IL FARO DEI SOGNI

Categoria:Inventori italiani

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Un difficile dopoguerra
Il trattorino universale

A diciotto anni dalla costruzione del Cassani 40 HP Francesco ed Eugenio hanno finalmente intrapreso la via del successo e Francesco può, per la prima volta, uscire dai confini dell'Italia per recarsi a Londra, dove lo aspetta un suo rappresentante locale, tale Michael Attlee. Dopo anni di attenta lettura della letteratura specializzata nord-europea ora può finalmente vedere coi propri occhi i modelli gestionali e le attività produttive cui si è spesso ispirato. Durante la permanenza in terra inglese visita numerose industrie e vede coi propri occhi i significativi progressi cui l'agricoltura è arrivata oltremanica.[31] Da questo viaggio torna convinto che la SAME ha le carte in regola per guidare la meccanizzazione agricola italiana e con la determinazione di mettere mano al progetto di un trattore. È un'impresa foriera di rischi. Il mercato italiano del settore è per gran parte in mano all'americana Ford e alla canadese Ferguson, una quota minore è in mano alla Fiat e le risorse dell'azienda sono ancora limitate. Come già per l'autofalciatrice i Cassani devono puntare sulla funzionalità e la versatilità della macchina prima che sull'apparenza del prodotto. Il risultato è una struttura a tre ruote a trazione posteriore con un motore da dieci cavalli, che somiglia più ad una motozappa che ad un trattore.[34][N 5] La strategia commerciale è la stessa di due anni prima e punta su innovazioni come la guida reversibile (prima applicazione italiana), le prese di forza in posizione laterale e la possibilità di montare gli attrezzi agricoli sul davanti utilizzando dei fermi a incastro, senza necessità di chiavi o attrezzi di alcun tipo. Per convincere gli agricoltori italiani ad acquistare il prodotto di un'azienda alle prime armi, ancora sconosciuta al pubblico e che solo due anni prima polemizzava contro il costo dei trattori per vendere l'autofalciatrice, il trattorino universale 3R 10 viene prodotto nelle tre versioni universale, autogrù e motocompressore, e il suo motore è ugualmente predisposto per il collegamento con macchinari esterni[34] La gamma delle possibili utilizzazioni viene ampliata agli utensili più disparati (scavapatate, trivellatrice, sollevatore, ruspa, sega circolare) attraverso componenti progettati in proprio, realizzati da aziende specializzate e ulteriormente lavorati prima del definitivo montaggio assieme a componentistica reperibile all'ingrosso.[35]
Il trattorino universale 3R 10 e una sua pagina pubblicitaria

I Cassani hanno naturalmente tenuto conto anche della particolare situazione dell'agricoltura italiana di allora, frastagliata in una miriade di proprietà generalmente condotte a mezzadria nel nord e a mezzo del bracciantato nel sud. Il trattorino, che tale è anche nel prezzo, si impone rapidamente all'attenzione degli addetti ai lavori anche per l'accordo stretto con la ditta "Fratelli Moretti", che fornisce gli attrezzi da abbinare alla macchina come seminatrici, ruspe, pale caricatrici, etc. Definito "un gioiello dell'industria italiana"[34][36] viene premiato con la medaglia d'oro dell'Accademia di agricoltura di Torino ma le vendite sono scarse. I Cassani attribuiscono l'insuccesso all'attività dei rappresentanti e decidono di scendere personalmente in campo nella promozione, anche perché sta diventando problematico pagare il salario agli operai.

