IL FARO DEI SOGNI

Categoria:Inventori italiani

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La morte

Nel 1852, a ottantotto anni, ebbe un malore durante una seduta del processo e "per commiserazione venne messo fuori causa e ricondotto semivivo a casa". Poco dopo, affetto da bronchite e assai amareggiato dalle accuse,[49] si spense a Napoli il 26 settembre 1852.[51]

Nelle ultime pagine della sua autobiografia, Cagnazzi mostra, nella sua scrittura, tutti i segni dell'età avanzata. Tende, infatti, a ripetere alcuni fatti e considerazioni. Negli ultimi momenti della sua vita, rilesse le meditazioni contenute ne I precetti della morale evangelica, un libro scritto da lui stesso e che lo aveva reso assai famoso tra i suoi contemporanei.[52][53]

Come raccontato dal nipote Luca Rajola Pescarini in una lettera a Ottavio Serena, il funerale di Cagnazzi fu modestissimo. Vi presero parte i soli parenti, dal momento che anche gli amici e coloro che erano stati beneficiati da Cagnazzi avevano paura di comprompettersi partecipando ai funerali di una persona finita sotto processo e "guardata a vista da un feroce". Il suo corpo fu sepolto a Napoli nella cappella gentilizia dei Rajola Pescarini.[54]

Dopo il 1860, alla targa commemorativa presente all'interno della Cattedrale di Altamura[55] fu aggiunto:

«Vexationibus politicis quam sevis confectus
Neapoli VI Kal. Octobris A. D. MDCCCLII
aetatis suae LXX VIII
diem obiit supremum»

(Targa commemorativa della Cattedrale di Altamura; cfr. Lamiavita, p. 330, nota 321)
L'autobiografia La mia vita

L'opera fondamentale che fornisce i minimi dettagli della vita di Cagnazzi è la sua autobiografia intitolata La mia vita. Quest'opera rimase inedita fino al 1944 allorché, grazie agli studi dello storico Alessandro Cutolo, fu pubblicata per la prima volta con le preziose note esplicative dello stesso Cutolo. Tali note sono il frutto di un minuzioso e diligente studio di Cutolo, svolto negli archivi di mezza Italia alla ricerca di uomini, opere e testimonianze che il Cagnazzi cita. L'opera di Cutolo è ancor più ragguardevole se si considera che perlomeno una parte della sua ricerca fu svolta durante la seconda guerra mondiale, con tutte le difficoltà che vi erano in quel periodo di consultare "biblioteche e archivi sfollati o irraggiungibili".[56]

La sua autobiografia cominciò a essere scritta nel 1807 e, com'è scritto nella prima pagina, Cagnazzi non la scrisse perché avesse una larga diffusione ma "per comunicarle confidenzialmente ai suoi amici e discendenti".[57] Inoltre nell'ultima fase della sua vita, Cagnazzi ne scrisse l'ultima parte e le parti precedenti furono "riviste e corrette".[58]

Essa fu conservata in originale dai suoi eredi diretti (i quali, però, già ai tempi di Cutolo avevano perso l'originale e non ne possedevano che una "copia scorretta"). Come raccontato da Cutolo nell'introduzione all'autobiografia, lo storico Ottavio Serena ne fece eseguire una trascrizione che in seguito fu ceduta dai suoi figli Gennaro e Nicola Serena di Lapigio ad Alessandro Cutolo. Cutolo ne curò la pubblicazione mantenendosi fedele al testo, usando il corsivo dove Cagnazzi sottolineò il testo e rispettando la sua ortografia.[57]

Nella stessa introduzione all'autobiografia, Cutolo fa delle acute osservazioni critiche sul testo di Cagnazzi e mette in guardia quanti vogliano servirsene in modo acritico, giurando in verbo magistri: in primo luogo, secondo Cutolo, Cagnazzi tende spesso a esaltare la propria opera e la propria preparazione e a disprezzare quella degli altri, tanto che (sempre secondo Cutolo) i personaggi delle corti di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat e della curia di Napoli "appaiono come un'accozzaglia di gente senza freni morali e senza alcuna preparazione culturale o politica".[58]

In secondo luogo l'autobiografia, come detto, fu completata nonché corretta e rivista nell'ultima fase della sua vita, quando era ormai molto anziano e "tentava di togliersi di dosso quella taccia di rivoluzionario che gli amareggiava, con le incognite di un processo politico, l'esistenza e l'obbligava a riesaminare questi suoi ricordi che avrebbero potuto costituire un pericoloso capo d'accusa nelle mani di un giudice". In particolare, Cagnazzi si presenta quasi sempre come coinvolto di suo malgrado all'interno di alcuni eventi rivoluzionari. Accettò le cariche della Rivoluzione altamurana per paura. Fu costretto ad accettare le cariche elargitegli da Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat. Secondo Cutolo, "le disgrazie avevano creato uno stato angoscioso di timore e questa disposizione dell'animo non era la migliore perché nei suoi ricordi potesse rispettare scrupolosamente la verità obiettiva" e per questo sarebbe stato "costretto a formulare giudizi non sempre esatti su personaggi e su avvenimenti ed a rinnovare la sua attiva partecipazione a quei movimenti che tendevano a rinnovare le coscienze del Mezzogiorno d'Italia negli anni del Risorgimento italiano". A conferma di ciò, Cutolo cita alcune imprecisate lettere di esuli napoletani i quali indirizzavano i loro amici al Cagnazzi, dipingendolo come uno dei più autorevoli e dei più entusiasti fautori del nuovo ordine di cose" e questo secondo Cutolo basterebbe a invalidare alcune affermazioni di Cagnazzi in cui si rappresentava come costretto o comunque travolto contro la sua volontà dagli eventi.[58]

Al di là delle interpretazioni, emerge incontrovertibilmente come Cagnazzi seppe barcamenarsi tra i frequenti sconvolgimenti, rivoluzioni e restaurazioni del suo periodo mantenendo la spiccata abilità di adeguarsi al nuovo stato di cose; dimostrò una notevole schiettezza di pensiero, avversò i progetti e le risoluzioni che, secondo lui, nuocevano alla nazione e per questo spesso era inviso ai ministri e ai funzionari del regno, i quali a volte sparlavano di lui. Indubbiamente fu una mente illuminata e simpatizzante delle libertà e della costituzione (nonostante questo sia sempre celato nella sua autobiografia), e pertanto andrebbero analizzate criticamente alcune sue affermazioni, considerando anche che il suo insegnante prediletto, Francesco Conforti (con il quale amava tanto conversare[5]), fu addirittura giustiziato per i fatti del 1799. Ma emerge anche dal suo racconto quanto, anche nella parte iniziale della sua vita, fosse credente. Mantenne inoltre una costante e profonda amicizia con lo scienziato Giuseppe Maria Giovene, un uomo profondamente religioso. L'aver inventato di sana pianta alcuni eventi della sua vita non sembra conformarsi al suo carattere di schietto letterato e infaticabile ricercatore della verità e pertanto l'autobiografia di Cagnazzi può considerarsi, nella sua interezza, corretta e precisa, fatta eccezione per alcune parti riviste e per alcune opinioni aggiunte in seguito.

A far propendere per una sua inclinazione per così dire "rivoluzionaria" sarebbe, invece, la sua presunta partecipazione alla massoneria, perlomeno nel periodo antecedente al 1794. Secondo alcune fonti, infatti, Annibale Giordano lo citò come membro della libera muratoria.[59][60]

Inoltre Cagnazzi ebbe un atteggiamento ambivalente e seppe mantenersi in buoni rapporti o persino aiutare sia personaggi conservatori legati alla monarchia borbonica (si pensi ad esempio ad Alessandro Nava), sia fautori ed esponenti di stravolgimenti rivoluzionari come la Repubblica Napoletana del 1799, il periodo dei re Napoleonidi o la Costituzione del 1821.[45]
La testimonianza di Vitangelo Bisceglia

Lo storico Alessandro Cutolo, nell'introduzione all'autobiografia di Cagnazzi, sembra non dare molto credito al racconto di Cagnazzi relativamente ai fatti del 1799 ad Altamura; in particolare, sembra non credere al fatto che Cagnazzi cercò di placare la gente e mantenerla in calma. Inoltre afferma come Cagnazzi fu nominato Cancelliere della Municipalità "ed egli accettò la carica".[61]

Nonostante i dubbi di Cutolo, il racconto di Cagnazzi è confermato per filo e per segno dalle memorie del filoborbonico Vitangelo Bisceglia, scritte poco dopo i fatti del 1799 e che Cutolo probabilmente non conosceva. Bisceglia racconta infatti come Cagnazzi fu obbligato a uscire dalla Cattedriale e recarsi nella piazza per dire la sua; racconta anche come Cagnazzi fu accusato da alcuni di essere un aristocratico e pertanto non meritevole di essere ascoltato. Inoltre racconta che Cagnazzi cercò di disimpegnarsi dalla carica di Cancelliere (segretario) della Municipalità adducendo come motivazione "la sua gracile salute" ma non gli fu consentito e dovette accettarla dal momento che era "delitto" rifiutare le cariche, proprio come fece lo stesso Bisceglia. Un tale comportamento non sembra essere esattamente quello di un fervido rivoluzionario, per quanto illuminato, e questo è ulteriore conferma dell'attendbilità dell'autobiografia di Cagnazzi.[12]

«Debbo quindi rendere giustizia alla verità ed a quel degno uomo. Egli non brigò, né pretese mai l'ufficio, al quale l'aveva destinato il Governo Provvisorio di Napoli. Non era da quello conosciuto che per fama, e per le sue dotte produzioni su di varii rami di letteratura.»

(Vitangelo Bisceglia in Bisceglia, p. 332)

Nella stessa introduzione, Alessandro Cutolo suggerisce che "i francesi" del Governo Dipartimentale di Napoli decisero di dare a Cagnazzi la carica di Cancelliere della Municipalità di Altamura perché lo consideravano un progressista, e questo secondo Cutolo indurrebbe a dubitare di alcune narrazioni di Cagnazzi in cui si dipinge come innocente e trasportato di suo malgrado. In realtà, come Cagnazzi stesso racconta, fu Attanasio Calderini a suggerire i nomi al Governo Dipartimentale e quest'ultimo non conosceva Cagnazzi che per le sue pubblicazioni "su di varii rami di letteratura".[62][63]




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Cagnazzi e il mondo napoletano
Raffigurazione di Luca de Samuele Cagnazzi, esposta presso l'Archivio Biblioteca Museo Civico (A.B.M.C.), in piazza Zanardelli, ad Altamura

Come Cagnazzi stesso racconta nelle sue memorie, poco dopo il 1787 ebbe modo di conoscere lo scienziato Alberto Fortis che era di ritorno da un viaggio nei Balcani e al quale, a Molfetta, fu mostrato da Giuseppe Maria Giovene il Pulo di Molfetta; l'amicizia proseguì durante la permanenza di Fortis nel Regno di Napoli e questo cambiò notevolmente l'animo e la predisposizione di Cagnazzi nei confronti del mondo accademico napoletano. In un certo senso lo rese più altezzoso e sprezzante della rozzezza dei dotti che vi erano a Napoli. Fortis gli aveva fatto comprendere quanto fossero impreparati quelli che fino ad allora erano stati i suoi insegnanti.[64]

L'amicizia con Fortis proseguì, tanto che Fortis fu ad Altamura e, durante la sua permanenza, Cagnazzi e Fortis fecero degli scavi archeologici all'interno della sua tenuta in contrada San Tommaso (odierna via Santeramo). E durante tali scavi, Fortis ebbe dei diverbi con Tommaso Fasano, Nicola Columella Onorati e altri letterati napoletani, e scrisse articoli assai critici nei loro confronti su Il nuovo giornale enciclopedico di Vicenza. Cagnazzi riconobbe allora la netta superiorità di Fortis "e sommamente quella che chiamasi frnachezza di pensare nella letteratura". Fortis indusse Cagnazzi a scrivere alcuni estratti per lo stesso giornale di Vicenza.[65] Dopo quest'esperienza, Cagnazzi acquistò fiducia nelle sue capacità, ma forse anche una certa dose di superbia.[66]

Lo storico Cutolo, nell'introduzione all'autobiografia di Cagnazzi, mette in guardia dall'assumere acriticamente tutto quanto fu scritto da Cagnazzi, in quanto lo stesso "è portato spesso a magnificare la propria opera, abbassando in conseguenza quella degli altri (sicché molte volte, attraverso la prosa di lui, le corti di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat e la curia di Napoli ci appaiono come un'accozzaglia di gente senza freni morali e senza alcuna preparazione culturale o politica)".[67]

Se una tale valutazione può essere ritenuta plausibile per le descrizioni di uomini politici o letterati, non altrettanto potrebbe dirsi nelle valutazioni di personalità accademiche o scientifiche in senso stretto. In questo campo, Cagnazzi riesce quasi sempre a smascherare in un certo senso gli autentici studiosi e ricercatori dai sedicenti tali e dagli inetti. Non sono pertanto da sottovalutare le sue valutazioni e critiche sul mondo accademico napoletano, valutazioni molto negative e che si ripetono lungo tutta la sua autobiografia. Secondo Cagnazzi, a Napoli "di tutto si voleva fare mistero" e "io non aveva mai potuto avere una chiara idea del sistema mineralogico stando in Napoli".[64] Anche nell'ultima parte della sua vita, allorché prese parte alla Terza riunione degli scienziati italiani del 1841, a un certo punto si cominciò a fare proposte per la sede della riunione che si sarebbe tenuta nell'anno 1843. Fu sventolata la possibilità che si tenesse a Napoli, ma Cagnazzi cercò di "dissuadere gli Scienziati in tale determinazione", considerando Napoli inadatta. Secondo le parole di Cagnazzi, "una prova del merito letterario non piace qui [a Napoli], ove vale più l'intrigo e l'impostura".[68]

Le critiche alla validità dei metodi e alla qualità dei libri pubblicati nel Regno di Napoli non arrivavano solo da Fortis o da Cagnazzi, ma era opinione alquanto diffusa in quel periodo. A titolo di esempio, Nicola Columella Onorati ricevette aspre critiche per i suoi metodi e il contenuto dei suoi libri, tanto che il compilatore della Biblioteca Italiana disprezzò in tal modo le opere di Onorati:

«Non è che nel Regno delle Due Sicilie non v'abbiano libri, e non se ne pubblichino di tratto in tratto sopra argomenti interessanti la pubblica prosperità. Egli è che codesti libri sono cattivi e di tal carattere ne ha stampati parecchi il P. Columella, de i quali tutti basta a far prova quello, a cui abbiamo estratte le poche indicazioni qui esposte relativamente al governo dei bachi.»

(LetteraPNC, p. 9)
L'appartenenza alla massoneria

Secondo alcune fonti, Cagnazzi sarebbe entrato a far parte della massoneria. L'informazione è riportata all'interno della monumentale opera storica di Ruggiero di Castiglione, il quale ha rintracciato alcune fonti secondo cui Cagnazzi avrebbe fatto parte della locale loggia di Altamura (chiamata "Oriente di Altamura").[60] La reale esistenza di tale loggia nella città di Altamura non è data per certa.[69]

Stando a quanto riportato da Di Castiglione, "dopo la prima inchiesta della Giunta di Stato sulla cosiddetta congiura giacobina del 4 ottobre 1794, venne indicato da Annibale Giordano quale membro della libera muratoria".[59] Pertanto la sua appartenenza, vera o presunta che sia, sarebbe da ascriversi al periodo antecedente ai fatti del 1799, anche se non può escludersi che possa averne fatto in parte anche in seguito. Si noti d'altro canto che la monumentale opera di ricerca di Di Castiglione non è esente da imprecisioni, e alcune di queste sono presenti anche nella biografia su Cagnazzi dallo stesso compilata.[70]
Contributi in campo scientifico e tecnico

Nel corso della sua vita Cagnazzi ebbe modo di studiare e scrivere di molti argomenti; alcuni scritti furono il frutto di alcune assegnazioni che ricevette dal governo del Regno di Napoli e dal successivo Regno delle Due Sicilie, mentre i rimanenti furono il frutto di un sentito desiderio di approfondimento e di ricerca della verità che a volte, come lui stesso racconta nella sua autobiografia, gli valsero l'inimicizia di alcuni funzionari e ministri del regno.[45] Dalla lettura della sua autobiografia, colpisce che Cagnazzi sia riuscito a conciliare la notevole produzione scientifica con i numerosi e gravosi impegni politici e burocratici come funzionario del Regno di Napoli e del Regno delle Due Sicilie.

Non è scorretto affermare che il suo studio fu caratterizzato da una certa dispersività, e lo storico Alessandro Cutolo ha ben sintetizzato questa sua caratteristica nelle prime righe della sua introduzione all'autobiografia di Cagnazzi.

«Luca de Samuele Cagnazzi ebbe un versatile ingegno, più atto ad estendere la somma delle proprie conoscenze che ad approfondirle.»

(Alessandro Cutolo, in Lamiavita, Introd., p. IX)

Condivisibili sono le affermazioni di Antonio Jatta che, nell'anno 1887, curò una sezione dedicata a Cagnazzi sul periodico Rassegna pugliese di scienze, lettere ed arti e che, al di là delle imprecisioni, afferma che Cagnazzi fu "più pensatore che ricercatore" e che "ebbe spesso l'intuizione del naturalista".[51]
Il tonografo
Lo stesso argomento in dettaglio: Tonografo.
Il tonografo (originale), presentato nel 1841 da Cagnazzi e conservato presso il Museo nazionale della scienza e della tecnologia "Leonardo da Vinci" a Milano

Intorno al 1841, Cagnazzi costruì uno strumento da lui chiamato "tonografo" e avente lo scopo di "misurare" il tono della voce umana. Lo scopo dello strumento era quello di aiutare i cantanti o i "declamatori" a rendere riproducibili le proprie performance. L'apparecchio non è altro che un "flauto con fondo mobile" con una scala graduata e un pistone che modifica il tono dello strumento. La voce umana viene accordata con lo strumento ed è possibile scrivere su uno spartito le varie tonalità di una particolare performance.[71]

Come raccontato da lui stesso, Cagnazzi costruì il tonografo "colle mie mani" e scrisse un'opera in cui ne spiegava il funzionamento e lo scopo. Tale opera fu inizialmente scritta in latino, dal momento che Cagnazzi voleva che la sua invenzione si diffondesse in Germania. In seguito, Cagnazzi fece tradurre l'opuscolo in italiano, dal momento che fu invitato a esporre la sua invenzione alla Terza riunione degli scienziati italiani del 1841.[71][72][2] Sembra ragionevole ritenere che l'invenzione di Cagnazzi non ebbe (perlomeno non all'estero) tutto il successo e la diffusione che Cagnazzi desiderava, considerato l'esiguo numero di citazioni in pubblicazioni scientifiche italiane ed estere.
La macchina elettrica

Già dai tempi in cui insegnava presso l'Università degli Studi di Altamura, Cagnazzi aveva introdotto un innovativo modo di insegnare le discipline scientifiche, non molto diffuso nel Regno di Napoli ma tipico del Settecento, consistente nel mostrare le esperienze fisiche e naturali agli studenti piuttosto che inculcare solo semplici insegnamenti teorici. Dal momento che non vi erano nel Regno di Napoli in quel periodo maestranze in grado di produrli, era lo stesso Cagnazzi a costruirli con le proprie mani (come testimoniato da alcune fonti). I laboratori più esperti nella costruzione di tali macchine erano quasi tutti situati nel Regno Unito, che in quel periodo deteneva il primato.[73]

Giuseppe Giovene afferma in una sua pubblicazione di aver ricevuto da Cagnazzi "due elettrometri atmosferici uno a paglie sottili, l'altro a paglie più grosse lavorati con estrema eleganza, ed esattezza, secondo i principi e secondo la gradazione del sig. Volta".[74] Inoltre Cagnazzi vide una pila di Volta portata a Napoli da Carlo Amoretti e ne costruì una identica.[73][75] In un altro scritto, Giovene riferisce di una pila di Volta costruita "a perfezione" da Cagnazzi.[76]

Nella seconda metà del Settecento, alcuni ricercatori erano intenti a perfezionare le macchine che producevano elettricità statica. Uno dei problemi principali era la perdita di ciò che allora era chiamato "fluido elettrico" a causa dello scarsa capacità isolante dei materiali e dell'umidità. Inoltre, i primi modelli di macchina elettrica utilizzavano una sfera che spesso si surriscaldava e lo strumento poteva diventare molto pericoloso; fu in seguito migliorato sostituendo la palla con un cilindro. I nuovi modelli provenivano perlopiù dal Nord Europa, mentre in Italia gli strumenti erano riprodotti da artigiani locali sulle sembianze di quelli esteri.[73]

