismo
La nostra cultura, che ha assunto il denaro come unico generatore simbolico di tutti i valori, si è iscritta per intero nel registro dell’economia, che sembra non abbia altro obbiettivo se non la crescita infinita, dimenticando che se le risorse della terra sono limitate, questo obbiettivo è destinato a naufragare. Nel frattempo da questa cultura gli uomini sono percepiti unicamente come produttori e consumatori, in un circolo che non esito a definire vizioso, dove se non consumi non si produce, e se non si produce si perdono posti di lavoro: E siccome il lavoro è diventato l’unica legittimazione sociale, va da sé che chi non lavora non può evitare l’emarginazione e assaporare l’insignificanza della propria esistenza. Quindi: produzione e consumo a ritmi sempre più accelerati. Qui fa la sua comparsa quel principio nichilistico intrinseco nel consumo che tende a portare le cose il più rapidamente possibile al niente. Da sempre le cose si consumano e diventano inutilizzabili, ma, nel ciclo produzione-consumo che non può interrompersi, esse sono pensate in vista di una loro rapida inutilizzabilità. La “data di scadenza” non riguarda solo i generi alimentari, ma anche i telefonini, i computer, gli iPad, che hanno nei loro ingranaggi il principio di autodistruzione, in modo che concludano il più rapidamente possibile la loro esistenza, per cui la fine delle cose è pensata sin dall’inizio come il loro fine. In questo processo, dove il principio della distruzione è immanente alla produzione, l’uso delle cose deve coincidere il più possibile con la loro usura. E se questo non è possibile per l’intero prodotto perché nessuno l’acquisterebbe, è sufficiente che lo sia per i pezzi di ricambio, il cui costo deve essere portato a livelli tali che persino piccole riparazioni vengano a costare, se non di più, almeno come un nuovo acquisto.
Se questo non basta sarà la moda a persuaderci che anche se il nostro telefonino tecnicamente funziona ancora nel migliore dei modi, è il caso di sostituirlo, perché “socialmente inadatto” e in ogni caso “non idoneo al nostro prestigio”. E se di tutte queste cose non ne sentiamo il bisogno? Allora la produzione non si limiterà a produrre beni, ma, con la pubblicità, provvederà a produrre anche nuovi bisogni, a proposito dei quali, il più grande pubblicitario del secolo scorso Frédéric Beigbeder, un giorno prese a riflettere sulla sua professione e scrisse: “Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l’universo. Io sono quello che vi vende tutta quella merda. Quello che vi fa sognare cose che non avrete mai. Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità è che non resta mai nuova. C’è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché chi è felice non consuma.” Si conferma così il tratto nichilista della nostra cultura economica che eleva il non-essere di tutte le cose a condizione della sua esistenza, il loro non permanere a condizione del suo avanzare e progredire. E allora come dar torto al filosofo Günther Anders per il quale: “L’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via, finirà per trattare anche se stessa come un’umanità da buttar via”. E già ci siamo arrivati.
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