Nel 1948 Francesco fa un viaggio in Sicilia e va a decantare le lodi dei suoi prodotti, in particolare di un trattorino tanto piccolo da poter marciare tra i filari delle viti, nelle zone controllate dalla banda di Salvatore Giuliano e dai separatisti, dove l'agricoltura va ancora avanti secondo sistemi ottocenteschi. Eugenio, nel frattempo, lavora a ricostituire una più efficiente rete di vendita ricontattando gli agenti che hanno a suo tempo rappresentato il trattore 40 HP, ma le cose non sembrano dover andare meglio. A tutto il 1948 ne sono acquistati solo 33, nei due anni successivi ne sono piazzati in totale 13.[37] Secondo varie fonti[2][34][37] la situazione si capovolge quando, all'edizione 1950 della Fiera di Milano, Francesco Cassani riceve allo stand della SAME la visita di don Zeno Saltini. Il fondatore di Nomadelfia ha fatto il giro dei costruttori per ottenere in dono un trattore per la cooperativa agricola della sua comunità ed ha ottenuto soltanto rifiuti. Anche Cassani inizialmente rifiuta ma tornato a Treviglio ci ripensa, e convince i vari fornitori a donare i componenti di propria pertinenza per mettere insieme la macchina che viene poi inviata a Carpi. Tale decisione deriva da una tendenza alla superstizione che sembra abbia caratterizzato tutta la sua vita, fatto sta che nell'estate dello stesso anno le ordinazioni aumentano e nel giro di alcuni mesi il grosso dei trattori viene smaltito.
Il trattore ad aderenza totale e il successo

Eugenio Cassani, che pur partecipando alla progettazione è l'anima imprenditoriale della ditta, reinveste i guadagni in un primo ampliamento delle officine di via Madreperla. Viene aggiunto un capannone adibito alla verniciatura, per il quale viene studiato un sistema di getti d'acqua per raffreddare in estate il tetto in lamiera,[38] un fabbricato per l'assemblaggio delle macchine e un magazzino per le scorte e l'imballaggio dei prodotti da inviare agli acquirenti. Al momento non si può fare altro e la società, a dispetto del nome e dei premi, è ancora una piccola impresa con quattro operai e cinque impiegati amministrativi, che produce una media di 180 trattori all'anno. I riconoscimenti, i brevetti e la storia passata non sono a quanto pare garanzie sufficienti per ottenere finanziamenti dalle banche, tanto che la produzione va avanti grazie al credito e alla fiducia dei fornitori. È una situazione complessivamente gradita ai Cassani che, memori della negativa esperienza all'Alfa Romeo, seguono un modello produttivo più elastico ed efficiente, che però non offre sbocchi verso la costruzione di uno stabilimento indipendente dotato di fonderia, stampaggio lamiere, lavorazioni in catena di montaggio, etc. L'ambizione è quella di passare dalla dipendenza dai fornitori a produttori di componentistica per l'attività interna e la vendita ad altre imprese, obiettivo che appare lontano più nella possibilità che nel tempo.[39]
Immagine pubblicitaria e volantino ufficiale del trattore DA 25

Per poter coronare questo sogno da una parte è necessario ridurre all'osso le spese per l'ampliamento e il potenziamento dell'officina, dall'altra offrire prodotti sempre migliori che si possono di conseguenza vendere a un prezzo concorrenziale. Il primo problema viene risolto col materiale bellico di recupero, oltremodo abbondante, per il quale Eugenio passa al setaccio i depositi e Francesco predispone i disegni per riutilizzare la componentistica recuperata. Il secondo, mercé la possibilità di effettuare lavorazioni sempre più complesse e di poter reinvestire somme sempre più alte, viene affrontato con la progettazione di un vero e proprio trattore, il primo dopo l'esperienza del 40 HP. Prende il via la fortunata serie delle macchine D.A. (Diesel Aria), autentica rivoluzione tecnologica a livello mondiale per alcune peculiari caratteristiche come le quattro ruote motrici, che consentono di affrontare salite fino al 70% anche con carichi pesanti, la sterzata a 90° e i freni indipendenti sulle ruote posteriori, per invertire la marcia a 180° e il potersi introdurre tra gli alberi e i filari delle viti.[N 6][40] L'idea dell'aderenza totale con quattro ruote motrici nasce dall'osservazione delle jeep americane durante la guerra[31][41] e il mercato gli dà immediatamente ragione, tanto che i trattori D.A. sono da subito prodotti in diverse versioni come il DA 12 per vigneti e frutteti, il DA 25 adatto a circolare nelle risaie, ognuno con un motore più o meno potente, differenziato a seconda dell'uso per cui la macchina è indicata.[31]