Anche Cagnazzi si interessò di queste macchine, avendo letto un articolo di padre Bartolomeo Gandolfi del 1797, pubblicato sull Antologia Romana e ricopiato sul numero del 1º giugno del Giornale letterario di Napoli che Cagnazzi leggeva ad Altamura. Cagnazzi fece alcune esperienze nella costruzione di tali macchine e dai suoi risultati scaturì una Lettera a Padre Gandolfi pubblicata sul Giornale letterario di Napoli di febbraio 1798.[73]

In tale sua lettera, Cagnazzi mostrava alcune accortezze che avrebbero consentito di migliorare non la potenza, ma l'efficienza della macchina elettrica e i costi della sua costruzione. Tale suo studio fu sintetizzato e riproposto (senza aggiungerci nuove caratteristiche) da Cagnazzi durante il suo periodo a Firenze: in una memoria del 16 settembre 1801 dal titolo Miglioramento delle macchine elettriche letta durante una riunione dell'Accademia dei Georgofili, Cagnazzi descrisse sinteticamente i suoi miglioramenti e allegò anche un disegno autografo della macchina che aveva costruito. Tra l'altro tale macchina era composta da due coni piuttosto che da un cilindro e l'efficienza della macchina, secondo la testimonianza dell'autore, era eccellente considerati anche i costi.[73]

I miglioramenti di Cagnazzi, così come quelli di altri italiani che si cimentarono con le macchine elettriche, non ebbero alcun seguito probabilmente perché gli inventori erano assai lontani dai posti (Regno Unito e Germania e Francia) dove le macchine elettriche venivano prodotte in serie e rivendute in tutta Europa.[73]




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Il microscopio solare

Un'altra testimonianza dell'abilità di Cagnazzi nel costruire strumenti scientifici e di come fosse lui stesso a costruirli è fornita dallo stesso Cagnazzi all'interno della sua autobiografia. Avendo visto un microscopio solare (una specie di camera oscura in grado di ingrandire gli oggetti[77]) a Napoli nel mese di dicembre del 1834, Cagnazzi decise di costruirne uno. Cagnazzi racconta come già dal 1804 era intento a "fare delle lentine microscopiche col tornio, alcune delle quali regalai a D. Giuseppe Poli". Dopo circa sei mesi, Cagnazzi terminò il microscopio solare e racconta come lo strumento era in grado di ingrandire "circa un milione di volte" l'immagine che veniva riflessa su di una parete. Nella sua autobiografia, Cagnazzi fornisce ulteriori dettagli sullo strumento.[78]

Egli racconta anche come nell'anno 1837, il professor Sangiovanni, vedendo il suo microscopio solare, desiderava averne uno simile. Cagnazzi gli promise di costruirgliene uno ma, a causa dell'epidemia di colera, Sangiovanni ritornò nel suo paese. Fu allora incaricato della faccenda il cavalier Quadri e ne parlò col ministro del regno Nicola Santangelo.[79]

Cagnazzi preferiva darlo personalmente a Sangiovanni e Quadri prese appuntamento con Cagnazzi per questo scopo. Sangiovanni non si presentò ma, al suo posto, vennero il professore di fisica Giardino assieme al costruttore di macchine Bandiera e a un ottico, incaricati da Santangelo di studiare lo strumento di Cagnazzi e farne una copia. Cagnazzi restò profondamente offeso dal comportamento di Santangelo, il quale gli mostrò molta inimicizia nell'ultimo periodo della sua vita.[80]

Un anno dopo, Cagnazzi donò lo strumento al conte Giuseppe Ricciardi, "in casa di cui furono fatte molte osservazioni in oggetti botanici, zoologici ed anche chimici da professori ed accademici con somma loro soddisfazione".[80]
Il miglioramento dell'igrometro di Saussure
Ricerche geologiche

In uno suo scritto dal titolo Congetture su un antico sbocco dell'Adriatico per la Daunia fino al seno tarantino (1807), Cagnazzi si occupò anche di geologia. Non è ancora chiaro quale sia il valore (anche storico) dello studio condotto da Cagnazzi, anche se non mancano, a quanto pare, alcuni errori nel suo studio.[81]
Esperimenti agronomici

Cagnazzi eseguì anche un esperimento di agronomia in uno dei suoi possedimenti in contrada San Tommaso (odierna via Santeramo). In particolare, dopo aver letto uno scritto di Vitangelo Bisceglia dal titolo Relazione su esperienze fatte circa la semina e la cultura del frumento (1796), Cagnazzi cercò di quantificare qual era la quantità di sementi che consentiva di ottenere il massimo della resa con la minima quantità di seme[82] e a tale scopo impostò una sorta di esperimento agronomico basato su quanto già fatto dal marchese Luigi Malaspina di Sannazzaro.[83][84] Inoltre, Cagnazzi verificò anche se la "concia" del seme (cioè il preventivo inumidimento del seme con letame) aumentasse la resa del seme. Cagnazzi mise in ammollo i semi di grano in una soluzione con letame di pecora per 48 ore e successivamente li asciugò stendendoli per terra; dopo il trattamento, i semi mostravano la caratteristica barbetta e dopo la semina, le piante spuntavano giò dopo pochissimi giorni.

Il campo utilizzato aveva un'estensione di un tomolo (4.116 m²) e fu diviso in quattro strisce di uguali dimensioni, nei quali furono piantate diverse proporzioni di semi. Nella prima striscia 4/16 di tomolo (il quantitativo normalmente utilizzato dai contadini), nella seconda 3/16, nella terza 2/16 e nella quarta e ultima striscia 1/16; la semina ebbe luogo il 10 novembre 1796.[85] Nonostante i buoni propositi di Cagnazzi, l'eccezionale abbondanza di topi campestri di quell'annata distrusse buona parte del raccolto; inoltre le eccezionali piogge di maggio e giugno 1797 contribuirono a peggiorare ulteriormente la situazione. Questo però non impedì a Cagnazzi di trarre alcune utili conclusioni sull'esperimento.[84]

In particolare, Cagnazzi notò che il rapporto tra seminato e raccolto era sostanzialmente lo stesso (a meno di piccole oscillazioni); l'unica differenza che Cagnazzi nota è la grandezza delle spighe. Inoltre Cagnazzi ipotizza che i topi abbiano causato maggior danno nelle strisce dove il seme era in minore quantità e pertanto, in assenza di tali danni, la prima striscia (quella su cui era stata sparsa la maggiore quantità di seme) avrebbe prodotto una quantità di raccolto minore di seme in confronto alle altre. Questo avrebbe mostrato, secondo Cagnazzi e, discostandosi da quanto affermato da Vitangelo Bisceglia, come "la sola abbondanza del seme non produce il buon ricolto".[86]

Cagnazzi, inoltre, confrontò la prima striscia con quella dei fondi contigui a quello sui cui era stato condotto l'esperimento dal momento che la quantità di seme utilizzato era la stessa (4/16 di moggio). Cagnazzi notò come la prima striscia aveva prodotto una proporzione tra seminato e raccolto di 1 a 16, mentre i fondi esterni 1 a 11, e da ciò ne deduse che la "concia" del seme con letame pecorino (di cui sopra) deve aver prodotto un tale vantaggio.[87]

Nel 1798 Cagnazzi pubblicò sul Giornale letterario di Napoli (n. XCV del 1798) una lettera indirizzata a Vitangelo Bisceglia contenente i risultati dell'esperimento.[88]
Contributi in statistica

Cagnazzi era noto ai suoi tempi in tutta Italia soprattutto per essere stato il primo, perlomeno in Italia, a fornire una definizione della statistica, una disciplina all'epoca pressoché sconosciuta ai più, nonché della sua utilità e dei metodi. Molto successo ebbe, in Italia e all'estero, la sua opera Elementi dell'arte statistica, in due volumi (1808-1809).[89]

Come riportato dallo stesso Cagnazzi, "non vi fu giornale d'Italia che non ne avesse parlato con elogio", e fu anche l'opera più utilizzata per l'insegnamento della statistica (anche perché l'unica completa); solo nel 1819, l'opera di A. Padovani Introduzione alla scienza statistica "ebbe in Italia un'esposizione scientifica paragonabile, quanto ad oggetto ed a metodo, a quella del Cagnazzi".[90]

All'estero, una definizione di statistica era già stata data, nei termini grosso modo fissati da Cagnazzi, dallo scozzese Sir John Sinclair in The statistical account of the Scotland (voll. I e XX, 1791 e 1798) nonché in Observations on the nature and advantages of statistical enquiries (1802). Anche il tedesco August Christian Niemann ne fornì una definizione in Abriss der Statistik und der Statenkunde (1807).[90]

A Cagnazzi va comunque il merito di aver contribuito grandemente a definire e a divulgare in Italia la statistica, che all'epoca, con Melchiorre Gioia, "s'aggirava ancora nell'indeterminato".[90][91]
Contributi in pedagogia

Come documentato nella sua autobiografia, a Cagnazzi capitò, nel corso della sua vita, di dover istruire fanciulli. Ad esempio, mentre era a Firenze, gli fu chiesto da suo fratello Giuseppe de Samuele Cagnazzi di ritornare ad Altamura al fine di istruire i suoi figli, che erano rimasti orfani in seguito alla morte della madre Elisabetta de Gemmis. Cagnazzi giunse ad Altamura il 23 dicembre 1801.[92]

Inoltre, nel suo Saggio sopra i principali metodi d'istruire i fanciulli (1819), Cagnazzi afferma che Ferdinando I delle Due Sicilie, avendo saputo di tali scuole, mandò i monaci Vuoli e Gentile in Germania per poterlo apprendere e divulgare anche nel Regno delle Due Sicilie; i suddetti monaci, al loro ritorno, scrissero dei libretti al fine di divulgare e pubblicizzare il metodo; lo stesso Cagnazzi afferma di essersi occupato dello stabilimento di scuole normali d'istruzione nella sua città natale Altamura.[93]
Il Saggio sopra i principali metodi
Lo stesso argomento in dettaglio: Saggio sopra i principali metodi d'istruire i fanciulli.

Nell'anno 1818 si parlava molto del nuovo metodo d'insegnamento inglese e Cagnazzi, al fine di chiarire bene che cosa si intendesse con tale metodo e dirimere le valutazioni negative fatte a priori da taluni, scrisse un'opera dal titolo Saggio sopra i principali metodi d'istruire i fanciulli.[94]

L'opera fu terminata nel gennaio del 1819 e successivamente pubblicata con una dedica al Principe di Cardito, il quale promuoveva l'efficacia del metodo inglese. Nel suo lavoro, Cagnazzi parte da considerazioni generali e analizza i vantaggi che deriverebbero dall'alfabetizzazione di un popolo. Analizza anche il sistema ordinario di istruzione del Regno delle Due Sicilie, da Cagnazzi reputato "vituperevole", nonché il metodo insegnato da Quintiliano e il "metodo normale", introdotto in Germania. Cagnazzi parla anche del metodo di Johann Heinrich Pestalozzi e fa le sue osservazioni. Infine introduce il metodo inglese e mostra i vantaggi che si otterrebbero dal suo utilizzo. Di tutti i metodi esposti, Cagnazzi mostra i pregi e i difetti e, secondo quanto riportato da Cagnazzi, tale opera ebbe notevole successo e "fu molto applaudita fuori". Essa metteva a confronto i vari metodi d'insegnamento (cosa che, afferma il suo autore, non era stata ancora tentata da nessuno).[94][95]

Nelle prime pagine, Cagnazzi espone alcune considerazioni dal contenuto assai innovativo e moderno; in particolare:

«Il principale scopo dell'educazione esser deve il benessere della persona che si educa; non già che al benessere di questa sagrifigar si debba quello degli altri, ma fare in modo che vadano d'accordo. Alcuni genitori bene spesso deviano da questo principio, giacché cercano il solo benessere loro, e della famiglia, a costo dell'infelicità che va ad incontrare il loro figlio. L'indole di un fanciullo per esempio sia portata per le belle arti: abbia egli facilità a disegnare i contorni e ad imitare le ombre, la sua fantasia sia vivace ad esprimere gli affetti col pennello, la sua pazienza a perfezionare il tutto: ecco un abile pittore. Il padre sdegna avere un figlio, che degrada la nobiltà di sua famiglia col pennello, e vuole che l'onori colla toga; oltre ché l'arte del Foro per una famiglia è ciò che è l'arte della guerra per una nazione, vale a dire che serve a farla rispettare. Tutto egli fa per ismorzare nel figlio la felice inclinazione per l'arte imitatrice, e lo forza a divenire forense; onde invece di trovarsi padre di un abile pittore, si trova in seguito padre di un meschino forense.»

(Cagnazzi1819, pp. 2-3)

Tali considerazioni sono sicuramente ispirate dalle esperienze della sua stessa vita; infatti nelle prime pagine della sua autobiografia, Cagnazzi racconta come fu costretto a studiare discipline che lui non sopportava, come ad esempio il diritto o le lettere, preferendo nettamente le discipline scientifiche e naturalistiche. Un suo insegnante gli disse di aver avuto una strana "malattia" a causa dello studio di discipline non congeniali e mise in guardia Cagnazzi dal prendersi una malattia simile.[45] Inoltre, in uno scritto conservato presso l'Archivio Biblioteca Museo Civico, Cagnazzi racconta di Paolo Ruggeri, un giovane appassionato di matematica la cui carriera fu osteggiata dal "barbaro padre", il quale voleva che il figlio studiasse teologia e che, nonostante ciò, diventerà professore (seppur per pochissimo tempo) presso l'Università di Altamura.

Nel saggio, Cagnazzi espone anche un metodo da lui inventato e consistente in un gioco molto simile al lotto con lettere dell'alfabeto (oppure sillabe) al posto dei numeri; secondo Cagnazzi questo metodo avrebbe consentito di insegnare a leggere e scrivere a "moltissimi fanciulli" con minor sforzo.[96]




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Elementi di cronologia matematica e storica

"Vedendo da gran tempo che nelle scuole si mancava un compendio di cronologia matematica e storica da servire da istruzione a' giovanetti", Cagnazzi decise di scriverne uno. Cominciò a scriverlo a ottobre 1836 e lo completò nell'inverno dello stesso anno. Il libro, dal titolo Elementi di cronologia matematica e storica per gli giovanetti fu molto lenta e terminò nell'agosto 1838. Ciò suggerisce che Cagnazzi potesse essere impegnato nell'insegnamento di adolescenti.[97]
Contributi in archeologia

Nella sua autobiografia, Cagnazzi afferma di aver fatto alcuni scavi archeologici in compagnia di Alberto Fortis nei sepolcreti della sua tenuta in contrada San Tommaso, in Altamura.[64]

Durante la visita di re Ferdinando IV di Napoli a Gravina in Puglia e Altamura nell'anno 1797, furono sistemate alcune strade che il re avrebbe utilizzato per recarsi a Lecce. In tale occasione, su una strada che passava sotto una masseria della famiglia Cagnazzi (presumibilmente quella in via Santeramo, contrada San Tommaso), furono trovati scavando due vasi antichi definiti dal Cagnazzi "grossi e bellissimi", di cui uno intatto. Tale vaso fu portato nella tenuta del Cagnazzi e quest'ultimo li ripulì e cercò di comprendere il significato delle figure rappresentate. Mostrò i vasi e ne parlò a molti, tra cui Gioacchino de Gemmis e il vaso fu in seguito presentato al re nella casa del prelato de Gemmis. Cagnazzi fu chiamato a spiegare che cosa indicassero quelle figure. Essendo piaciuta la spiegazione, Cagnazzi fu designato soprintendente archeologico della parte meridionale della Provincia di Bari e della Basilicata, al fine di vegliare "circa le antichità che si rinvenivano in quella Provincia".[98] In seguito, Cagnazzi ricevette una lettera di rimprovero del Soprintendente generale degli scavi Felice Nicolas per non aver vigilato sugli scavi fatti dal generale Giuseppe Lechi.[99]

Tale designazione avvenne all'insaputa dello stesso Cagnazzi e questo afferma che svolgere il compito di soprintendente fu "una grave tortura di spirito", sebbene alla fine le sue relazioni fossero "sempre apprezzate e lodate".[100]

Sempre in campo archeologico molto successo ebbe, soprattutto all'estero, la sua opera Su i valori dei pesi e delle misure degli Antichi Romani desunti dagli originali esistenti nel Real Museo Borbonico di Napoli, nella quale Cagnazzi forniva ragguagli sulle unità di misura degli antichi Romani e sulla loro conversione nelle unità di misura moderne. Scrive Cagnazzi che il libro "fu [...] ben ricevuto all'estero, e tutti i giornali ne parlarono vantaggiosamente, così per la precisione, come per l'esattezza con la quale fu trattata la materia".[101] Il libro fu scritto da Cagnazzi in seguito a una commissione richiesta al Cagnazzi di una relazione sui pesi e le misure dei reperti del Real museo borbonico di Napoli, provenienti da Ercolano e Pompei; lo studio portò via più tempo di quanto Cagnazzi credeva, ma ciononostante, l'opera riscosse un enorme successo, e molti consoli e ministri esteri ne chiesero una copia. L'opera fu pubblicata nel 1825 e fu anche tradotta in tedesco da Johan Heinrich Schubothe.[102][103]
Religiosità

Dall'autobiografia di Cagnazzi emerge una profonda e sentita religiosità, testimoniata anche da due sue opere di carattere religioso che ebbero notevole successo ai suoi tempi. Le due opere furono Leges in Catholica Ecclesia vigentes apto ordine digestae[104][105] e I precetti della morale evangelica (1823).

L'opera Leges in Catholica Ecclesia vigentes apto ordine digestae rappresenta un'opera storicoreligiosa con la quale Cagnazzi metteva ordine tra le leggi e i decreti della Chiesa cattolica.[105] Secondo quanto riportato dallo stesso Cagnazzi nella sua autobiografia, grande successo ebbe l'opera I precetti della morale evangelica (1823), con la quale Cagnazzi riteneva di aver adempiuto persino più del dovuto all'obbligo pastorale di predicare il Vangelo.[44][45]

Cionondimeno, la sua religiosità sembra meno rozza di quanto si potrebbe credere. Definisce, infatti, "sciocchi" i preti di Altamura che diffondevano la superstizione ed ebbe come suo insegnante presso l'Università degli Studi di Altamura il primicerio Giuseppe Carlucci, contrario alla superstizione e accusato da alcuni di non essere credente.[106]

Sebbene abbia un irrilevante valore scientifico, la sua opera Su la varia indole delle forze agenti nell'universo (1845), nella quale mescola fisica e Cattolicesimo, risulta assai interessante per comprendere la sua religiosità.[107]
Padre Cassitto e il Saggio sulla popolazione

Con la Restaurazione e il ritorno dei Borbone, alcuni scritti di Cagnazzi finirono con l'essere oggetto di critica. In particolare, Cagnazzi intendeva ripubblicare il primo volume del suo Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia, pubblicato sotto i francesi e tale libro fu dato a rivedere al padre domenicano Luigi Vincenzo Cassitto.[108]

In un rapporto segreto, Cassitto accusava Cagnazzi di "sentimenti costituzionali" (il libro fu scritto sotto i francesi, quindi in un periodo di minore censura), e scrisse che Cagnazzi affermava che "non vi è legge che tanto sia ben eseguita quanto quella che è uniforme ai costumi popolari, purché questi non siano contro al giusto". Cagnazzi aveva scritto che togliersi il berretto per rispetto politico o religioso era "contro la cautela che aver si deve per la propria salute, nato dall'abuso de' tempi d'ignoranza". E Cassitto ne dedusse che Cagnazzi "negava il culto religioso", al che Cagnazzi si adirò. Il diverbio terminò allorché Cagnazzi si propose di riscrivere la pagina del suo libro oggetto di critiche e ne fu permessa la ripubblicazione.[108]
Relazioni con altri studiosi
Alberto Fortis

Cagnazzi conobbe Alberto Fortis (1741-1803) poco dopo il 1787, allorché allo scienziato padovano, di ritorno dai Balcani e giunto a Molfetta, fu mostrato dallo scienziato Giuseppe Maria Giovene il Pulo di Molfetta. Inizialmente Fortis credeva che Cagnazzi fosse una persona rozza e cominciò a trattarlo con disprezzo, ma ben presto cambiò idea su di lui e gli mostrò tutto il suo affetto. Cagnazzi afferma che Alberto Fortis "quanto era grande per le facoltà intellettuali, altrettanto mancava di quelle del cuore".[64]

L'incontro con Fortis fu fondamentale nella formazione di Cagnazzi; come lui stesso scrive, "la conversazione privata e quasi continua con esso formò lo sviluppo del mio intendimento". Inoltre fece aprire gli occhi a Cagnazzi sulla reale preparazione degli accademici napoletani. In precedenza, Cagnazzi credeva che gli accademici napoletani avessero un adeguato livello di preparazione ma successivamente, grazie a Fortis, cominciò a comprendere come a Napoli "di tutto si voleva fare mistero" e non era riuscito ad avere una chiara idea delle materie scientifiche, in particolare di chimica e mineralogia. Cagnazzi riconobbe la netta superiorità della preparazione di Fortis e le molte conversazioni e scambi di opinioni con lui contribuirono a svegliarlo "da quella timidezza naturale a tutti i giovani moderati". Fortis lo incoraggiò a scrivere su un giornale di Vicenza e quest'esperienza gli fece capire di avere le facoltà di competere con gli accademici napoletani nelle materie scientifiche. In seguito alla conoscenza con Fortis, Cagnazzi svilupperà una spiccata fiducia nelle proprie capacità, in modo particolare nelle discussioni con gli accademici napoletani, e persino disprezzo nei confronti di questi, considerati molto impreparati. Tale pensiero compare assai spesso all'interno dell'autobiografia di Cagnazzi.[64]

Allorché Felice Lioy si recò in Puglia, Cagnazzi lo aiutò a redigere alcuni rapporti per la Real Segreteria delle Finanze del Regno di Napoli, di cui Lioy era stato incaricato. Notò allora Cagnazzi quanto questi fosse superficiale "nelle materie economiche". Cagnazzi lo aiutò, ma Alberto Fortis lo rimproverò per aver aiutato una persona incompetente e farla be figurare.[109]

Dopo che Fortis ebbe lasciato il Regno di Napoli (inverno 1789), ebbe con Cagnazzi una fitta corrispondenza, specie in questioni inerenti alla mineralogia con scambio anche di minerali provenienti da mezza Europa. In seguito alla faccenda del Pulo di Molfetta[64] (cioè la questione del salnitro, utilizzato per la fabbricazione della polvere da sparo), Cagnazzi racconta che Fortis era malvisto a Napoli e questo perse persino la Badia "datagli dal Re precedentemente".[110]
Giuseppe Maria Giovene

Nel corso di tutta la sua vita, Cagnazzi mantenne una profonda e sincera amicizia con il naturalista molfettese Giuseppe Maria Giovene (1753-1837). Sembra plausibile ipotizzare che Giovene e Cagnazzi si siano conosciuti contemporaneamente all'incontro di Alberto Fortis, quindi poco dopo il 1787.[111] Come scritto nella sua autobiografia, Cagnazzi fece visita a Giovene ogniqualvolta si trovò a passare da Molfetta e, nella stessa autobiografia, lo definisce il suo "antico" amico.[112]
Cagnazzi e il cardinale Ruffo

Cagnazzi incontrò il cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara per ben due volte nel corso della sua vita ed entrambi gli incontri sono ben documentati all'interno della sua autobiografia. Nella prima (anno 1799), mentre Cagnazzi si trovava a Venezia, la gentildonna Marina Querini Benzoni disse a Cagnazzi che voleva presentargli un suo conterraneo, e lo presentò al cardinare Ruffo. Inizialmente Cagnazzi era molto confuso, pur non dandolo a vedere, e celò la sua vera identità affermando che, durante i fatti della Repubblica Napoletana del 1799 Cagnazzi era in Sicilia; in compagnia della gentildonna, i due parlarono "su di molte cose letterarie" e il cardinale gli garantì la sua protezione.[113]

Nell'anno 1800, il fratello Giuseppe, avendo perso sua moglie Elisabetta de Gemmis, chiese a Cagnazzi di ritornare ad Altamura, in virtù anche delle garanzie concesse dalla pace di Firenze, al fine di istruire i propri figli. Cagnazzi allora si recò a Roma al fine di ottenere un passaporto per il Regno di Napoli. Si presentò dal cardinale Ruffo, all'epoca ministro a Napoli ed ebbe con questi un lungo discorso. Ruffo aveva letto i suoi lavori scritti mentre era a Firenze e sconsigliò a Cagnazzi di ritornare. Ruffo chiese a Cagnazzi se era stato in Francia, e gli rispose che era stato a Venezia, dove si erano incontrati e aveva celato la sua vera identità. Ruffo allora gli chiese perché aveva celato la propria identità, dal momento che avrebbe potuto aiutarlo fin d'allora. Cagnazzi rispose che gli era giunta voce che "in Napoli la Giunta giudicò molti da V. Ecc. risparmiati e protetti". Cagnazzi ottenne il passaporto "senz'alcuna clausola" e Ruffo aggiunse che "se qualche molestia mi fosse data come Napoletano emigrato, fossi subito andato da lui".[26]

Essendogli stato detto da alcuni che poteva avere delle difficoltà, una volta giunto a Napoli, per non essersi avvalso dell'indulto, Cagnazzi si recò di nuovo da Ruffo il quale gli rispose: "Dite a codesti Signori che io sono un galantuomo e non un traditore".[27]




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La Banca del Tavoliere di Puglia
Lo stesso argomento in dettaglio: Banca del Tavoliere di Puglia.

Secondo quanto raccontato dallo stesso Cagnazzi, egli fu coinvolto, in qualità di persona esperta, nella fondazione di una banca, nata sulla base di un suo progetto, con lo scopo di risollevare lo stato di povertà e sottosviluppo del Tavoliere delle Puglie. Era previsto un investimento da parte del signor Van-Aken di Bruxelles e Cagnazzi, a quanto pare, sconsigliò di fare tale investimento; del resto, lo scopo di tutte le banche del Regno delle Due Sicilie era quello di realizzare una qualche forma di bancarotta fraudolenta.

Come previsto da Cagnazzi, Van-Aken perse quasi tutto il suo denaro investito e ne nacque una crisi diplomatica tra il Regno delle Due Sicilie e il Belgio e i Paesi Bassi.
Il risarcimento per i fatti del 1799

Come documentato nella sua autobiografia, Cagnazzi chiese in più occasioni ai vari governi sia francesi, sia borbonici del regno un risarcimento per i danni subiti dalla sua famiglia in seguito ai fatti del 1799 ad Altamura. I vari governi che si succedettero addussero diverse ragioni per il mancato risarcimento, tra cui la necessità di risarcire tutti se avessero risarcito anche una sola persona. Non è ben chiaro se Cagnazzi alla fine sia riuscito a ottenere tale ristoro economico.[114]

Una causa riguardante il nipote Ippolito de Samuele Cagnazzi, sua moglie Mariantonia Martucci e lo stesso Luca de Samuele Cagnazzi, riportata nel Repertorio sull'amministrazione civile del Regno delle Due Sicilie del 1851, potrebbe fare riferimento proprio a tale risarcimento, più volte richiesto da Cagnazzi.[115]
La visita dei re di Napoli ad Altamura nel 1797
Palazzo Cagnazzi, ad Altamura

Nella seconda metà del Novecento fu ritrovata in una soffitta di palazzo Cagnazzi ad Altamura una notevole quantità di documenti della famiglia Cagnazzi. In uno di questi documenti era descritta dal Cagnazzi la visita dei reali Ferdinando IV e Maria Carolina d'Austria nella città di Altamura nell'anno 1797. Lo stesso evento è descritto anche in un documento anonimo, pubblicato sulla Rassegna pugliese di scienze, lettere ed arti nel maggio 1900.[116]

Il resoconto della visita risulta particolarmente dettagliato e viene descritta l'estrema affettuosità degli altamurani, notata dallo stesso re e dal suo seguito, come si evince anche dalle lettere che il re scrisse in quei giorni (in confronto l'accoglienza a Cerignola era stata alquanto ostile, come raccontato dallo stesso re); la visita suscitò commozione e lacrime da parte sia del re e del suo seguito, sia degli altamurani.[117] Un'altra accoglienza particolarmente sentita e commossa fu quella dell'8 aprile 1807 in occasione del passaggio per Altamura di Giuseppe Bonaparte, re di Napoli.
Incarichi

Capo Dipartimento del ramo statistica del Ministero dell'interno del Regno di Napoli.[118]
Professore di economia politica a Firenze[45]
Professore di economia politica presso l'Università degli Studi di Napoli (ottobre 1806 - ?)[119]
Soprintendente degli scavi archeologici[120]
Direttore del primo e secondo Burò della IV Divisione del Ministero dell'interno del Regno di Napoli[121]
Deputato di Giustizia dell'Ordine Costantiniano (1841-?)[122]
Presidente della Commissione di pubblica istruzione (1847)[123]
Deputato della Provincia di Bari (1848)[41]

Onorificenze

Cavaliere di giustizia del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio[124]
Cavaliere (titolo mantenuto anche dopo il 1815 grazie al Trattato di Casalanza)[125]
Beneficio semplice di San Vito in Vietri di Potenza[126]
Cavaliere dell'Ordine reale delle Due Sicilie[127]

Accademie

Socio dell'Accademia dell'Arcadia col titolo di Arcade (1827-?);[128]
Socio fondatore dell'Accademia Pontaniana[129]

Genealogia

Ippolito de Samuele Cagnazzi - padre
Livia Nesti - madre
Giuseppe de Samuele Cagnazzi (1763-1837) - fratello
Ippolito de Samuele Cagnazzi - fratello[senza fonte]
Elisabetta de Gemmis (?-1799) - cognata (moglie del fratello Giuseppe)
Maria Elisabetta de Samuele Cagnazzi, detta "Bettina" (1809-1900) - nipote di Cagnazzi nonché moglie di Michele Zampaglione[130][131][132]
Giuseppe Pomarici Santomasi - nipote[133]
Maria de Samuele Cagnazzi - nipote[134]
Pietro Martucci - pronipote (figlio di Maria de Samuele Cagnazzi)[134]
Ippolito de Samuele Cagnazzi - nipote (figlio di Giuseppe de Samuele Cagnazzi e sposato con Mariantonia Martucci, detta Antonietta)[135][136][137]

Opere

Istituzioni di matematica e fisica[51]
A qual secolo appartenga l'anno 1800. Risposta all'opuscolo: quando compiasi il secolo XVIII ed abbia principio il secolo XIX, Venezia, Stampe Giovanni Zatta, librajo di Frezzeria, 1800.[138]
Elementi dell'arte statistica, vol. 1, Napoli, Stamperia Flautina, 1808.
Elementi dell'arte statistica, vol. 2, Napoli, Stamperia Flautina, 1809.
Elementi di economia politica dell'arcidiacono Luca De Samuele Cagnazzi ad uso della Regia universita degli studi di Napoli, Napoli, Domenico Sangiacomo, 1813.
Saggio sopra i principali metodi d'istruire i fanciulli, Napoli, Tipografia di Angelo Trani, 1819.
Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia ne' passati tempi e nel presente, Napoli, Tipografia Angelo Trani (vol. 1), Tipografia della Società Filomatica (vol. 2), 1820 (vol. 1), 1839 (vol. 2).[108]
Sul Tavoliere di Puglia Lettera del Caval. Luca de Samuele Cagnazzi ... al Signor Simonde de Sismondi, Napoli, Angelo Trani, 1820.[139]
I precetti della morale evangelica posti in ordine didascalico dall'arcidiacono Luca de Samuele Cagnazzi, Napoli, Tipografia di Angelo Trani, 1823.
Su i valori delle misure e dei pesi degli antichi romani desunti dagli originali esistenti nel real museo borbonico di Napoli, Napoli, Tipografia di Angelo Trani, 1825.
Analisi dell'economia privata e pubblica degli antichi relativamente a quella de' moderni, Napoli, Tipografia della Società Filomatica, 1830.[140]
Sul dissodamento de' pascoli del Tavoliere di Puglia e sull'affrancazione de' suoi canoni, Napoli, Tipografia della Società Filomantica, 1832.
Tavole di mortalità in Napoli e nelle provincie ... lette ... 1828, 1832.
Sul dissodamento de' pascoli del Tavoliere di Puglia e sull'affrancazione de' suoi canoni, Napoli, Stamperia della Società Filomatica, 1832.
Elementi di cronologia matematica e storica per gli giovanetti, Napoli, Tipografia della Società Filomatica, 1838.[97]
Lettera al signor D. Matteo Augustinis sullo stato dell'economia e della statistica nel Regno delle Sicilie al cadere del secolo XVII e cominciamento del secolo XIX, Napoli, Stamperia della Società Filomatica, 1839.
Notizie varie di Altamura. Raccolte, e scritte da me Luca de Samuele Cagnazzi l’anno 1839, 1839., manoscritto conservato presso la biblioteca Archivio Biblioteca Museo Civico (A.B.M.C.) di Altamura.
Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia (che contiene lo stato presente), vol. 2, Napoli, Società filomatica, 1839.[141]
Tonographiae Excogitatio, Stamperia della Società Filomatica, 1841.
La tonografia escogitata da Luca de Samuele Cagnazzi, Napoli, Stamperia della Società Filomatica, 1841.
Necrologio di Giovanni Battista Manfredi, in Poliorama pittoresco, VII, 1843, p. 349., contenuto in Michele Marvulli, Il declino dell’Università di Altamura in un inedito di Luca de Samuele Cagnazzi, pp. 195-197.
Su la varia indole delle forze agenti nell'universo, Napoli, Stamperia della Società Filomatica, 1845.
Alessandro Cutolo (a cura di), La mia vita, Milano, Ulrico Hoepli, 1944.
Leges in Catholica Ecclesia vigentes apto ordine digestae.[142][104]

Pubblicazioni

Transunto d'un discorso meteorologico sugli anni 1792 e 1793, in Opuscoli scelti sulle scienze e sulle arti, vol. 7, Milano, Giuseppe Marelli, 1794.
Memoria sulle curve parallele di Luca Cagnazzi con due lettere dello stesso riguardanti la detta memoria dirette al Signor D. Giuseppe Saverio Poli, scritta tra il 1787 e il 1789, pubblicata dopo il 1794.[143]
Lettera dell'Arcidiacono Luca Cagnazzi al Cantore D. Vito Angelo Bisceglia [su un esperimento di semina], in Giornale Letterario di Napoli, XCV, 15 marzo 1798.[84]
Descrizione di una rosa mostruosa (1799)[144]
Migliorazione delle macchine elettriche (1801)[144]
Breve saggio sulla temperatura d'Italia (1801)[144]
Considerazioni sugl'igrometri colla migliorazione di quello di Saussure, in memoria letta all'Accademia dei Georgofili il 25 febbraio 1801.[145][146]
Osservazioni e conietture sul male detto della Tarantismo che domina nelle campagne di Puglia, in memoria letta all'Accademia dei Georgofili il 18 marzo 1801.[147][148][149][150]
Congetture su di un antico sbocco dell'Adriatico per la Daunia fino al seno tarantino, in Memorie di matematica e fisica della Società italiana delle scienze, XIII, parte II, Modena, Società Tipografica, 1807, p. 189.[151][152]
Sull'uso delle osservazioni meteorologiche per ben dirigere la nostra agricoltura, in Atti del Reale Istituto d'incoraggiamento, 1806.[153]
Discorso sulle cause della sospensione delle terre nell'atmosfera, in Memorie della Società Pontaniana di Napoli, 1810, pp. 171-186.
Su lo stato naturale e sull'industria rurale della campagna di Puglia, in Atti del Reale Istituto d'incoraggiamento, 1810.[154]
Notizie dei prezzi di alcune derrate di alimento per più di due secoli, in Atti della Società Pontaniana di Napoli, Stamperia Reale, 1810, p. 145.[155]
Sul periodico aumento delle popolazioni - Memoria letta nella Real Accademia delle Scienze di Napoli nel dì 16 aprile 1819, 1819.[156]
La vaccinazione giova o no all'aumento della popolazione?, in Annali universali di statistica, vol. 27, Milano, Editore degli Annali universali, 1831, p. 153.[157]
Sugli effetti risultanti all'umano intendimento dall'uso di meccanismi nelle arti e nelle scienze (memoria letta il 13 gennaio 1833 all'Accademia Pontaniana).[158]
Lettera del Cav. Luca de Samuele Cagnazzi al marchese Giuseppe Ruffo in occasione della memoria da questi pubblicata "Sull'utilità di migliorare razze equine di real conto", in Il progresso delle scienze, delle lettere e delle arti, X (4), Napoli, Tipografia Flautina, 1835, pp. 209 e succ..[159]
Sull'uso della sintesi e dell'analisi nell'istruzione delle scienze matematiche.
Sullo stato dei calori di Puglia.[51]
Sulla temperatura di Napoli.[51]
Volgarizzamento del quadro della vita umana di Cebete Tebano.[51]
Sulla probabilità di vita nel Regno di Napoli.[51]

Elogi funebri

Alla Santa Memoria di Leone XII. Sommo pontefice. Elogio letto ne' solenni funerali, Napoli, Gennaro Palma, 1829.
All'augusta memoria di Maria Cristina di Savoia. Regina delle Sue Sicilie. Elogio letto ne' solenni funerali, Napoli, Stamperia della Società Filomatica, 1836.[160]

Cause civili

Riconoscimento e liquidazione di credito a carico del Comune di Altamura - Ippolito e Luca de Samuele Cagnazzi, in Repertorio sull'amministrazione civile nel Regno delle Due Sicilie, vol. 1, Napoli, Stabilimento Fu Migliaccio, 1851, p. 572.

Traduzioni in altre lingue

Über den Wert der Masse und der Gewichte der alten Römer, traduzione di Johan Heinrich Schubothe, Copenhagen, 1828.[103][161]

Nella cultura di massa

Il liceo classico della sua città natale Altamura porta il suo nome.
Libri

Bianca Tragni, Cagnazzi. Uno scienziato nelle rivoluzioni, Mario Adda Editore, 2017, ISBN 978-8867173365.





fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Luca_de_Samu...liere_di_Puglia

 
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Aldo Victor de Sanctis


Aldo Victor de Sanctis (Pistoia, 23 febbraio 1909 – Roma, 16 ottobre 1996) è stato un fotografo e inventore italiano cineoperatore e documentarista subacqueo[senza fonte]..