Più ancora che nel passato il ruolo operativo di Francesco ed Eugenio si differenzia. Il primo passa molto tempo al tavolo da disegno perché progetta in proprio tutta la produzione SAME, addirittura le modifiche della componentistica proveniente da ditte esterne. Il secondo è il deus ex machina dell'officina, guida il lavoro degli operai e si adatta non sempre facilmente alla pignoleria e al ritmo serrato del fratello, che vuole che tutto sia fatto "subito e ieri". Francesco si reca spesso a Milano per acquistare macchinari perlopiù di seconda mano dalla ditta Orme, che a sua volta importa dagli Stati Uniti. Sono attrezzature ad alta componibilità, prodotte per la costruzione di carri armati destinati al conflitto in Corea e rimaste inutilizzate per la rapida cessazione delle ostilità.[42] Oltre che i trattori le quattro ruote motrici trainano lo sviluppo dell'impresa, ormai lanciata verso la definitiva affermazione, e un primo riscontro arriva dalla Caproni di Ponte San Pietro, che non ha mai del tutto ripreso l'attività dopo la riconversione dalla produzione bellica. È la stessa Caproni da cui provenivano gli aerei che facevano sognare il giovane Francesco, che si offre di ospitare una parte della produzione che nello stabilimento di via Madreperla stenta a trovare posto. Nel 1953 sono trasferite le linee di produzione dei nuovi modelli di quell'anno, il DA 38 e il super Cassani DA 55, la cui direzione viene presa in carico da Eugenio, che vi si trasferisce in pianta stabile.[43]



segue L'affermazione degli anni '50

 
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L'affermazione degli anni '50

Il trattore a trazione integrale, con motore diesel raffreddato ad aria utilizzabile come forza motrice per macchinari diversi, fa presto a imporsi sul mercato a danno dei concorrenti esteri. Solo la Fiat riesce a conservare una quota significativa per i suoi legami con la rete Federconsorzi. L'emergenza e la scarsità di risorse del dopoguerra sono sempre più un ricordo del passato, ed anche il sistema bancario ora è disponibile ad accordare il credito necessario agli investimenti. L'aumento esponenziale della produzione rende sempre più necessario un grande stabilimento dove concentrare l'attività e rendersi il più possibile indipendenti dalle forniture ma in questo caso Francesco Cassani si dimostra prudente. Prima di avviarne la costruzione vuole vedere di persona il funzionamento delle grandi industrie statunitensi, delle quali sa quello che riportano le riviste di settore che non ha mai smesso di leggere e dalle quali ha spesso trovato ispirazione per i suoi progetti. Vuole inoltre gettare le basi per l'espansione internazionale della SAME. La prima tappa è la Francia. In collaborazione con Albert Piquard, costruttore di motori diesel della Bassa Savoia, nel 1954 fonda la SAME France, che nel solo primo anno di attività riesce a piazzare ben cinquecento trattori. Si reca successivamente in Brasile,[44] dove ha un contatto con Doña Teresina Camargo, proprietaria di una fabbrica di munizioni al momento inoperosa, ma la costituzione della SAME do Brasil non viene perfezionata a causa dell'avvocato della donna, che a insaputa di entrambi è il consulente legale brasiliano della Ferguson. Negli Stati Uniti, dove viene fondata la SAME US, rimane affascinato dall'organizzazione delle fabbriche in linee produttive e da macchinari oltremodo complessi dal punto di vista costruttivo ma di facile utilizzo, dove un solo operaio può sovrintendere allo stesso lavoro che a Treviglio ne richiede cinque o più.