Biografia

Si diplomò presso l'Accademia di belle arti di Firenze e nel 1932 conobbe personalmente Marinetti che lo convinse ad aderire al futurismo al quale contribuì con creazioni di articoli d'abbigliamento come cappelli estivi con aerazione e manica a vento e invernali con visiera di celluloide e tela impermeabile sul collo nonché un panciotto da sera in fibre metalliche. Con queste sue creazioni partecipò alla prima "Mostra dell'ambientazione e della moda" di Torino che si tenne nel giugno di quello stesso anno. In questo periodo fece anche una serie di studi per la realizzazione di carrozzerie per auto in leghe leggere.[1][2]

Sentendosi al contempo attratto anche dal mondo della tecnica si iscrisse al Politecnico di Torino dove nel 1934 si laureò in ingegneria meccanica.[1][2]

Praticò vari sport eccellendo nel nuoto. Fu primatista nella specialità 100 metri dorso, entrò a far parte della Serie A di pallanuoto, fu nominato capitano e direttore tecnico della Torino Nuoto e, nel 1937, divenne uno dei pionieri del nuoto pinnato in Italia.[1][2][3]
La seconda guerra mondiale

Richiamato alle armi nel 1942, prese parte al conflitto come ufficiale di marina e, date le sue precedenti esperienze, fu inviato a fare riprese cinematografiche in zone di guerra per l'Istituto Luce.[3][4]

Nel 1944 entrò nel Comitato Toscano di Liberazione Nazionale di Firenze di cui fondò il Reparto Radio.[1]

Dal 2 al 14 agosto 1944, mentre le avanguardie degli alleati stavano occupando le colline a sud di Firenze per liberarla dai nazifascisti, calò un microfono dalla finestra di una pensione sita in via de' Martelli e, con un fono-registratore da lui stesso ideato registrò, assieme ad Amerigo Gomez,[5] i suoni e i rumori della liberazione di Firenze da parte dalle truppe americane in quella che fu detta la Battaglia di Firenze realizzando in diretta la "radiocronaca" della guerra in città. Un documento rimasto famoso nella storia della radio in Italia che fu successivamente riversato in trenta dischi a 78 giri.[1][6][7] Da queste registrazioni Radio Rai ricavò il documentario "Firenze agosto 1944" che fu trasmesso il 4 agosto 1954 nel decennale di quell'avvenimento.[8] Anche l'Istituto Storico della Resistenza in Toscana ha realizzato nel 2010 un documentario per commemorare questo evento. [9] La vicenda è stata raccontata dalla Rai recentemente su Wikiradio dell'11 agosto 2017.[10][11]
Il dopoguerra

Nel 1946 fondò, in società con Franco Cristaldi, la casa cinematografica "Vides", sigla derivata dall'acronimo del suo nome.[4][12] Nel 1949 fu uno dei primi a praticare la pesca subacquea nella quale diverrà atleta di 1ª categoria nel 1958.[1] Nel 1952 assieme a Roberto Merlo fondò il Circolo Subacquei Torino del quale fu nominato e rimase presidente ininterrottamente alcuni decenni.[1][13] Fin dagli anni 30 la passione per il nuoto subacqueo lo aveva reso osservatore dei fondali marini che esplorò e riprese generalmente con attrezzature da lui stesso inventate e brevettate, attività che lo fece diventare il pioniere della foto-cinematografia subacquea italiana.[1][14][15] Nel 1939 filmò il suo primo documentario subacqueo, Allenamento collegiale, girato nella piscina dello stadio comunale di Torino. Questo probabilmente fu il primo filmato del genere in Italia.[2] Ha poi realizzato documentari sia per la Rai che per La Settimana Incom, un cinegiornale degli anni '40 e '50, del quale diresse la Sede di Torino per un decennio 1946.[1][4] Collaborò con personaggi di fama internazionale come Jacques Piccard per il quale nel 1952 progettò il sistema di illuminazione subacquea del batiscafo Trieste, Jacques Mayol, Enzo Maiorca, Jacques-Yves Cousteau, Folco Quilici e altri per i quali effettuò riprese subacquee.[4] Dal 1957 al 1959 effettuò riprese subacquee sui relitti di una nave oneraria romana affondata presso l’Isola d’Elba detti Relitti di Sant'Andrea e, nel 1965, sui resti del galeone olandese "Van Lynden" affondato nel 1628 a Freeport (Bahamas).[4]

Nel complesso Victor de Sanctis realizzò poco meno di un centinaio di documentari, alcuni dei quali sono stati restaurati e digitalizzati.[4][15][16]

Fu l'operatore subacqueo di vari film come I sette dell'Orsa maggiore, Mizar, Siluri umani, I raggi mortali del dottor Mabuse.[1][4] Per la Rai realizzò Uomini sotto il mare e Orizzonti sconosciuti, collaborò con riprese subacquee alle serie Rai I sette mari e L'enciclopedia del mare di Bruno Vailati.[4]
Alla sua produzione di documentari specificamente subacquei si aggiunge Come nasce un occhiale del 1950 come pure i documentari girati per conto di Cinefiat: Il paese dell'anima del 1957, realizzato in collaborazione con Remigio Del Grosso ed incentrato sul primo pellegrinaggio della Fiat a Lourdes, al quale seguirono Tolleranza zero (1960), la progettazione e la nascita della Berlina Fiat 1300 e della 1500, dai primi prototipi alla vettura su strada; quindi Transafrica 1100 R del 1961, la cronaca di un viaggio nel continente africano, da Il Cairo a Città del Capo, durante la stagione delle piogge a bordo di una Fiat 1100R ed infine Acciaio su misura del 1965 che illustra la nascita di un nuovo tipo di acciaio nello stabilimento già Fiat Ferriere ora Teksid.[17][18] In aggiunta alla sua attività propriamente filmica realizzò reportage fotografici da tutti i mari del mondo che pubblicò su alcuni settimanali (Epoca, L'Espresso, Panorama, Oggi, La Domenica del Corriere, L'Europeo, Mondo Sommerso) e quotidiani (Tuttosport, Il Tempo, La Nazione, Il Giornale).[4]

Nel corso della sua vita inventato vari oggetti alcuni dei quali ha utilizzato nel corso delle sue riprese dei fondali marini.[19]

Morì a Roma il 16 ottobre 1996.

Nel 2001 suo figlio Fabrizio de Sanctis ha donato 250 libri appartenuti al padre alla biblioteca della Historical Diving Society Italia, alla quale ha pure donato la custodia chiamata Kinemar da lui progettata e costruita nel 1954 per la sua cinepresa elettrica "Beaulieu".[4][16]
Filmografia

[2][4]
Opere cinematografiche

Una tenda a Punta Ala (1955)
Un'isola ha sete (1957)
Il paese dell'anima (1957)
Sotto il mare di Linosa (1960)[20]
Olimpiade in blu (1960)[21]
Tolleranza zero (1960)
Transafrica 1100 R (1961)
Avventure a Lipari (1962)[22]
Operazione van Lynden (1965)[23]
Acciaio su misura (1965)
Relitti da salvare (1967)[24]
Monili del mare (1967)[25]
Arditi del mare (1967)
Maiorca -80 (1968)
Pesca proibita (1969)[26]
La sponda viva del deserto (1971)[27]
A sud dello Zaire (1972)[28]
Luanda porto africano (1972)[29]
Una repubblica sull'oceano (1976)[30]
Fuorilegge per fame (s.d.)
Sfida all'abisso (s.d.)
Un miliardo sotto il mare (s.d.)
Oltre la barriera (s.d.)
Acqua e sale (s.d.)
Giardini sommersi (s.d.)
Sotto il mare di Angola (s.d.)
Quelli di Lampedusa (s.d.)
I sub dagli occhiali di legno (s.d.)
Blue dream (s.d.)
Nude per una perla (s.d.)
Continente senza frontiere (s.d.)
Jacques Mayol -100 (s.d.)
Pericolo per l'oceano (s.d.)
Safari atlantico (s.d.)
Al confine col passato (s.d.)
Anfore e coralli (s.d.)
Campioni in fondo al mare (s.d.)
Sotto il mare di Pantelleria (s.d.)
Vigneti sommersi (s.d.)
Una repubblica nell'oceano (s.d.)
Sciabiche sul fondo (s.d.)
Battuta in Mediterraneo (s.d.)
Cavalieri sottomarini (s.d.)
Una cernia per Josephine (s.d.)
Uno scafandro per Clio (s.d.)
20.000 lumen sotto i mari' (s.d.)
Mare di Cuba (s.d.)
Andante appassionato (s.d.)
La conquista del sesto continente (s.d.)
Gli anni ruggenti dei sub (s.d.)
Obbiettivi sotto il mare (s.d.)
Allarme sul fondo (s.d.)

Cortometraggi

Allenamento collegiale (1936)
Pallanuoto in Italia (1949)[31]
Scuola Sub Ferraro (1949)
Campionato di caccia subacquea a Ponza (1951)[32]
Con Piccard negli abissi marini (1951-1952)[33]
August Piccard (1953)
Si gira con Piccard (1953)
Batiscafo Trieste (1953)
Corazzata C-301 (1954)
Falco & Novelli (1956)
Europei a Nastia (1956)
Quelli di Lampedusa (1956-57)
En direct sur le fond de la mer (1957)
Maiorca quota -40 (1960)
Relitti da salvare (1967)
Le grotte di Sorrento (1967)
Giannutri (1969)
Maldive (1976)
Mar rosso (1977)
Pesca sub a Viverone (s.d.)
Scuola sub Ischia (s.d.)
Le vie dell'oro (s.d.)
Una lezione subacquea (s.d.)
Le grotte di Sorrento (s.d.)
Italian frogmen (s.d.)
La tragedia di Superga (s.d.)
La diga di Ceresole (s.d.)
L'inverno dei subacquei (s.d.)
Pesca notturna (s.d.)
Obiettivi sul mare (s.d.)
Scuola sub vigili del fuoco (s.d.)
Scuola internazionale sommozzatori (s.d.)
Gente acquatica (s.d.)
Corso Sub Marcante (s.d.)

Invenzioni

Alcune sue invenzioni:[1][2][4]

Custodie stagne subacquee - per varie cinecamere e telecamere, con sistemi di illuminazione.
Decompressimetro - detto anche Computer subacqueo o bend o meter, che fu costruito nel 1959 dalla ditta italiana S.O.S. (Strumenti Ottici Subacquei) su progetto degli ingegneri Victor De Sanctis e Carlo Alinari, è tuttora usato in versioni perfezionate ed è uno strumento indispensabile al subacqueo per misurare la profondità e la durata dell'immersione in modo calcolare con precisione i tempi per una risalita in sicurezza ed evitare la malattia da decompressione.
Carrello da ripresa - Brevetto di prototipo di carrello per riprese cinematografiche, leggero, adattabile e smontabile.[4]
Doppio giradischi - Studio e brevetto per il perfezionamento di macchine giradischi per incisione fonografica e di riproduzione.
"Hydra" - Modello di fucile subacqueo idropneumatico progettato per una ditta italiana.

Riconoscimenti

[1][2]

Festival di Cannes 1958 premio per Un'isola ha sete.
Festival di Cannes 1959 premio per Arditi del mare.
Underwater International Film Festival di Santa Monica USA 1962 premio per Avventura a Lipari.
Festival di Parigi 1967 premio per Arditi del mare.
Festival di Genova 1969 premio per Profondità -80.
Festival di Tolone 1989 premio per Sfida all'abisso.



fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Aldo_Victor_de_Sanctis

 
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Pietro de Zanna


Pietro de Zanna, all'anagrafe Pietro Giovanni Maria Zanna (Zornasco, 1779 – XIX secolo), è stato un inventore italiano, che inventò nel 1839 il calorifero ad aria compressa.

Biografia

Emigrato da giovane da Zornasco (frazione di Malesco, VB), aprì nel 1839 a Vienna una fumisteria che produceva macchine per il riscaldamento, insieme al fratello Bartolomeo. Notevole fu la sua fortuna nella capitale austriaca, anche perché riusci a proporre la sua invenzione per riscaldare il palazzo imperiale del Hofburg, riuscendo così a ottenere la particella nobiliare da aggiungere al proprio cognome[1].

La notorietà fu tale che sembra che fu richiamato in patria su richiesta di Carlo Alberto di Savoia che desiderava utilizzare la sua invenzione per riscaldare il palazzo reale di Torino, numerose residenze sabaude e perfino l' Università[2]. Intorno al 1842, a seguito dell'ampliamento dell'ala di levante del Castello Reale di Racconigi, furono installate nel seminterrato le nuove cucine dotate di tutto quello che c'era di più moderno. Oltre agli utensili e a una grande ghiacciaia, furono posizionate due stufe a legna realizzate dal de Zanna, chiamate in lingua piemontese potagère, in italiano "potaggiere"[3]. Più o meno nello stesso periodo il fratello Bartolomeo si dedicò allo studio del sistema di riscaldamento del Castello di Stupinigi[4].





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Eufrosino della Volpaia


Eufrosino della Volpaia (Firenze, tra 1494 e 1500 – Francia, XVI secolo) è stato un inventore e orologiaio italiano.

Orologiaio, costruttore e inventore di strumenti scientifici, Eufrosino proseguì, come i fratelli Benvenuto e Camillo, l'attività del padre Lorenzo. Del 1516 è il suo primo orologio datato e firmato, oggi al National Maritime Museum di Greenwich. Nel 1520 costruì l'orologio notturno esposto presso il Museo Galileo di Firenze (inv. 3264), e nel 1525 l'astrolabio del British Museum di Londra. A Venezia, dove soggiornò nel 1530, progettò uno strumento per misurare le distanze e le altezze documentato nel taccuino manoscritto del fratello Benvenuto, conservato presso la Biblioteca Marciana di Venezia. Svolse anche l'attività di architetto dirigendo nel 1534 i lavori della Fortezza da Basso, progettata da Antonio da Sangallo.

Fu anche un esperto cartografo. Nel 1542 costruì un globo terrestre, che oggi si trova all'Hispanic Society of America di New York, mentre nel 1547 eseguì la Mappa della Campagna romana al tempo di Paolo III, di fondamentale importanza per la ricerca storica cartografica.

Morì in Francia, come sappiamo dal "Taccuino" di Benvenuto, in data sconosciuta.





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Girolamo della Volpaia


Girolamo della Volpaia (1530 – 1614) è stato un inventore italiano.

Orologiaio e costruttore di strumenti scientifici, Girolamo proseguì l'attività del padre Camillo e degli zii Benvenuto ed Eufrosino. Nel 1554 costruì una sfera armillare, oggi conservata presso il Science Museum di Londra. Nel 1560 successe al padre nella manutenzione dell'orologio grande di Palazzo Vecchio a Firenze. Chiese che gli fosse affidata anche la manutenzione dell'orologio dei pianeti costruito dal nonno Lorenzo e da lui stesso restaurato. Nel 1564 progettò un orologio per piazza San Marco a Venezia e nel 1590 costruì il suo ultimo orologio, conservato presso il Museo Galileo di Firenze (inv. 2460).
Voci correlate

Benvenuto della Volpaia
Camillo della Volpaia
Eufrosino della Volpaia
Lorenzo della Volpaia
Museo Galileo





https://it.wikipedia.org/wiki/Girolamo_della_Volpaia

 
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Giuseppe Di Giugno


Giuseppe Di Giugno (Bengasi, 1º gennaio 1937) è un inventore e fisico italiano.
Biografia

Laureato in Fisica nel 1961 presso l'Università di Roma e nel 1963 diventa assistente presso l'Istituto di Fisica dell'Università di Napoli dove insegna "Struttura della Materia" fino al 1975.

Nel 1975 insieme a Luciano Berio e Pierre Boulez presso l'IRCAM (Centro di Ricerche Musicali del Centro Georges Pompidou) contribuisce alla fondazione del dipartimento di Computer music. Proprio a Parigi, Di Giugno costruisce molti prototipi di sintetizzatori digitali che nel 1979 danno origine al sistema "4X", considerato la prima stazione di lavoro musicale interamente digitale per la sintesi e l'analisi del suono digitale in tempo reale.

Nel 1988 ritorna in Italia per fondare il laboratorio di ricerche IRIS del gruppo Bontempi-Farfisa.

Il 20 Giugno 2023 consegue la laurea honoris causa in Musica Elettronica presso il Conservatorio Nicola Sala di Benevento.
Collegamenti esterni

Scheda biografica di Di Giugno sul sito del Comune di Villarosa, su comune.villarosa.en.it.
(EN) Articolo sul sintetizzatore creato da Di Giugno, su jstor.org.
Un resoconto storico della ricerca di Di Giugno nell'ambito della computer music, su musicainformatica.it. URL consultato il 13 aprile 2013 (archiviato dall'url originale il 29 settembre 2013).





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Raimondo di Sangro




«Gli umori corrodono il marmo.»

(Iscrizione alchemica dettata da di Sangro per la statua del Cristo velato nella Cappella Sansevero[6][7])

Raimondo di Sangro, principe di Sansevero[2][3] (Torremaggiore, 30 gennaio 1710 – Napoli, 22 marzo 1771), è stato un nobile, esoterista, inventore, anatomista, militare, alchimista, massone, mecenate e scrittore italiano, originale esponente del primo Illuminismo europeo[3].

Personalità estremamente eclettica e poliedrica, con la sua attività ancora oggi avvolta da un alone di mistero egli incarnò i fermenti culturali e i sogni di grandezza della sua generazione[3] e alimentò un vero e proprio mito intorno alla propria persona, destinato a sopravvivergli.[3] Si dedicò infatti a sperimentazioni nei più disparati campi delle scienze e delle arti, dalla chimica all'idrostatica, dalla tipografia alla meccanica, raggiungendo risultati che apparvero "prodigiosi" ai contemporanei.[3]

Conosciuto anche per antonomasia come "il Principe", il nome di Raimondo è indissolubilmente legato alla Cappella Sansevero, il mausoleo di famiglia che riorganizzò e abbellì, in cui l'opera d'arte più significativa è certamente il celebre Cristo velato di Giuseppe Sanmartino.

Biografia
Infanzia ed educazione
Raimondo dedicò le statue della Pudicizia e del Disinganno, rispettivamente, alla madre Cecilia e al padre Antonio

Rampollo d'un casato discendente da Carlo Magno,[8] Raimondo di Sangro nacque il 30 gennaio 1710 nel castello di Torremaggiore, nella Capitanata, dove la famiglia possedeva diversi feudi. L'«incomparabile madre» Cecilia Gaetani dell'Aquila d'Aragona, figlia della principessa Aurora Sanseverino, morì il 26 dicembre dello stesso anno;[9] il padre Antonio di Sangro, duca di Torremaggiore, fu invece costretto ad allontanarsi varie volte dall'Italia per vicende personali. Per questi motivi Raimondo venne affidato, ancora bambino, alle cure del nonno Paolo, sesto principe di Sansevero e cavaliere del Toson d'Oro, residente a Napoli, nel palazzo di famiglia a piazza San Domenico Maggiore.[10] In virtù dei rapporti che legavano i due casati, fu battezzato il 2 febbraio successivo nel Castello di Torremaggiore da Carlo Francesco Giocoli dei Principi di Jadera, vescovo di San Severo[11][12].

Fu dunque a Napoli - allora capitale del Viceregno austriaco - che il giovane Raimondo trascorse gran parte dell'infanzia e ricevette una prima educazione, venendo avviato allo studio della letteratura, della geografia e delle arti cavalleresche. Sin dalla più tenera infanzia diede prova di vivace intelligenza, tanto che l'Origlia ci narra che «la soverchia vivacità del suo spirito, e la troppa prontezza» indussero il nonno e il padre (appena tornato da Vienna intorno al 1720) ad accompagnare l'enfant prodige presso il Collegio dei Gesuiti, a Roma. Qui Raimondo compì un ragguardevole iter scolastico, dedicandosi allo studio della filosofia, delle lingue (arriverà a padroneggiarne almeno otto), della pirotecnica e delle scienze naturali, dell'idrostatica e all'architettura militare; su quest'ultima disciplina stese pure un saggio, purtroppo rimasto inedito. Negli anni trascorsi a Roma, inoltre, ebbe modo di conoscere e apprezzare il fondo museale di Athanasius Kircher, pregno di allusioni all'ermetismo.[10]

Il suo esordio come inventore si data nel 1729 quando, ancora allievo presso i Gesuiti (terminerà gli studi nel 1730), dimostrò il proprio «maraviglioso intelletto» con l'invenzione di un palco pieghevole per le rappresentazioni teatrali, con il quale si guadagnò la stima di Nicola Michetti, ingegnere dello zar Pietro il Grande. Intanto, morto il nonno Paolo, grazie alla rinuncia paterna ne successe nel titolo e nei beni, divenendo a soli sedici anni settimo principe di Sansevero; ereditò anche il Palazzo di Sangro, la romantica dimora degli avi, nella quale si stabilì nel 1737.[10]
Matrimonio

Fu questa anche l'epoca del primo amore. Il principe, infatti, s'invaghì di una lontana cugina quattordicenne: era costei Carlotta Gaetani dell'Aquila d'Aragona[13], una ricca ereditiera di molti feudi nelle Fiandre che sposò nel 1736. Il matrimonio, che si rivelerà molto felice e sarà coronato dalla nascita di otto figli, venne celebrato da Giambattista Vico in un sonetto e pure da Giambattista Pergolesi, che musicò la prima parte di un preludio scenico a loro dedicato.

In questi anni si moltiplicarono anche le cariche ufficiali, allorché Raimondo venne nominato gentiluomo di camera con esercizio di Sua Maestà dall'amico Carlo III di Borbone, che dal 1734 aveva assunto la guida del Regno di Napoli, mentre nel 1740 gli venne conferito il titolo di cavaliere dell'Ordine di San Gennaro, destinato ad un ristretto gruppo di persone prescelto dalla Corona borbonica. Parallela alle onorificenze, l'attività inventiva: con l'animo sempre «applicato a nuove scoverte», infatti, in questo giro d'anni licenziò un'ingegnosa macchina idraulica e un archibugio in grado di sparare sia a polvere che ad aria compressa, che destinò come attestato di stima all'amico monarca.[10]
Nuove scoperte
Incisione del 1754 ritraente il principe Raimondo di Sangro

Negli anni '40 e '50 del XVIII secolo Raimondo vide la propria fama farsi sempre più solida. Nel 1741 ideò un cannone leggerissimo (pesava centonovanta libbre in meno rispetto ad esemplari della stessa specie) e con una gittata molto elevata; nel 1744, ammesso tra i colonnelli di uno dei reggimenti di Carlo III di Borbone, combatté valorosamente a Velletri contro gli Austriaci, distinguendosi per la destrezza e il coraggio. Frutto di quest'esperienza militare fu la Pratica di Esercizi Militari per l'Infanteria, data alle stampe nel 1747: l'opera rifletteva conoscenze esperte nell'ambito dell'arte militare, tanto che fu altamente lodata da Luigi XV di Francia e Federico II di Prussia, e tutte le truppe spagnole adottarono gli esercizi suggeriti dal Principe.[14]

Intanto, dopo esser divenuto accademico della Crusca con il nome di Esercitato, Raimondo ottenne il consenso di Benedetto XIV per poter leggere i libri proibiti: gli furono quindi aperte le porte di numerose biblioteche, dove divorò gli scritti di Pierre Bayle, le opere degli illuministi radicali e dei philosophes francesi, testi fitti di suggestioni alchemiche e massoniche e i trattati scientifici più disparati. Ma se da un lato Raimondo in questi anni ebbe fame insaziabile di letture, dall'altro non trascurò l'attività inventiva, ideando coloratissimi teatri pirotecnici e tecniche di stampa simultanea a più colori, preparando farmaci considerati portentosi e realizzando panni completamente impermeabili, che pure regalò a Carlo di Borbone.[14]

Nel 1737 Raimondo aderì pure alla Massoneria, un'associazione che provvedeva al riverbero degli ideali dell'Illuminismo europeo, venendo iniziato nella Loggia del duca di Villeroy a Parigi[15]; in breve la cosa si seppe, suscitando un «intrigo» che parve «il maggior del mondo». Nel 1744 divenne venerabile maestro della Loggia la Perfetta Unione,[16] ed il 10 dicembre del 1747 fondò nel suo Palazzo di Famiglia un "Cerchio Interno" alla sua Loggia, che definì Rosa d'Ordine Magno (anagramma del suo nome), dal quale prese vita il Rito Egizio Tradizionale a tutt'oggi attivo ininterrottamente[17]. Nel 1750 divenne gran maestro della Massoneria napoletana.[18] Fu il primo Gran Maestro della Massoneria italiana.[19][20] Neanche un anno dopo, infatti, Carlo III - indotto dalla pubblicazione della bolla Providas Romanorum di Benedetto XIV - promulgò un editto con il quale condannò i membri della «rispettabile Società» e chi li frequentasse: a Raimondo non restò che rinunciare, sotto la fede del giuramento, all'appartenenza alla Massoneria[14], il che non gli impedì di continuare ad essere con il massimo riserbo dovuto, Gran Hyerophante del Rito Egizio Tradizionale, dignità che trasmise alla sua morte a suo figlio Vincenzo[21][22].

I rapporti con la Santa Sede, tuttavia, s'inasprirono ulteriormente quando il Principe pubblicò nel 1751 la Lettera Apologetica dell'Esercitato Accademico della Crusca contenente la Difesa del libro intitolato Lettere d'una Peruana per rispetto alla supposizione de' Quipu scritta alla Duchessa di S**** e dalla medesima fatta pubblicare. L'opera, nel tessere le lodi di un antico sistema comunicativo peruviano, trattava tuttavia temi giudicati pericolosi, con frequenti rimandi alla cabala e - secondo le malelingue - all'esoterismo e con fitte citazioni da diversi autori eterodossi che animavano l'Illuminismo radicale dell'epoca. Queste caratteristiche non dovettero piacere ai censori dell'Inquisizione romana che, nel 1752, misero la Lettera all'Indice dei libri proibiti dall'autorità ecclesiastica; neanche l'invio di una Supplica (1753) scritta per mano di Raimondo al pontefice servì per far derubricare l'opera dall'Indice.[14]

Disilluso, Raimondo si dedicò con assoluta e piena dedizione all'attività inventiva, installando nei sotterranei del proprio palazzo un laboratorio «con ogni sorta di fornelli», grazie ai quali generò un misterioso lume perpetuo. Ciò malgrado, l'attività che più tenne impegnato il Principe in questi anni fu la realizzazione del progetto iconografico della Cappella, posto in essere dai vari artisti che assunse alle proprie dipendenze: fu così che vennero alla luce sculture dal ricco simbolismo, quali il Cristo velato, della Pudicizia e del Disinganno, oggi considerate capolavori dell'arte mondiale.[14]
Ultimi anni e morte
La cappella Sansevero fotografata da Giorgio Sommer

Intanto, l'estro creativo di Raimondo di Sangro, cui era «impossibile restringersi nell'occupazione di un solo oggetto» continuava a fabbricare straordinarie invenzioni: fu così che il suo laboratorio divenne una tappa indispensabile del grand tour, quel viaggio d'istruzione sul continente giudicato allora quasi d'obbligo per le persone del gran mondo. In questo modo patrizi provenienti da tutta Europa ebbero modo di prendere atto del fervido ingegno del Principe, che proprio in quegli anni creò gemme artificiali e vetri colorati, sperimentò la palingenesi e una tecnica di desalinizzazione dell'acqua di mare, arrivando a fabbricare con la collaborazione del medico Giuseppe Salerno delle sconcertanti macchine anatomiche, ovvero degli scheletri in posizione eretta, totalmente scarnificati, nei quali è possibile osservare molto dettagliatamente l'intero sistema artero-venoso.[23]

Nel frattempo, scrisse e pubblicò nel 1765 la Dissertation sur une lampe antique, dove ritornò a discutere su alcuni meccanismi che già affrontò per la realizzazione del lume perpetuo. D'ora innanzi Raimondo, per evitare di incorrere in ulteriori censure, fu assolutamente improduttivo dal punto di vista letterario; ciò malgrado, la sua attività intellettuale non si spense. Molti erano gli esponenti del mondo della cultura che Raimondo si attirava col fascino irresistibile della sua personalità e con la sua brillante erudizione: primo fra di essi Antonio Genovesi, col quale ebbe un denso carteggio, ma anche Fortunato Bartolomeo De Felice, Giovanni Lami, Lorenzo Ganganelli (il futuro papa Clemente XIV), Jean-Antoine Nollet, Charles Marie de la Condamine furono tutti tra i suoi intimi e corrispondenti. Addirittura, l'astronomo Joseph Jérôme de Lalande, affascinato dalla personalità e dalla sterminata cultura del Principe, asserì che «non era un accademico, ma un'accademia intera».[23]
La carrozza marittima mentre solca le onde del golfo di Napoli; incisione del 1789 di Francesco Celebrano

In ogni caso, gli ultimi quindici anni di vita di Raimondo furono segnati dalle pesanti difficoltà economiche, che per fortuna non compromisero il completamento della Cappella, e dai contrasti che sorsero con la Corte in seguito alla partenza di Carlo di Borbone (1759); questi dissapori vennero inaspriti essendosi il Principe inviso l'influente ministro Bernardo Tanucci, memore delle vicende massoniche e fiero detrattore dell'eterodossia intellettuale e dell'orgoglio aristocratico che lo caratterizzavano.

L'ultima sua uscita pubblica avvenne infine nel luglio 1770, quando un'elegante «carrozza marittima» solcò i flutti del golfo di Napoli, apparentemente trainata da cavalli ma in realtà mossa da un ingegnoso sistema di pale a foggia di ruote. Da lì a poco, infatti, Raimondo esaurì le proprie energie creative, per poi spegnersi il 22 marzo 1771 nel proprio palazzo di Napoli, a causa di una malattia dovuta alle sue «chimiche preparazioni».[23]




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Archibugio e cannone leggero

Raimondo fu un uomo assai versato nell'arte militare, tanto che ideò e produsse numerosi pezzi d'artiglieria. Nel 1739, per esempio, concepì un archibugio in grado di sparare - a discrezione dell'utilizzatore - sia a polvere che ad aria compressa, facendo uso «di una sola canna, di un solo cane, di una sola martellina, e con un solo fucone», usando le parole dell'Origlia.

Il suo interesse in materia portò il Principe ad ideare anche un ingegnoso cannone che, rispetto ad esemplari simili, pesava centonovanta libbre in meno e aveva una gittata sensibilmente superiore: la sua leggerezza era tale che un soldato poteva trasportarne due allo stesso tempo. Raimondo poté raggiungere questi risultati impiegando una speciale lega: della formula di «fortissimo particolar componimento di materia dall'Autor pensata», tuttavia, non si fa menzione da alcuna parte.
Carrozza marittima

Oltre a tutte le sue invenzioni Raimondo suscitò lo stupore dei suoi concittadini solcando le acque tra Posillipo e il Ponte della Maddalena con un'elegante carrozza marittima, con tanto di cocchiere e cavalli. L'evento dovette apparire prodigioso ai napoletani; ciò malgrado, Pietro d’Onofrj - nell'Elogio estemporaneo di Carlo di Borbone (1789) - chiarisce che i cavalli erano in realtà composti di sughero, e che la trazione della carrozza era garantita da un sistema di pale a foggia di ruote ideato dallo stesso Principe.

Le parole della Gazzetta di Napoli del 24 luglio 1770 rendono ottimamente la sorpresa destata da queste «passeggiate marittime»:

«Avendo il Principe di Sansevero inventata, e fatta sotto la sua direzione costruire […] una barca rappresentante una carrozza capace di dodici persone, che col semplice moto delle quattro ruote” avanzava “più che se essa avesse remi o vele”, offrì “agli occhi degli spettatori una piacevole insieme e sorprendente veduta”; dopo averla collaudata a Capo Posillipo, “ne ha voluto nelle passate domeniche rendere questo pubblico spettatore, trasferendosi in essa dal Capo suddetto […] sino al Ponte della Maddalena, non lasciando tutti di ammirare […] l’uguale invariabile movimento, e la somma velocità, colla quale viene spinta la macchina e fa cammino»
Farmaci

Raimondo dedicò molte ore del suo studio per produrre farmaci per operare diverse guarigioni, in grado di «richiamare a vita novella i già vicini a trapassare, che volgarmente dicesi risuscitare i defunti», come ne parla l'Apologetica. Diverse furono le guarigioni operate da Raimondo. Luigi Sanseverino (principe di Bisignano), nel 1747, fu salvato da una morte che neanche i «più valenti Professori» riuscirono ad impedire: «imprese per tanto l'Autore co' suoi segreti l'opera, che già disperata, non che difficile dicevasi, e nel corso di poche settimane non solamente vinse e domò la ferocia del male, ma sano perfettamente il rendé, liberandolo sin da qualche incomodo, che per l'innanzi abitualmente sofferto avea». Anche Filippo Garlini, allora residente a Roma, venne salvato dai rimedi medici di Raimondo, che fu chiamato addirittura dal ministro Tanucci, che - malgrado lo disprezzasse - dovette raccontare nel 1752 al duca di Miranda di come, afflitto di una «febbre maligna», si avvalse dell'aiuto del Principe, «celebrato per [aver] risuscitato Bisignano».
Gemme artificiali e vetro colorato

Il Principe nel proprio palazzo disponeva - stando all'Origlia - di «una fornace a foggia di quella de' vetrai» e di «un lavoratorio chimico con ogni sorta di fornelli», sicché poté dedicarsi alla produzione di gemme artificiali, ideando pure uno speciale metodo per colorare il vetro. Trovò il metodo di imitare le vere pietre preziose, dalle quali le sue gemme non potevano «per niun verso distinguersi»: frutto di questa sua sperimentazione furono «pietre dure, come il diaspro verde sanguigno, l'agata di più maniere, il lapislazuli […] egli ebbe il piacere di contraffare pur delle pietre preziose di ogni sorta» che egli contraffece in gran numero. La Breve Nota (1767) menziona pure «alcune gioie, le quali per natura sono pallide e scariche di colore» che Raimondo trattò in modo da accentuarne la luminosità e la brillantezza (tanto da conferire alle ametiste il «più alto e bel colore, che mai possa desiderarsi nelle ametiste».

Notevole furono anche i risultati che il Principe raggiunse nella colorazione del vetro. Tra coloro che ebbero l'opportunità di ammirare questi vetri colorati vi fu sicuramente lo scienziato francese de Lalande, che nel suo diario di viaggio annotò:

«L’arte di colorare il vetro sembrava un segreto ormai perso; il principe di Sansevero vi si è esercitato con successo; vi sono presso di lui dei pezzetti di vetro bianco, in cui si vedevano differenti colori che erano chiari e trasparenti come se il vetro fosse uscito dalla fornace con quegli stessi colori»
Invenzioni pirotecniche

Raimondo si dedicò con passione alla pirotecnica sin dagli anni della formazione gesuitica a Roma. L'interesse del Principe verso questa disciplina, che intendeva approfondire in un trattato purtroppo mai dato alle stampe, si esplicitò con la produzione di numerosi teatri pirotecnici, dove l'esplosione dei fuochi dava vita a molteplici figure, quali templi, giochi d'acqua, vedute architettoniche, capanne. Questi fuochi d'artificio si distinguevano anche per la loro gamma cromatica, che comprendeva «il torchino, il giallo a color di cedro, il giallo a color d'arancio, il bianco inclinante al color del latte, il rosso a color di rubino», come ci attesta l'Origlia. Raimondo riuscì anche a riprodurre diverse tonalità del verde (verde mare, verde smeraldo, verde prato), del quale fu «primo inventore sino dal 1739», anticipando pertanto di quattro anni il conte Rutowsky di Dresda, che pure è ricordato come l'inventore del fuoco verde.

La Lettera Apologetica racconta che:

«Portentosa parimente – continua la Lettera Apologetica – è quella macchinetta inventata da esso per le vedute de’ giardini, la quale […] manda pur fuora non già un semplice sibilo, com’altri han pur fatto, ma un ben chiaro e distinto canto d’uccelli, il quale senz’altro estranio ajuto è dallo stesso fuoco prodotto e preparato»
Lume perpetuo

È la raccolta di lettere che Raimondo indirizzò al fisico Jean-Antoine Nollet[24] a darci notizia del lume perpetuo, inventato dal Principe stesso nel novembre del 1752. Mentre era «applicato ad una operazione chimica», infatti, scoprì per caso una sostanza che, una volta accesasi, eccitava una fiamma in grado di bruciare ininterrottamente per tre mesi di seguito, senza soffrire il minimo scemamento. Il riserbo del principe di Sansevero sulla natura del combustibile fu assoluto: possiamo comunque dedurre che tale sostanza fosse in parte ricavata da ossa di cranio umano, «le ossa dell'animale più nobile, che sia nella terra» come egli stesso ebbe a definire.

Fortissima è la valenza simbolica di questo lume, che - come altre invenzioni disangriane - pare rinvii all'esoterismo. Questa pregnanza era tale che il Principe voleva illuminare il Cristo velato con due di queste lampade eterne, poste alla testa e ai piedi della statua, una volta che questa fosse stata collocata all'interno della Cavea sotterranea; il progetto, tuttavia, non venne mai portato a termine, e del lume perpetuo si perse ogni notizia.

«Poiché dunque non si può dubitare che esso non sia un vero lume, e simile a quello delle nostre candele o lampade, e che è durato per tre mesi e qualche giorno senza alcuna diminuzione della materia che gli serviva da alimento, gli si può dare a giusto titolo il nome di perpetuo, molto più che a quei lumi immaginari che si sono visti talvolta negli antichi sepolcri […] e ogni altro lume che non ha le stesse proprietà del mio, cioè tutte le qualità delle altre fiamme naturali, non merita il nome di eterno»

(Raimondo di Sangro)




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Macchina idraulica

All'idrostatica Raimondo si appassionò sin dalla giovinezza, con un interesse che non si limitava al solo piano teorico: nel 1739, infatti, concepì una macchina idraulica che «con l'azione di due soli ordigni, simiglianti a due trombe» sospingeva «senza l'opera d'animale alcuno» l'acqua «a qualunque altezza». Se l'opera fosse stata divulgata, la società civile del tempo ne avrebbe tratto numerosi benefici, come ci spiega lo stesso inventore:

«per mezzo di essa, in Paese, dove manca l’acqua de’ fiumi, si può fare uso dell’altra dalle piogge ricolta per la comodità de’ mulini, e delle cartiere, e per la fabbrica de’ panni o altro; e ciò avviene, perché l’acqua medesima scorre sempre di su in giù, per esser ella di giù in su portata sempre e risospinta di nuovo»
Palco pieghevole

Si tratta di un palco formato «[da] argani, e [da] ruote dagli spettatori non vedute» in grado di ritirarsi «con l'aiuto di poche corde [...] in pochi istanti». L'opera, che fu realizzata nel 1729 quando Raimondo era ancora convittore nel Collegio gesuitico a Roma, gli valse le lodi di Nicola Michetti, già al servizio dello zar Pietro il Grande, che preferì il congegno ideato dal Principe rispetto agli altri.

Più tardi, Raimondo avrebbe attribuito la paternità del meccanismo ad Archimede, che gli sarebbe apparso in una visione onirica («[il palco] era stato proposto in sogno da un venerando vecchio annunziatosi ad esso per Archimede»), anche se è più probabile che egli abbia semplicemente voluto riconoscere nella figura dello scienziato siracusano il proprio genio tutelare.
Palingenesi

Nelle sue sperimentazioni, Raimondo si cimentò anche in un'antica scienza sacra, la palingenesi, riuscendo a ricostituire (secondo alcune fonti coeve) diversi corpi naturali dalle proprie ceneri, con modalità che si era ben guardato dallo specificare. Un testimone di queste rigenerazioni fu lo stesso Giangiuseppe Origlia, che raccontò:

«risurrezione de’ granchi di fiume, i quali dopo calcinati a fuoco di riverbero, e ridotti in cenere, producono degli moltissimi insetti, e quindi da questi col secondo giornale inaffiamento di sangue fresco di bue, usato in una particolar maniera, ne rinascono quelli di bel nuovo»

Anche de Lalande, amico del Principe, assistette a una «palingenesi naturale di vegetali e animali, specialmente con cenere di finocchio, che, secondo lui, riproduceva la pianta»: come già accennato, Raimondo custodì questo segreto col massimo riserbo, tanto che la Breve nota di quel che si vede in casa del Principe di Sansevero sottolinea che per presenziare alle «belle sperienze fatte altresì per rispetto alla palingenesia» è necessaria «della confidenza col medesimo».
Riproduzione del miracolo di San Gennaro

La curiosità di Raimondo lo portò a verificare l'attendibilità del miracolo del sangue di San Gennaro, attestato per la prima volta nel 1389. Chiedendosi in quali circostanze una sostanza potesse liquefarsi e poi nuovamente coagularsi, riprodusse il miracolo in laboratorio, componendo «una certa materia simile al sangue di San Gennaro» (come attesta il nunzio apostolico Lucio Gualtieri in una lettera del 18 maggio 1751).

L'esperimento - che fu fonte di ulteriori attriti tra il Principe e la Chiesa, già risentita in seguito alla pubblicazione della Lettera Apologetica - è descritto molto vividamente dal contemporaneo de Lalande:

«Ha fatto costruire un ostensorio o teca simile a quella di San Gennaro, con due ampolle della stessa forma, piene di un amalgama di oro e mercurio misto a cinabro, dello stesso colore del sangue coagulato. Per rendere fluido questo amalgama c’è nel cavo della bordatura […] un serbatoio di mercurio fluido con una valvola che, quando la teca viene capovolta, si apre per lasciare entrare mercurio nell’ampolla. A questo punto l’amalgama diventa liquido e imita la liquefazione; ma questa è una pura ipotesi di fisica, adatta a spiegare un effetto. È proprio di un grande fisico voler tutto spiegare e tutto imitare»
Stampa a più colori

Altro merito di Raimondo fu quello di ideare «un nuovo modo d'imprimere a una sola tirata di torchio, e a un medesimo tempo, qualsivoglia figura sì d'uomini, come di fiori, e d'ogni altra cosa variamente colorita». Quella di stampare simultaneamente in policromia, in effetti, era una tecnica pressoché sconosciuta all'epoca.

È ancora de Lalande ad attestarci l'efficacia di questo metodo:

«L’arte di stampare a più colori è ancora una delle cose che questo principe aveva perfezionato; mi fece vedere delle stampe su carta e su seta bianca, dove egli aveva stampato alcuni fiori di differenti colori, con un sol rame ed un sol giro di torchio […] mi sembra che le tavole fatte a Parigi da M. Gauthier non siano realizzate con lo stesso vantaggioso procedimento»

«Il monumento della nuova sorprendente invenzione» - come affermò Lorenzo Giustiniani - fu proprio la Lettera Apologetica; il frontespizio, infatti, era stato stampato con un'unica pressione di torchio e presentava ben quattro colori, con i caratteri in nero, rosso, arancione e verde.[25]

Secondo Benedetto Croce, alla luce del successo del volume il Sansevero "supplicò S.M. di ricevere in dono tutte le macchine ed attrezzi, che componevano la sua stamperia. Carlo III accettò, e così nacque la Stamperia Reale, che fu situata sotto il Palazzo Reale"[26].
Opere letterarie e scientifiche
Lettera Apologetica

La Lettera Apologetica dell'Esercitato Accademico della Crusca contenente la Difesa del libro intitolato Lettere d'una Peruana per rispetto alla supposizione de' Quipu scritta alla Duchessa di S**** e dalla medesima fatta pubblicare è la principale opera letteraria di Raimondo di Sangro, che la fece stampare agli inizi del 1751 (nonostante il frontespizio rechi la data dell'anno precedente).[27]

La Lettera Apologetica mira a convincere una duchessa amica del Principe del potenziale di un sistema comunicativo in uso nel Perù precolombiano, i quipu: si tratta di un sistema di notazione basato sull'utilizzo di i nodi fatti con cordicelle variamente colorate, già promossi da Françoise de Graffigny nel suo romanzo epistolare Lettres d'une péruvienne (1747). Ma se i quipu costituivano per le antiche civiltà peruviane un modo per registrare calcoli o avvenimenti, Raimondo se ne serve per dissertare su questioni considerate spinose, quali l'esegesi della Genesi, la necessità del libero pensiero, il rapporto tra storia sacra e profana, il panteismo. L'opera, che molti vollero fitta di rimandi alla Massoneria, alla tradizione cabalistica e messaggi esoterici veicolati con un «maligno gergo», fu decisiva nel collocare Raimondo di Sangro nel filone della cultura europea antitradizionale, radicata negli scritti di Bayle, d'Argens, Swift, Pope, e Voltaire.[27]
Frontespizio della Lettera Apologetica

La Lettera Apologetica, nonostante il suo chiaro intento polemico nei confronti del magistero della Chiesa, coglie comunque l'opportunità di coprire l'argomento dei quipu nella sua interezza, dando adeguato spazio anche ad una ricostruzione semantica del sistema comunicativo. L'opera è suddivisa in tre tavole: nella prima è presente un'elaborazione grafica delle «parole madri» della lingua incaica, ovvero termini quali Dio, Notte, Acqua, Sole e altri; nella seconda tavola vi è un'antica filastrocca peruviana tradotta in quipu; la terza, infine, propone addirittura un sistema per trascrivere in quipu i caratteri latini. Notevole è anche la veste tipografica della Lettera Apologetica, il cui frontespizio presenta quattro colori e venne stampato con un solo torchio, grazie all'utilizzo di una tecnica direttamente ideata dal Principe, che così ebbe l'opportunità di mostrare pubblicamente la sua «nuova sorprendente invenzione», per usare le parole di Lorenzo Giustiniani.[27]

Nonostante il pregio della stampa, l'opera suscitò diffusi malumori negli ambienti ecclesiastici, tanto da esser inserita il 29 febbraio 1752 nell'Indice dei libri proibiti, in quanto affetta da «atra peste»; il Principe prontamente indirizzò alla Santa Sede una Supplica per giustificare i contenuti dell'Apologetica, ma non bastò neanche questo per farla depennare dall'elenco dei prohibiti.[27]
Altre opere

La prima opera scritta da Raimondo di Sangro fu la Pratica più agevole e più utile di Esercizj Militari per l'Infanteria, stampata dal tipografo Giovanni di Simone e dedicata a Carlo di Borbone. Frutto dell'esperienza maturata nella battaglia di Velletri, l'opera gli valse le lodi da parte di Luigi XV di Francia, del Maresciallo di Sassonia e di Federico II; tutte le truppe spagnole, inoltre, fecero propri gli esercizi prescritti dal Principe.[28]

L'inserimento dell'Apologetica (della quale se n'è già parlato) nell'Indice dei libri proibiti, inoltre, gli ispirò nel 1753 la Supplica umiliata alla Santità di Benedetto XIV, con la quale cercò di convincere il Pontefice - anche con le armi della dialettica - che i principi espressi nell'opera fossero scritti esclusivamente con l'«innocente gergo» dell'ironia, ripudiando la tesi secondo cui tra le righe dell'opera fosse stato utilizzato un «maligno gergo» per propagandare messaggi esoterici. Dello stesso anno è la Lettres écrites à Mons.r l'Abbé Nollet de l'Académie des Sciences à Paris, contenant la rélation d'une découverte qu'il a faite par le moyen de quelques expériences chimiques et l'explication phisique de ses circonstances. Si tratta di una raccolta di lettere indirizzate a Jean-Antoine Nollet nella quale Raimondo diede a tutti un saggio della «meravigliosa scoperta» del lume perpetuo; il testo, pur rimanendo denso di rimandi all'esoterismo, comunque evoca un metodo squisitamente scientifico, menzionando al contempo i fisici e gli scienziati più autorevoli del tempo.[28]

L'ultima opera di Raimondo è la Dissertation sur une lampe antique trouvée à Munich en l'année 1753, pubblicata nel 1756. In quest'opera, sempre indirizzata all'amico Nollet, il Principe ritorna sul tema della fiamma perpetua, con il pretesto del rinvenimento d'una presunta «lampada meravigliosa» a Monaco di Baviera (che, comunque, si scoprirà non essere «perpetua» come il lume di Raimondo). La Dissertation, in effetti, fu seguita da un impressionante e definitivo silenzio letterario, dovuto al «gran desiderio» di «mantenere il silenzio» dinanzi al pericolo delle censure. L'Origlia, in ogni caso, ci tramanda che Raimondo scrisse pur senza pubblicarle un cospicuo numero di opere, rimaste inedite proprio a causa della loro pericolosità: di quest'ultime, si possono citare una Serie di lettere indirizzate ad un libero pensatore sulla morale degli atei, i Dialoghi critici intorno alla vita di Maometto e la Dissertazione sulla vera cagione producitrice della luce.[28]




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Raimondo mecenate

Blasonatura
D'oro a tre bande d'azzurro.

L'intensa attività come cultore dell'arte, e i cantieri del palazzo di Sangro e della Cappella Sansevero, permisero a Raimondo di entrare in contatto con i maggiori artisti del tempo: architetti, ingegneri, pittori, scultori, stuccatori, falegnami, fonditori e perfino «cariglionieri» lavorarono per il Principe, che si dimostrò essere un mecenate sì munifico, ma comunque molto esigente.[29]

Raimondo protesse Antonio Corradini, primo esecutore del progetto iconografico della Cappella, già celebre per esser stato al servizio dell'imperatore Carlo VI. Al Corradini, morto nel 1752, successe il genovese Francesco Queirolo, attivo a Roma e noto per il suo virtuosismo tecnico; tra il Quierolo e il Principe, tuttavia, sorse un'aspra disputa, che fu causa di rottura tra i due. Fu Francesco Celebrano, negli ultimi anni di vita di Raimondo, ad eseguire e a sovrintendere al progetto iconografico del tempo disangriano.[29]

Oltre agli artisti succitati, il patronato artistico promosso dal Principe coinvolse anche Giuseppe Sanmartino, lo scultore napoletano che eseguì il Cristo velato e alcuni stucchi nell'androne del palazzo di Sangro, e il sorrentino Paolo Persico, che memore dell'esperienza maturata nel cantiere della Cappella fu chiamato dai Borbone per adornare con le sue sculture la costruenda reggia di Caserta. Alle dipendenze del Principe vi fu anche Francesco Maria Russo: si hanno scarsissimi dati sulla sua vita, né la sua opera è stata sufficientemente studiata, ma sappiamo che oltre che nella Cappella, della quale affrescò la volta, lavorò anche nell'antisagrestia della Cappella del Tesoro di San Gennaro.[29]
Mito
Storia, arte e letteratura

Già quand'era ancora in vita, il Principe fu celebrato quale grande inventore e euretès delle tecniche e delle arti. Fu lo stesso Raimondo ad alimentare questo mito che sorse intorno alla sua figura, dando notizia nella Lettera Apologetica dei «producimenti del suo maraviglioso ingegno» e delle sue invenzioni, senza però rivelarne esaurientemente il segreto, così da suscitare ammirazione e curiosità nei suoi contemporanei. E in effetti così avvenne, tanto che i censori della Congregazione dell'Indice dei libri proibiti non poterono non ammirare «un ingegno singolare, meraviglioso, si direbbe prodigioso» in Raimondo.[30]
«Or queste opere, e tutte queste scoverte sinora di sì illustre Personaggio, che abbiamo qui brievemente cennato, ci fanno sperare sempre più in appresso delle cose maggiori, e si comprenderà da tutti senza alcuna ombra di dubbio, ch’egli sia un di quei eroi, che la natura di tanto in tanto si compiace di produrre per far pompa di sua grandezza»
— Giangiuseppe Origlia, Istoria dello Studio di Napoli

Il primo cultore della memoria disangriana, all'indomani della sua morte, fu Giangiuseppe Origlia che ne scrisse la prima biografia, dove osannò il Principe quale «un di quei eroi, che la natura di tanto in tanto si compiace di produrre per far pompa di sua grandezza». L'amico Antonio Genovesi riconobbe che si trattava di un «uomo fatto a tutte le cose grandi e meravigliose», giudizio che ricorda quello che Raimondo si autoassegnò sulla sua lapide sepolcrale, secondo cui egli era un «uomo meraviglioso predisposto a tutte le cose che osava intraprendere [...] celebre indagatore dei più reconditi misteri della Natura». Significativi furono anche il capitoletto che Giuseppe Maria Galanti (discepolo del Genovesi) scrisse in suo onore sulla sua Breve descrizione di Napoli, dove acclamò «la grandezza del suo genio», e il sonetto che Carlantonio de Rosa di Villarosa gli dedicò nei suoi Ritratti poetici.[30]

Dopo il contributo poetico di Carlantonio de Rosa, la parabola disangriana scemò progressivamente nel corso dei decenni; fu solo sul finire dell'Ottocento che il culto di Raimondo si ravvivò grazie al contributo di Salvatore Di Giacomo, Luigi Capuana e Benedetto Croce, che lo decretarono quale uomo dal fervido ingegno. Con la nascita della cultura di massa e lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, il rinnovato interesse verso il Principe iniziò a diffondersi anche al di fuori degli ambienti più strettamente letterari, approdando nel cinema, nell'arte e nella fumettistica: un episodio del fumetto Martin Mystère prende ispirazione al mito disangriano, così come un'opera di Lello Esposito[30] e un film d'animazione, Il Piccolo Sansereno, il mistero dell'Uovo di Virgilio, che pure attinge dalla parabola biografica di Raimondo.[31] Nel 2022, L'ombra dell'alchimista è uno spettacolo portato in scena dal gruppo teatrale Grand Guignol de Milan, basato sulle leggende popolari sorte sulla figura del principe.
Leggende popolari

Al di là del «mito colto», numerosissime leggende popolari sono sorte attorno alla misteriosa figura del principe di Sansevero, contribuendone a conservare il ricordo - distorto, ma saldo - e a renderlo inossidabile. La genesi di questi racconti si deve alla fervida fantasia del popolo napoletano, eccitato dai sinistri bagliori e dalle esalazioni provenienti dal laboratorio del Principe, e dalle invenzioni che ne uscivano. Salvatore Di Giacomo lascia una descrizione assai vivida dell'atmosfera che si respirava nei vicoli immediatamente circostanti il palazzo di Raimondo:[32]

«Fiamme vaganti, luci infernali – diceva il popolo – passavano dietro gli enormi finestroni che danno, dal pianterreno, nel Vico Sansevero [...] Scomparivano le fiamme, si rifaceva il buio, ed ecco, romori sordi e prolungati suonavano là dentro: di volta in volta, nel silenzio della notte, s’udiva come il tintinnio d’un’incudine percossa da un martello pesante, o si scoteva e tremava il selciato del vicoletto come pel prossimo passaggio d’enormi carri invisibili»
Sulla figura di Raimondo, oltre al «mito colto», si sviluppò una cospicua mole di leggende popolari, che pure contribuirono a mantenerne vivo il ricordo. Nella foto, la facciata del palazzo di Sangro

La fama di cui godeva il temuto Raimondo viene confermata da Benedetto Croce:[32]

«per il popolino delle strade che attorniano la Cappella dei Sangro [il principe di Sansevero è] l'incarnazione napoletana del dottor Faust [...] che ha fatto il patto col diavolo, ed è divenuto un quasi diavolo esso stesso, per padroneggiare i più riposti segreti della natura»

La cosiddetta «leggenda nera» tuttavia non si esaurisce qui, comprendendo altri presunti prodigi e nefandezze che il Principe avrebbe compiuto. Si narra - con riferimento alle Macchine anatomiche - che «fece uccidere due suoi servi» per «imbalsamarne stranamente i corpi»; analogamente, pare che abbia ucciso «sette cardinali e con le loro ossa costruì sette seggiole, mentre la pelle, opportunamente conciata, ricoprì i sedili»; accecò Giuseppe Sanmartino, autore del Cristo velato, per far sì che egli «non eseguisse mai per altri così straordinaria scultura»; «entrava in mare con la sua carrozza e i suoi cavalli [...] senza bagnare le ruote» e «riduceva in polvere marmi e metalli». La più nota delle leggende, tuttavia, riguarda la trasparenza del sudario che avvolge il Cristo velato, che molti vogliono essere il risultato di un espediente alchemico in grado di «marmorizzare» i tessuti; in realtà, il velo è «realizzato dallo stesso blocco della statua» e pertanto frutto esclusivamente dello scalpello del Sanmartino.[32]

Un'ultima misteriosa leggenda aleggia sulla figura del Principe, nello specifico sulle circostanze della sua morte. È ancora Croce a ricordarla:[32][33]

«Quando sentì non lontana la morte, provvide a risorgere, e da uno schiavo moro si lasciò tagliare a pezzi e ben adattare in una cassa, donde sarebbe balzato fuori vivo e sano a tempo prefisso; sennonché la famiglia [...] cercò la cassa, la scoperchiò prima del tempo, mentre i pezzi del corpo erano ancora in processo di saldatura, e il principe, come risvegliato nel sonno, fece per sollevarsi, ma ricadde subito, gettando un urlo di dannato»
Titoli e incarichi

Settimo Principe di San Severo
Grande di Spagna di Prima Classe
Duca di Torremaggiore
Marchese di Castelnuovo
Gentiluomo di Corte
Gentiluomo di Camera con Esercizio
Cavaliere dell'Insigne e Real Ordine di San Gennaro
Colonnello del Reggimento di Capitanata
1º Sovrano Gran Hyerophante e Serenissimo Gran Maestro del Rito Egizio Tradizionale[34]
Gran Maestro della Massoneria Napolitana
Maestro Venerabile della Loggia la Perfetta Unione





fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Raimondo_di_...imondo_mecenate

 
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Giovanni Emanuele Elia


Biografia

Giovanni Emanuele Elia, nobiluomo di origini torinesi, era conte di San Valentino.

Inventò le torpedini da blocco usate dall'Intesa durante la prima guerra mondiale. Fu inoltre presidente della Società geografica italiana.

Nel 1921 acquistò una antica villa rustica ai Parioli che fece restaurare dall'architetto Carlo Busiri Vici, tra il 1922 e il 1924, trasformandola in una villa prestigiosa. La nuova villa si chiamava Villa San Valentino, che venduta nel 1945 dalla vedova Beatrice Benini, figlia di Pietro Benini, prese il nome di Villa Elia Lusa attuale ambasciata del Portogallo presso la Santa Sede.

Giovanni Emanuele Elia era il padre di Maria Elia De Seta Pignatelli.





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Luigi Emanueli

Luigi Emanueli (Milano, 4 maggio 1883 – Milano, 17 febbraio 1959) è stato un ingegnere e inventore italiano, è considerato il padre dell'elettrotecnica moderna.

Biografia

Può essere considerato figlio d'arte: il padre Leopoldo era tecnico alla Pirelli e aveva realizzato le prime macchine per la fabbricazione dei cavi.

Consegue la laurea in Ingegneria industriale elettronica nel 1906 al Politecnico di Milano e viene assunto in Pirelli nel 1907. Lì prosegue gli studi in campo elettrotecnico, in particolare sul fenomeno delle perdite del dielettrico sotto tensione alternata. Inventa nel 1911 l'elettrodinamometro, strumento che per primo gli permette di studiare il fenomeno della ionizzazione a causa di occlusioni gassose nel dielettrico.

Nel 1959 gli venne conferita la Medaglia Faraday.
I cavi
Il cavo Emanueli

Nel 1923 inventa il cavo Emanueli. Tale cavo è il primo a consentire il trasporto di energia[elettrica?] ad alta tensione e consente di illuminare i grandi centri urbani. Il primo cavo viene sperimentato a Brugherio. Nel 1927 il cavo è utilizzato per illuminare New York e Chicago, nel 1936 tocca a Parigi.
I cavi telefonici

Nel 1910 realizza il cavo telefonico più lungo del mondo in quell'epoca, che unisce Milano a Grosseto.

Nel 1913 realizza il primo cavo telefonico sottomarino che serve la Sardegna. È il primo cavo che utilizza la corona di rame.

Nel 1953 realizza il primo cavo telegrafico per grandissime profondità oceaniche che unisce Capo Verde con Recife, in Brasile.





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Giovan Battista Embriaco

Padre Giovanni Battista Embriaco (Ceriana, 1829 – Roma, 6 marzo 1903) è stato un inventore italiano. Frate domenicano, a lui si deve l'idrocronometro (un orologio ad acqua).

Biografia

Figlio di una nobile famiglia genovese, entra nell’ordine Domenicano a Perugia nel 1840.

Appassionato di meccanica, ha inventato macchine per la telegrafia, per la lavorazione dei metalli e anche il famoso scappamento con palette a scatto azionate dall’acqua.

L’acqua riempie a ritmo alternato due comparti di una vaschetta oscillante, imprimendo un moto uniforme “isocrono” alla suoneria e al pendolo.

Un idrocronometro è stato inviato all’Esposizione Universale di Parigi del 1967.

Due esemplari sono ancora presenti a Roma: uno è alloggiato in una nicchia a conchiglia nel cortile del Palazzo Berardi, in via del Gesù 42 (1870) e l’altro posto nel Parco del Pincio in via dell’orologio (1873).[1]





fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Giovan_Battista_Embriaco

 
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Francesco Faà di Bruno


Francesco Faà di Bruno (Alessandria, 29 marzo 1825 – Torino, 27 marzo 1888) è stato un ufficiale, matematico e presbitero italiano. Dopo aver militato nell'esercito sabaudo, divenne professore di matematica presso l'università e l'accademia militare di Torino. Pubblicò importanti studi sulle teorie dell'eliminazione e degli invarianti e sulle funzioni ellittiche. In seguito venne ordinato sacerdote e fondò l'Opera di Santa Zita, la congregazione delle Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio e un istituto scolastico a Torino, che oggi comprende scuola materna, elementare e media. È stato beatificato da papa Giovanni Paolo II il 25 settembre 1988. È considerato, ancorché non canonizzato, uno dei santi sociali torinesi.

Biografia
Giovinezza

Fu il dodicesimo e ultimo figlio di Lodovico Faà di Bruno, marchese di Bruno, e di Carolina Sappa de' Milanesi. Fratello minore del futuro capitano di vascello Emilio Faà di Bruno, proveniva da una famiglia della nobiltà piemontese. Il suo nome completo è Francesco da Paola, Virginio, Secondo, Maria. Nel 1834, a 9 anni, perse la madre. Nel 1836 entrò nel collegio dei Padri Somaschi a Novi Ligure. Nel 1840 entrò nell'Accademia militare di Torino.
Carriera militare

Dopo aver frequentato l'Accademia militare fu nominato ufficiale, distinguendosi negli studi geografici e nella cartografia. Nel 1848-49 partecipò alla Prima guerra d'indipendenza italiana. Combatté a Peschiera ed effettuò rilievi topografici del territorio lombardo, che l'esercito piemontese percorse; ciò gli permise di realizzare la Gran carta del Mincio, che fu molto utile ai piemontesi durante la seconda guerra di indipendenza nel 1859, contribuendo alla vittoria nella battaglia di Solferino e San Martino. Nel 1849 fu promosso Capitano di Stato Maggiore. Rimase ferito in combattimento a Novara. Fu decorato per il suo comportamento in battaglia.

Scelto da Vittorio Emanuele II quale precettore dei figli, si recò a Parigi, alla Sorbona, per poter approfondire gli studi matematici e astronomici ed essere sufficientemente preparato al compito assegnatogli. Conseguì la licenza in scienze matematiche nel 1851. A seguito del suo rifiuto, motivato dalla sua fede cattolica[1], di battersi in duello con un ufficiale che lo aveva offeso (asserendo che non fosse in grado di ottenere una laurea invece di una semplice licenza), dopo il congedo ottenuto nel 1853 si recò nuovamente alla Sorbona, conseguendo la laurea in scienze matematiche e astronomiche, vincendo così, a modo suo, il suo sfidante a duello.
Carriera scientifica

Nel 1855 cominciò a lavorare presso l'Osservatorio nazionale francese sotto la direzione di Urbain Le Verrier. Nel 1857 iniziò a insegnare all'Università di Torino Matematica e Astronomia. Da allora non cessò mai di insegnare, soprattutto all'università ma anche nell'Accademia Militare e nel Liceo Faà di Bruno. A causa degli attriti fra il mondo cattolico e lo Stato italiano, in quel periodo anticlericale, non fu mai nominato professore ordinario[2]. Fu nominato professore straordinario solo nel 1876. Il contenuto dei suoi corsi spaziava in ambiti inusuali, come la teoria dell'eliminazione, la teoria degli invarianti e le funzioni ellittiche. Pubblicò vari trattati e memorie. Nel 1859 pubblicò a Parigi, in francese, la Théorie générale de l'élimination, in cui viene esposta la formula, che da lui prende il nome, della derivata n-esima di una funzione composta. La sua fama in matematica è però legato soprattutto al trattato sulla teoria delle forme binarie.[3]

Si dedicò anche all'ingegneria, e fu inventore: oltre a varie strumentazioni per la ricerca scientifica, nel 1856, di fronte alla cecità di sua sorella Maria Luigia, progettò e brevettò uno scrittoio per ciechi, premiato con medaglia d'argento all'Esposizione nazionale dei prodotti dell'industria del 1858. Nel 1878, avvertendo la necessità di scandire i tempi della giornata, brevettò uno svegliarino elettrico. Inventò anche un barometro a mercurio.

Eseguì i calcoli costruttivi e seguì la realizzazione del campanile della chiesa di Nostra Signora del Suffragio e Santa Zita, a Torino, conosciuta anche solo come chiesa di Santa Zita, collaborando con Arborio Mella, che progettò l'edificio nel suo complesso. Si trattava, all'epoca, del secondo edificio più alto della città dopo la Mole Antonelliana: 83 metri. Secondo una leggenda,[4] il motivo per cui volle realizzare quest'opera è prettamente sociale: voleva evitare che le lavoratrici e i lavoratori della città venissero ingannati sull'orario di lavoro e aveva calcolato che un orologio di due metri di diametro, collocato sulle varie facce del campanile a 80 metri di altezza, sarebbe stato visibile in gran parte della città e liberamente consultabile da tutti[5][6].
Uomo di fede
Targa posta a Torino, in via San Donato

Fu costantemente un uomo di fede. Nel periodo in cui era militare scrisse un Manuale del soldato cristiano. Su invito di Augustin Cauchy, suo professore alla Sorbona, il 25 aprile 1856 fu uno dei membri del primo Consiglio Generale de l'Œuvre des Écoles d'Orient, associazione francese oggi conosciuta come L'Œuvre d'Orient, ente al servizio dei cristiani d'Oriente da più di 160 anni. Visse con disagio il suo desiderio patriottico di vedere l'Italia unita, di fronte all'ideologia anticlericale (e a tratti filo-massonica) che permeò la sua concreta realizzazione. Da scienziato affermò sempre di trovare un'assoluta armonia fra la scienza e la fede.

Come amante della musica pubblicò una rivista di musica sacra: la Lira cattolica. Egli stesso compose melodie sacre, apprezzate da Franz Liszt. Fondò scuole di canto domenicali, frequentate da quelle donne di servizio a cui dedicò una parte delle sue opere. All'epoca la situazione delle donne di servizio era difficile: sfruttamento del lavoro, povertà, emarginazione erano all'ordine del giorno. Era frequente che una donna di servizio rimanesse incinta e venisse quindi allontanata dalla famiglia. Intraprese una serie di iniziative in aiuto di queste persone, fondando anche una casa di accoglenza per ragazze madri. Il cardine di questa attività fu l'Opera di Santa Zita, fondata nel 1859.

Aprì un Collegio professionale con ritiri estivi a Benevello d'Alba. Dopo la costruzione della chiesa di Nostra Signora del Suffragio, iniziata nel 1868 nel quartiere di San Donato (il Borgo), nacque una congregazione di suore: le Minime di Nostra Signora del Suffragio. La consegna delle mantelline alle prime postulanti avvenne nel 1869, ma le prime professioni solenni poterono avvenire solo nel 1893, dopo la sua morte, perché fu necessario attendere il riconoscimento ufficiale della Chiesa, che espresse inizialmente qualche riserva. Fu amico di Don Bosco, che operava a Torino in quello stesso periodo.

Il 22 ottobre 1876 fu ordinato sacerdote. Desiderava questa ordinazione anche per seguire meglio la congregazione di suore. Attorno alla congregazione sorsero diverse opere, fra cui, fin dallo stesso anno 1868, un complesso scolastico che esiste tuttora, con una scuola superiore che è oggi il Liceo Faà di Bruno.
Morte e beatificazione
Urna contenente i resti del beato Francesco e affresco che lo rappresenta nella cappella laterale della chiesa di Nostra Signora del Suffragio e Santa Zita, a lui dedicata

Morì improvvisamente per un'infezione intestinale, poco dopo Don Bosco. Subito ebbe fama di santità. Fu riconosciuto beato nel 1988, nel centenario della sua morte. Il 27 marzo è la data stabilita per la memoria liturgica del beato, che è patrono del Corpo degli Ingegneri dell'Esercito Italiano (già Corpo Tecnico). I suoi resti sono tumulati in un'urna esposta nella cappella laterale della chiesa di Nostra Signora del Suffragio e Santa Zita.
Il museo

A Torino, nei pressi della chiesa di Nostra Signora del Suffragio, un museo ospita in nove sale una raccolta di strumenti scientifici usati o inventati dal beato, una ricca biblioteca scientifica e una raccolta di paramenti sacri, fra i quali spicca un calice donato da papa Pio IX in occasione dell'ordinazione sacerdotale di Francesco Faà di Bruno.[7]



fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Fa%C3%A0_di_Bruno
 
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Massimo Facchin

Massimo Facchin (Lamon, 25 aprile 1916 – Belluno, 24 novembre 2018) è stato uno scultore, pittore e inventore italiano[1].

Biografia

In gioventù ha fatto l'operaio, l'orologiaio, il falegname, il meccanico. Dopo il diploma magistrale, fece lo scrivano al Distretto militare di Belluno. In seguito fu inquadrato nel 64º reggimento di fanteria di Vittorio Veneto e, dopo il corso ufficiali di Fano, fu destinato ad Ivrea. Da lì partì per il fronte russo dove visse la tragedia della ritirata dalla sacca del Don e fu decorato sul campo con la Medaglia di bronzo al Valor Militare con la seguente motivazione: “comandante di un plotone fucilieri a rinforzo di un reparto alleato al presidio di un caposaldo duramente attaccato ed in parte occupato da preponderanti forze nemiche, benché ferito non gravemente alla testa, non abbandonava la lotta e continuava a dare esempio ai suoi fanti di alto spirito combattivo e di tenace volontà di resistere ad oltranza” - Nowo-Kalitwa (Don Russia), 12-19 dicembre 1942[2][3][4]. Scampato a quella tragedia, camminò per duemila chilometri sperimentando la generosità delle donne russe, la stupidità della guerra, la dignità umana calpestata sotto le bombe[5] concetti che aveva molto cari[6] e che ha più volte espresso nelle sue opere fra cui, da ultimo, nel monumento al parco Città di Bologna di Belluno. Dopo la guerra svolse una lunga attività di insegnante d'arte e di scultore. Si dedicò alla scrittura e all'arte pubblicando quattro libri e producendo più di 1.000 opere di grafica, pittura, incisione, scultura e terracotta ottenendo numerosi riconoscimenti. Suoi i monumenti ai caduti in Russia nella chiesa di Mussoi e al Parco «Bologna», gli stemmi dei 69 comuni della provincia di Belluno che circondano la fontana di Piazza dei Martiri. Ha ideato e costruito centinaia di congegni, qualcuno coperto da brevetto, allo scopo di evidenziare alcuni preconcetti tuttora diffusi nel sapere comune riguardo alla sfericità del globo terrestre, in particolare è da ricordare il mappamondo a due assi orientabile in base alla posizione in cui si trova sulla terra[3]. Facchin era stato nominato Cavaliere ufficiale della Repubblica[7].
Opere
Mia nonna. Dipinto giovanile degli anni trenta, olio su tavola con l'uso di uno stecco.

Massimo Facchin, Case rustiche nel Bellunese, raccolta di 72 incisioni con testo di Ulderico Bernardi, Editore: Nuovi Sentieri, 1984.
Massimo Facchin, Com'era il mio paese...: i miei ricordi di Lamon, Editore: Istituto bellunese di ricerche sociali e culturali, 2003.
Cristo ligneo al Museo di Arte Sacra della Basilica di Sant'Ambrogio a Milano.
Monumento a Tullio Campagnolo a Passo Croce d’Aune.
Monumento al mulo e al suo conducente nei giardini di Piazzale della Stazione a Belluno[8].
Medaglioni raffiguranti Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II sulla facciata della Canonica Parrocchiale di Canale d'Agordo[9], 1980.
Lapide bronzea ai caduti in Russia alla Fortezza dell'Annunziata di Ventimiglia.
Busto bronzeo del Generale Giuseppe dal Fabbro in piazza a Sedico.
Busto bronzeo del Beato Bernardino in Piazza Beato Bernardino a Feltre.
Busto bronzeo di Don Giulio Gaio nel chiostro della Basilica santuario dei Santi Vittore e Corona ad Anzù di Feltre.
Bassorilievi bronzei nel Tempio di Cargnacco dedicato ai caduti e dispersi in Russia.
Volto della Madonna in pietra del Monte Peralba sito negli appartamenti papali a Città del Vaticano.[10]
Varie medaglie commemorative fra cui Gattamelata, Petrarca, Dino Buzzati, Giovanni Dondi dell'Orologio, Jacopo Facen, Giovanni Paolo I e per i viaggi di Giovanni Paolo II in Ungheria, in Senegal e in Angola.[10]
La vestina nuova - ritratto di bambina. Scultura lignea conservata nel museo della Fabbrica di birra a Pedavena.
Busto bronzeo di Giovanni Paolo I e vari bassorilievi bronzei presso il Centro di spiritualità e cultura Papa Luciani a Col Cumano di Santa Giustina Bellunese.
Il dominatore della montagna - imponente busto di un alpino dalle forme vagamente futuriste in pietra del Monte Coppolo conservato presso la Caserma del 7º Reggimento Alpini di Belluno.
Medaglione bronzeo raffigurante Giovanni Paolo I sulla facciata della Canonica Parrocchiale di San Polo di Piave.
Bassorilievo bronzeo per la targa commemorativa di Papa Giovanni Paolo I presso il Villaggio Scalabrini di Chipping Norton in Australia[11].
Busto bronzeo di Giovanni Paolo I presso il Centro di Spiritualità Papa Luciani di Kodjoboué presso Bonoua in Costa d'Avorio[12].
Busto di Monsignor Antonio Slongo in pietra del Monte Coppolo nella Chiesa del Sacro Cuore di Lamon.
Busto bronzeo di Giovanni Paolo I nella chiesa di Santa Maria degli Angeli a Feltre.
Bassorilievo bronzeo di Don Giulio Gaio nella chiesa di Anzù di Feltre.
Le madri in pianto e Guerra e mutilazioni-steppa e prigionia - bassorilievi bronzei nel Giardino della Memoria di Canale d'Agordo[13].
Medaglioni bronzei raffiguranti Mario Brovelli e Bruno Tolot, ideatori dell’Alta via n. 3 (o dei camosci) collocati presso la “Porta della Serra” a 2050 m di altitudine sulla stessa alta via[14].
Gesù maestro - bassorilievo bronzeo nella sala di cultura della chiesa di Loreto, Belluno.
Busto bronzeo di Monsignor Antonio Slongo nell'ingresso dell'ospedale di Lamon.
Busto in pietra di Pacifico Guerrino Susin (farmacista) nell'atrio dell'ospedale di Lamon.
Figura femminile - busto in pietra conservato presso il Museo Civico di Belluno[15].





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Federico Faggin

Federico Faggin (Vicenza, 1º dicembre 1941) è un fisico, inventore e imprenditore italiano naturalizzato statunitense[1].

Dal 1968 Faggin risiede negli Stati Uniti ed ha assunto anche la cittadinanza statunitense. Fu capo progetto e progettista dell'Intel 4004 e responsabile dello sviluppo dei microprocessori 8008, 4040 e 8080 e delle relative architetture. Fu anche lo sviluppatore della tecnologia MOS con gate di silicio (MOS silicon gate technology), che permise la fabbricazione dei primi microprocessori e delle memorie EPROM e RAM dinamiche e sensori CCD, gli elementi essenziali per la digitalizzazione dell'informazione.

Nel 1974 fondò e diresse la ditta ZiLOG,[2] la prima ditta dedicata esclusivamente ai microprocessori, presso cui dette vita al famoso microprocessore Z80. Nel 1986 Faggin co-fondò e diresse la Synaptics, ditta che sviluppò i primi Touchpad e Touch screen.

Biografia
Origini e formazione

È figlio del filosofo Giuseppe, traduttore delle Enneadi di Plotino. I suoi genitori erano originari di Isola Vicentina, ma abitavano a Vicenza dove Federico è nato. Dal 1943 al 1949 la sua famiglia si trasferì a Isola Vicentina a causa della guerra; solamente dopo la fine della guerra ritornarono ad abitare a Vicenza. Dopo avere conseguito nel 1960 il diploma di perito industriale, specializzato in radiotecnica, all'Istituto tecnico industriale Alessandro Rossi di Vicenza, iniziò subito ad occuparsi di calcolatori presso il Laboratorio di Ricerche elettroniche dell'Olivetti a Borgolombardo, all'epoca tra le industrie all'avanguardia nel settore, contribuendo alla progettazione e infine dirigendo il progetto di un piccolo computer elettronico digitale a transistori con 4 Ki × 12 bit di memoria magnetica.

Lasciata l'Olivetti nel 1961, s'iscrisse al corso di Fisica presso l'Università degli Studi di Padova, dove si laureò summa cum laude nel 1965 e dove venne subito nominato assistente incaricato. Insegnò nel laboratorio di elettronica e continuò la ricerca sui flying spot scanner, l'argomento della sua tesi. Venne quindi assunto, nel 1967, dalla SGS-Fairchild (poi National Semiconductor, oggi ON Semiconductor) presso Agrate Brianza, dove sviluppò la prima tecnologia di processo per la fabbricazione di circuiti integrati MOS (Metal Oxide Semiconductor) e progettò i primi due circuiti integrati commerciali MOS.
Le esperienze professionali e il trasferimento negli USA
Lo stesso argomento in dettaglio: Intel 4004.

La SGS-Fairchild invitò Faggin a fare un'esperienza di lavoro presso la sua consociata Fairchild Semiconductor, azienda leader del settore semiconduttori a Palo Alto in California. Qui egli si dedicò allo sviluppo dell'originale MOS Silicon Gate Technology, la prima tecnologia di processo del mondo per la fabbricazione di circuiti integrati con gate auto-allineante. Progettò e produsse anche il primo circuito integrato commerciale che usasse la Silicon Gate Technology, il Fairchild 3708, un multiplexer analogico a 8 canali con decoding logic. Sviluppò anche il processo di silicon gate a N-channel e lavorò a processi avanzati di CMOS e BiCMOS con silicon gate. La Silicon Gate Technology nel 1970 rese possibile la large scale integration (LSI) e la very large scale integration (VLSI), permettendo per la prima volta la fabbricazione di circuiti integrati MOS su larga scala, ad alta velocità e a basso costo.
L'Intel 4004

Faggin decise di stabilirsi negli USA e nel 1970 passò alla Intel, qui Ted Hoff e Stanley Mazor avevano proposto una nuova architettura per la realizzazione di una nuova famiglia di calcolatrici della società giapponese Busicom che allora utilizzava un modello ispirato al Programma 101 della Olivetti. Ted Hoff semplificò l'architettura della Busicom, che usava memorie seriali e quindi un maggior numero di componenti, in un'architettura più generale che utilizzava le memorie RAM appena sviluppate dalla Intel, riducendo a 4 chip il design originale della Busicom che richiedeva 7 chip. Hoff pensava che la CPU potenzialmente potesse essere realizzata in un chip ma non era un chip designer e la sua proposta rimase ferma allo stadio di architettura a blocchi finché Faggin venne assunto per sviluppare e dirigere il progetto del primo microprocessore, il 4004 (inizialmente denominato MCS-4), contribuendo con idee fondamentali alla sua realizzazione.

La metodologia random logic design in silicon gate, creata da Faggin per sviluppare il 4004, fu poi usata per progettare le prime generazioni di microprocessori della Intel. Il 4004 fu il primo microprocessore al mondo che integrava in un singolo chip una potenza di calcolo superiore a quella dello storico ENIAC, il primo calcolatore elettronico al mondo. In seguito Faggin si occupò dello sviluppo di tutti i microprocessori dei primi cinque anni della storia della Intel. Usando la metodologia da lui creata per il progetto del 4004 venne realizzato l'8008, il primo microprocessore a 8 bit. All'inizio del 1972 propose la realizzazione dell'8080 di cui formulò l'architettura. Dovette attendere sei mesi prima che il progetto venisse approvato. L'8008 e l'8080 furono i progenitori della famiglia di processori 8086 che ancora oggi domina il mercato dei personal computer.

Nel 1973 Faggin divenne manager responsabile di tutta l'attività di circuiti MOS (ad eccezione delle memorie dinamiche RAM). Sotto la sua guida vennero sviluppati più di 25 circuiti integrati commerciali, inclusi il 2102A, la prima memoria statica RAM ad alta velocità a 5 volt e 1024 bit.
La fondazione di Zilog
Lo stesso argomento in dettaglio: Zilog.

Alla fine del 1974 abbandonò l'Intel e fondò la ZiLOG, la prima società dedicata esclusivamente alla produzione di microprocessori quando ancora l'Intel era principalmente un produttore di memorie che considerava i microprocessori solo un prodotto utile a vendere più memorie.

Il primo e più famoso prodotto della Zilog fu il microprocessore Z80 e la sua famiglia di dispositivi periferici intelligenti. Introdotto nel 1976, lo Z80 divenne il microprocessore a 8-bit di maggiore successo sul mercato. Molto popolare negli anni ottanta, fu usato tra l'altro come CPU dei primi videogiochi e di home computer come i Sinclair ZX80. Dopo il passaggio di computer e console a processori a 16 bit rimase in uso sotto forma di microcontroller nei sistemi embedded.
Altre attività imprenditoriali

Nel 1980 abbandonò la ZiLOG per divergenze con il principale finanziatore, la Exxon, e fondò la Cygnet Technologies, con la quale progettò e produsse il Communication CoSystem, un innovativo apparecchio che permetteva di collegare personal computer e telefono per la trasmissione di voce e dati, rappresentando un notevole progresso nel campo emergente delle comunicazioni personali. La ditta venne acquistata da Everex, Inc. nel 1986.

Nel 1986 divenne uno dei fondatori della Synaptics, contribuendo alla diffusione di massa del touchpad; è stato Chief Executive Officer dal 1987 al 1999 ed è stato Chairman of the Board of Directors dal gennaio 1999 ad ottobre 2004.

Dal 2004 è amministratore delegato della Foveon, una compagnia che produce avanzati sensori di immagine per fotocamere digitali.[3]
L'impegno nella ricerca

Il 19 ottobre 2010 Faggin ha ricevuto la Medaglia Nazionale per la Tecnologia e l'Innovazione (National medal of technology and innovation) direttamente dalle mani del presidente degli Stati Uniti d'America, Barack Obama, per l'invenzione del microprocessore.[4][5]

Unico italiano presente al Computer History Museum di Mountain View[6], nel 2011 ha fondato la Federico e Elvia Faggin Foundation, una organizzazione no-profit dedicata allo studio scientifico della coscienza attraverso la sponsorizzazione di programmi di ricerca teorica e sperimentale presso università e istituti di ricerca statunitensi.[7] Nel 2015 la Fondazione Federico e Elvia Faggin ha stabilito una cattedra di Fisica dell'Informazione presso l'Università della California, Santa Cruz (UCSC) per sostenere lo studio di sistemi complessi, biofisica, scienze cognitive e matematica nel tema unificatore della fisica dell'informazione.

Il 27 novembre 2019, su iniziativa del Presidente Sergio Mattarella[8], Faggin ha ricevuto la massima onorificenza della Repubblica Italiana con la nomina a Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
La teoria sulla coscienza

Nel 2022, nel libro "Irriducibile. La coscienza, la vita, i computer e la nostra natura" ha proposto una teoria sulla coscienza secondo la quale essa sarebbe un fenomeno puramente quantistico, unico per ognuno di noi in quanto, in base al teorema di non clonazione quantistica, non è riproducibile, per cui nessuna macchina potrà mai ricrearla (non è riduciblie a meccanismi) e continua a esistere anche in seguito alla morte del corpo. La nuova teoria D'Ariano-Faggin è basata sugli studi del professor Giacomo D'Ariano che rifondano la teoria quantistica su principi informativi.[9]
Onorificenze
Onorificenze Italiane
Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana - nastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana
— 27 novembre 2019 - Di iniziativa del Presidente della Repubblica
Grande Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana - nastrino per uniforme ordinaria
Grande Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana
— dal 1988 al 27 novembre 2019
Medaglia d'oro per la Scienza e la Tecnologia della Presidenza del Consiglio Italiana - nastrino per uniforme ordinaria
Medaglia d'oro per la Scienza e la Tecnologia della Presidenza del Consiglio Italiana
— 1988
Medaglia d'oro della Città di Vicenza - nastrino per uniforme ordinaria
Medaglia d'oro della Città di Vicenza
— 1996
Onorificenze straniere
National Medal of Technology and Innovation - nastrino per uniforme ordinaria
National Medal of Technology and Innovation
— 17 novembre 2010 - Di iniziativa del Presidente degli Stati Uniti d'America[10]
Onorificenze accademiche
Laurea honoris causa in Informatica - nastrino per uniforme ordinaria
Laurea honoris causa in Informatica
— Università degli Studi di Milano— 1994
Laurea honoris causa in Ingegneria - nastrino per uniforme ordinaria
Laurea honoris causa in Ingegneria
— Università di Roma Tor Vergata— 2002
Laurea honoris causa in Ingegneria elettronica - nastrino per uniforme ordinaria
Laurea honoris causa in Ingegneria elettronica
— Università di Pavia— 2007
Laurea magistrale honoris causa in Ingegneria elettronica - nastrino per uniforme ordinaria
Laurea magistrale honoris causa in Ingegneria elettronica
— Università degli Studi di Palermo— 2008
Laurea specialistica honoris causa in Informatica - nastrino per uniforme ordinaria
Laurea specialistica honoris causa in Informatica
— Università degli Studi di Verona— 2009

Dottorato honoris causa in Ingegneria dell'informazione - nastrino per uniforme ordinaria
Dottorato honoris causa in Ingegneria dell'informazione
— Università di Pisa— 2019
Riconoscimenti

Negli anni sono stati attribuiti a Federico Faggin numerosi riconoscimenti fra i quali:

1988 - Premio Internazionale Marconi (Marconi Fellowship Award)
1994 - W. Wallace McDowell Award della IEEE Computer Society W. Wallace McDowell Award "Per lo sviluppo della tecnologia di processo Silicon Gate e per la realizzazione del primo microprocessore commerciale"
1996 - viene inserito nella National Inventors Hall of Fame Spotlight - National Inventors Hall of Fame. URL consultato l'11 luglio 2019 (archiviato dall'url originale il 24 settembre 2016).
1996 - Premio Ronald H. Brown (American Innovator Award)

Premio Kyōto per la tecnologia - nastrino per uniforme ordinaria
Premio Kyōto per la tecnologia
— 1997

1997 - Premio Kyōto per la tecnologia (Kyoto Prize for Advanced Technology)
1997 - premio George R. Stibitz Computer & Communications Pioneer
1997 - Premio Masi per la Civiltà Veneta
2000 - Premio Robert N. Noyce dalla Semiconductor Industry Association
2002 - targa al merito, consegnata dal ministro delle comunicazioni Maurizio Gasparri
2006 - Lifetime Achievement Award dalla European Patent Association, Brussels
2008 - diploma EUCIP Champion per il profilo IT Systems Architect da parte di AICA (Associazione Italiana per l'Informatica ed il Calcolo Automatico)
2011 - Il premio "2011 George R. Stibitz Lifetime Achievement Award" dell'American Computer Museum (Bozeman-MT), conferito a Federico Faggin "Per i contributi fondamentali allo sviluppo del mondo tecnologico moderno, inclusa la tecnologia MOS silicon gate che ha portato alla realizzazione del primo microprocessore al mondo nel 1971."
2012 - Premio Franca Florio, conferito agli scienziati italiani nel mondo
2012 - Il premio "Global IT Award" dal presidente della Repubblica Armena Federico Faggin.
2012 - PhD onorario dall'Università (Politecnico) di Armenia
2013 - PhD onorario in scienze dall'Università di Chapman (CA) - Video del commencement address di Faggin a Chapman University. URL consultato il 1º dicembre 2017 (archiviato dall'url originale il 2 settembre 2013).
2014 - Premio "Enrico Fermi" 2014, conferito dalla Società Italiana di Fisica "Per l'ideazione della tecnologia MOS con gate al silicio che lo ha condotto alla realizzazione nel 1971 del primo moderno microprocessore"
2016 - Premio "Leone del Veneto" conferito dal Consiglio Regionale del Veneto (archiviato dall'url originale il 18 marzo 2018). il 9 settembre 2016 presso il Teatro Olimpico di Vicenza
2018 - Gli viene dedicata una sala riunione negli uffici di Eolo SPA.



fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Federico_Faggin

 
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Pietro Antonio Falco


Pietro Antonio Falco (Venasca, 4 febbraio 1685 – Torino, 25 ottobre 1752) è stato un presbitero e inventore italiano.

La figura di Pietro Antonio Falco venne resa nota in Europa dalla relazione di viaggio di Johann Georg Keyßler (1689-1743)[1] che visitando a Torino, nel 1730[2], la dimora del giovane principe Eugenio Giovanni Francesco di Savoia-Soissons (1714-1734) vide e descrisse, tra le altre cose, «una vettura con quattro ruote, che colui che siede al suo interno può muovere e far girare dove vuole senza l’ausilio di cavalli»[1] grazie a un sistema di molle[3]; la vettura, che era stata sperimentata con successo per le vie di Torino, era opera di certo «abbé Don Falco[4], che attualmente» aggiungeva Keyßler «lavora ad un’altra macchina per mezzo della quale egli pensa di poter volare nel cielo».[5][6] Per molto tempo questa notizia del Keyßler fu messa fortemente in dubbio, così come dubbia fu la stessa esistenza dell’abbé Don Falco. Recenti ricerche hanno tuttavia consentito di far luce sull’identità storica di questo personaggio.[7][8]
Biografia

Pietro Antonio Falco nacque a Venasca, in Piemonte, il 4 febbraio 1685, ottavo ed ultimo figlio del medico Chiaffredo Falco e di sua moglie Margherita Giriodi[9]. Dopo la morte del padre (1685) e della madre (1691) i beni della famiglia passarono al figlio primogenito, Giovanni Battista, che in breve tempo ne dilapidò la maggior parte. Pietro Antonio venne allora accolto dallo zio materno Paolo Antonio Giriodi e avviato al sacerdozio. Gli interessi del giovane dovettero condurlo presto a Torino, centro principale della cultura piemontese, dove compare in un atto notarile rogato il 16 agosto 1707.[10]

Nel 1713, alla riapertura dell’Accademia Reale di Sua Maestà, meglio nota come Accademia Militare di Torino (istituto dedicato alla formazione militare dei giovani nobili fondato nel 1677 dalla reggente Giovanna Battista di Savoia-Nemours e poi chiuso a causa delle guerre in corso) Pietro Antonio Falco, ormai sacerdote, entrava nell’organico dei docenti come insegnante di geografia, ruolo nel quale fu attivo almeno fino al 1722[11].

Nello stesso anno 1713 il Falco era entrato a far parte dell’Accademia degli Incolti, nel cui Catalogo del 1717 compare come «Il Priore D. Pier’Antonio Falco di Venasca, Istorico, e Matematico dell’Accademia Reale di S. M., [detto] il Provido»[12]. Tra gli Incolti don Falco dovette rimanere almeno fino al 1717, data dopo la quale l’accademia cessò probabilmente di funzionare.

Da quel momento le notizie sul suo conto si fanno scarse, ad eccezione di quanto compare in alcuni atti notarili (1719, 1720, 1736, 1739), nei ruoli dell’Accademia Militare (1722) e nel resoconto del Keyßler (1729)[13].

Il 19 agosto 1749 don Falco, nella sua abitazione torinese, redigeva un testamento dal quale appare trovarsi in condizioni economiche assai modeste[14].

In un successivo atto notarile datato 24 gennaio 1751 cedeva un proprio credito ad un negoziante savoiardo in cambio di una somma in contanti[15].

Poco meno di due anni dopo, il 25 ottobre del 1752, don Falco moriva a Torino all’età di 67 anni e veniva sepolto nella parrocchia dei SS. Giacomo e Filippo (oggi di S. Agostino)[16].





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Guido Fassi

Guido Fassi (Carpi, 5 dicembre 1584 – Carpi, 21 settembre 1649) è stato un inventore e artista italiano.
Biografia
Fu artista della scagliola, un particolare procedimento che crea effetti decorativi di altissimo livello artistico (crea effetto marmo partendo da materiali poveri quali gesso e pigmenti utilizzando una tecnica a intarsio). Inoltre a lui si deve la progettazione e costruzione della torre dell'orologio che si trova nel castello di Carpi (palazzo dei Pio di Savoia). Alcune sue opere peculiari sono conservate presso la cattedrale di Carpi e la chiesa di S.Nicolò.





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Francesco Fedi


Francesco Fedi (Roma, 25 luglio 1939) è un ingegnere ricercatore italiano nel campo della propagazione delle onde elettromagnetiche, della radiometeorologia e delle radiocomunicazioni.

A lui si deve lo sviluppo del metodo per la pianificazione dei sistemi di radio comunicazioni terrestri e via satellite a frequenze superiori a 10 GHz, adottato dal 1982 in tutto il mondo per decisione dell'Unione internazionale delle telecomunicazioni.

Tra i numerosi incarichi, quello di direttore scientifico della Fondazione Ugo Bordoni, presidente del COST (European Cooperation in Science and Technology) e membro onorario dell'Academia Europaea.
Biografia

Nato a Roma il 25 luglio 1939, frequenta il liceo classico prima presso il liceo Mamiani di Roma e successivamente presso la Scuola Militare “Nunziatella” di Napoli dove consegue a pieni voti il diploma di maturità classica. Nel 1963 consegue la laurea in ingegneria elettronica “con lode” presso l’Università di Roma La Sapienza. Dal 1963 al 1965 partecipa alla progettazione di sistemi radar di concezione avanzata nell'Ufficio Studi della Contraves Italiana. Nel 1965 vince una borsa di studio "Fulbright" e consegue la laurea di Master of Science in Electrical Engineering presso l’Università di Notre Dame, Indiana, USA.
La Fondazione Ugo Bordoni
Direttore della Fondazione Ugo Bordoni di Roma
Il Prof. Fedi presenta la Fondazione Bordoni al Ministro della Ricerca

Nel 1967 entra a far parte della Fondazione Ugo Bordoni di Roma, uno dei più importanti Centri di ricerca Italiani nel campo delle Telecomunicazioni, come Responsabile del Gruppo “Antenne e Propagazione”. Nel 1976 è nominato Responsabile della Divisione Sistemi di Radiocomunicazioni fissi e mobili terrestri e via satellite. Dal 1976 al 1979 fa parte della Direzione Tecnica del progetto finalizzato “Controllo del Traffico Aereo” del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Nel 1985 è nominato Direttore delle Ricerche della Fondazione Ugo Bordoni e coordina le attività di ricerca riguardanti: radiocomunicazioni, comunicazioni ottiche, protezione dell'informazione, reti di telecomunicazioni, comunicazioni multimediali ed evoluzione dei sistemi di telecomunicazioni.

Dal 1985 al 1990 per incarico della Direzione del Piano Spaziale Nazionale è Coordinatore degli esperimenti di propagazione con i satelliti Olympus ed ITALSAT.

Membro del Consiglio Superiore Tecnico Poste e Telecomunicazioni dal 1980, nel 1992 presiede la Commissione per l’introduzione in Italia della televisione diretta da satellite. Nel 1993 è nominato membro della Commissione per la revisione del piano nazionale di ripartizione delle frequenze. Nel 1994 è nominato Consulente Scientifico del Ministero dell’Università e della Ricerca per l’esame del piano europeo di attribuzione delle frequenze e membro della Commissione Consultiva per l’Assetto del Sistema Radiotelevisivo.

Nel 1995 è nominato membro della Commissione per la protezione dai campi elettromagnetici a radiofrequenza del Consiglio Nazionale delle Ricerche e pubblica il capitolo "Radar" dell'Enciclopedia dell’Ingegneria Mondadori.

Nel 1992 è nominato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Bordoni e nel 1997 è confermato in tale carica. Nel 2000 lascia la Fondazione e si dedica al coordinamento delle ricerche in ambito Europeo in rappresentanza del Ministero Istruzione, Università e Ricerca.
La Docenza Universitaria

Dal 1966 al 1967 è docente di Elettromagnetismo e di Linee di Trasmissione presso l’Università di Notre Dame, Indiana, USA. Dal 1980 al 2000 è Professore di Utilizzazione dello Spettro Radio presso la Scuola Superiore di Specializzazione In Telecomunicazioni dell’Università di Roma, Professore di Radiotecnica presso l’Università di Bologna e Professore di Radiopropagazione presso l'Università di Roma La Sapienza.
COST (European Cooperation in Science and Technology)
Presidente del COST a Bruxelles
COST Day a Bruxelles
Il Prof. Fedi presenta il COST al Parlamento Europeo
Il Prof. Fedi pianta l’albero COST nel giardino botanico di Tallin in Estonia

Nell’ambito della COST partecipa fin dal 1970 ai lavori preparatori per il lancio delle prime Azioni di ricerca. Dal 1971 al 1978 è eletto Presidente dell’Azione COST 25/4 “The Influence of Atmospheric Conditions on Electromagnetic Wave Propagation at Frequencies above 10 GHz” e dal 1978 al 1985 Presidente dell’Azione COST 205 “The Influence of the Atmosphere on Satellite-Earth Paths at Frequencies above 10 GHz”. Nel 1985 è nominato Membro del COST Technical Committee Telecommunications in rappresentanza dell’Italia, nel 1992 organizza a Roma e presiede il Simposio "New Frontiers for the European COST in Telecommunications" e nel 1998 è eletto Presidente del Comitato Telecomunicazioni.

Nel 1999 è nominato Presidente del Gruppo formato dai Presidenti di tutti i Comitati Tecnici COST per preparare le linee guida per la valutazione delle Azioni COST. Nel 2000 è eletto Presidente e membro del Comitato COST dei "Senior Officials". Nel 2002, in vista della collaborazione del COST con la European Science Foundation, è incaricato di rivedere le linee guida per il controllo della qualità delle attività COST. Nello stesso anno è confermato Presidente del COST Technical Committee Telecommunications and Information Science and Technology. Nel febbraio 2004 con votazione unanime dei rappresentanti dei 35 paesi europei COST viene eletto Presidente del Comitato COST Senior Officials, il massimo organo decisionale e strategico del COST che coordina le attività COST in tutti i settori di ricerca e che risponde direttamente ai Ministri della ricerca dei 35 paesi aderenti al programma COST.

È la prima volta che l'Italia, uno dei paesi fondatori del COST, ne assume la presidenza. Nel marzo del 2007 a seguito delle richieste avanzate da molte delegazioni la sua candidatura è presentata nuovamente ed egli è rieletto Presidente del COST per un successivo triennio. Come riconosciuto da tutti i partecipanti alla Conferenza Ministeriale COST del Giugno 2010, durante il periodo di Presidenza Italiana, dal 2004 al 2010 – che qualcuno ha definito il rinascimento del programma – il COST ha compiuto un vero salto di qualità. Dalle 180 Azioni COST nel 2004 alle 280 Azioni nel 2010. Dai 70 Istituti di paesi non Europei partecipanti alle Azioni COST ai 350 Istituti del 2010. Dalle critiche del 2004 al coro di lodi per il COST – così come riportato dai media – durante l’esposizione del COST al Parlamento Europeo.

Al termine dei sei anni di presidenza, nel giugno 2010, il Professor Fedi è eletto Presidente del COST Office Association, un’associazione internazionale senza scopo di lucro fondata con il compito di fornire al COST una personalità giuridica.
Incarichi nazionali, europei ed internazionali

Nell'ambito dell'unione internazionale delle telecomunicazioni (ITU) nel 1976 è eletto Presidente del Gruppo di Studio Radiometeorology dell'International Radio Consultative Committee (CCIR). Nel 1985 Vice Presidente della Commissione Radiopropagation in non-ionized media del CCIR e nel 1993 Vice Presidente della Commissione Radiowave propagation del Settore Radiocomunicazioni dell'ITU.

Nell'ambito dell'International Union of Radio Science (URSI) nel 1981 è eletto Vice Presidente e nel 1984 Presidente della Commissione Wave Propagation and Remote Sensing. Nel 1990 è designato membro della Commissione Scientifica delle Telecomunicazioni e nello stesso anno Vice Presidente della Delegazione italiana dell'URSI.

Direttore Scientifico della Fondazione Bordoni dal 1985 al 2000.

Membro dell'Associazione Elettrotecnica Italiana e del "Quadrato della Radio" dal 1985.

Presidente della “European Microwave Conference” nel 1987.

Membro del Consiglio Direttivo della Fondazione Guglielmo Marconi e del Comitato Scientifico dell’Istituto Internazionale delle Comunicazioni negli anni 1991-1995.

Presidente del Comitato Scientifico dell’Istituto per lo sviluppo e la gestione avanzata dell’informazione (INFORAV) dal 2004 al 2012.

Eletto per due trienni consecutivi dal 2004 al 2010 Presidente del Comitato Europeo per il coordinamento della Ricerca Scientifica COST con votazione unanime dei rappresentanti dei 35 Paesi partecipanti e primo italiano a ricevere tale incarico.

Presidente della “COST Office Association” dal 2010 al 2013.

Presidente del Comitato Scientifico del Convegno sullo scienziato Giovanni Battista Marzi, Tarquinia 1991.
Premi e riconoscimenti
Il Prof. Fedi e il Prof. Paraboni ricevono il Premio Marconi
Il Prof. Fedi riceve il “Diplome d'honneur” dell’International Telecommunication Union (ITU) nel 1989

È autore o co-autore di più di 170 pubblicazioni scientifiche nei campi della radiopropagazione, della radiometeorologia e dei sistemi di comunicazione. Per la sua attività scientifica riceve numerosi premi e riconoscimenti in ambito nazionale ed internazionale.

Nel 1973 l’International Telecommunication Union (ITU) raccomanda le curve di propagazione basate sui suoi risultati sperimentali per la pianificazione dei sistemi televisivi UHF nell’area del Mediterraneo.

Nel 1980 riceve dall'Associazione Elettrotecnica Italiana il premio "Ottavio Bonazzi" per il "migliore lavoro sperimentale del biennio precedente".

Nel 1981 riceve il premio “Guglielmo Marconi” per un lavoro di carattere teorico sui problemi di propagazione a frequenze elevatissime "particolarmente pregevole sul piano scientifico per la profondità della trattazione, la completezza dei risultati e l'orientamento che ne scaturisce per successivi lavori". Nel 1982 l’Unione internazionale delle telecomunicazioni adotta e raccomanda l’applicazione in tutto il mondo del suo metodo per la pianificazione dei sistemi di radio comunicazioni terrestri e via satellite a frequenze superiori a 10 GHz.

Nel 1989 gli viene conferito il "Diplôme d'Honneur" dall'Unione Internazionale delle Telecomunicazioni “for his outstanding contributions to the progress of Telecommunications”.

Nel 1997, durante l’Assemblea Mondiale delle Radiocomunicazioni, gli viene assegnato il “Diplôme de reconnaissance”, “en témoignage de la contribution apportée aux travaux de l’ITU”.

Dal 2009 è “Honorary Member” dell’“Academia Europaea” per la classe “Physics and Engineering”.

Membro dell’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Roma dal 1966.

Presidente dell’Associazione Laureati Ingegneria della Sapienza (ALIS) nel biennio 1991-1992.

Membro del Club Rotary “Roma Ovest” dal 1983, organizza e presiede il XXXIII Congresso Rotariano “Comunicazione e Comunità: il compito del Rotary” nel 1990 e viene eletto Presidente del Rotary Club “Roma Ovest” per l’anno 1996-1997.

Presidente della Sezione Lazio dell’Associazione Nazionale ex Allievi Nunziatella dal 1993 al 2001 e membro del Consiglio Nazionale dell’Associazione dal 2001 al 2004.



fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Fedi

 
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