Da questo viaggio torna con lo stesso entusiasmo dei suoi anni giovanili, pieno di idee e di iniziative, e con un acquisto che viene scaricato a Genova qualche settimana dopo. Ha comprato un tornio per gli alberi motore della "RK LeBlond Machine" di Cincinnati[45] e durante il viaggio di ritorno, decisa la sua organizzazione, abbozza un progetto di massima per il nuovo stabilimento dopo aver incaricato telegraficamente il fratello di perfezionare l'acquisto di un appezzamento di terreno di circa 100.000 metri quadri.
Lo stabilimento tuttora attivo della SAME lungo la via Padana Superiore, attuale viale Francesco Cassani.

La costruzione è avviata nel marzo 1956 e con tre turni giornalieri viene completata in tempo per la riunione annuale dei rappresentanti SAME, il 20 dicembre. All'inaugurazione è presente Luigia Rocchi, ormai anziana e residente in una casa di riposo, che a trent'anni dal primo motore e dalla Rolland-Pilain assiste soddisfatta al successo personale e commerciale dei suoi figli ed in particolare di Francesco, del quale aveva più volte in passato criticato l'eccessiva sicurezza personale. La struttura, oltremodo semplice e razionale dal punto di vista architettonico, si sviluppa su un'area coperta di 80.000 metri quadrati. L'officina è un ambiente unico di 250 metri di lunghezza e 75 di larghezza organizzata su tre linee di lavorazione (motori, verniciatura, assemblaggio), i cui macchinari sono progettati e fatti costruire dai due fratelli.[46] In altra ala sono sistemate la fonderia, il reparto per la stampa delle lamiere, i magazzini delle scorte, la mensa, gli spogliatoi, i servizi e l'asilo nido per i figli delle operaie con personale specializzato. L'organizzazione dell'officina ricalca i modelli delle industrie estere che Francesco ha visitato (la Perkins in Inghilterra, Caterpillar, Ford e la "nemica" Ferguson negli USA, Fiat in Italia) ma viene in parte mantenuto il decentramento produttivo continuando ad affidarsi a fornitori esterni di provata fiducia per una serie di minuterie.[47] Diversi attrezzi specifici come aratri (monovomere, bivomere, a dischi, reversibile), estirpatori a molle, erpici a dischi, frese, ruspe posteriori, barre falcianti, rimorchi ribaltabili, pompe da irrigazione e trivelle, sono ora prodotti in proprio.[48]
Il sistema SAC e la scomparsa di Eugenio
Le leve di comando della stazione automatica di controllo e un ritratto di Eugenio Cassani.

Nel primo anno di attività dal nuovo stabilimento escono tremila trattori dei vari modelli ma l'ambizione è quella di raggiungere i diecimila, metà dei quali da destinare all'esportazione. L'obiettivo appare difficile ma non impossibile da raggiungere, e per varcare questo ennesimo traguardo Francesco si getta a capofitto nella progettazione. Una delle prime idee che raggiungono Eugenio in officina è la "Stazione automatica di controllo" (SAC), un nuovo tipo di sollevatore idraulico che consente di stabilire il rapporto tra il peso da trainare o sollevare e la potenza erogata dal motore, messa a punto nel 1958 per il trattore 240 DT a due cilindri. Il sistema è una variante di quello della Ferguson, imitato per non chiedere la concessione del relativo brevetto ma che sarà in seguito al centro di una contesa tra le due imprese.[48]

Montata in serie sui modelli successivi (360, 480 Ariete, Sametto 120) del 1959 è l'ultima innovazione messa a punto in comune da Francesco ed Eugenio.[49] Quest'ultimo viene infatti a mancare pochi mesi dopo. La rapida malattia e la scomparsa sorprendono il fratello nel corso di un viaggio in Argentina, dove sta gettando le basi di una filiale. Con la sua morte viene a mancare il lato pragmatico ed operativo del sodalizio, quell'anima imprenditoriale che, come già la madre in passato, deve tenere a freno la vulcanica inventiva e la spesso eccessiva sicurezza personale di Francesco, che deve rassegnarsi a proseguire da solo.[2] Dopo aver liquidato le quote di Eugenio ai suoi nipoti, che hanno deciso di non impegnarsi nell'azienda,[50] il suo alter ego diventa la figlia Luisella, che non passa tutto il suo tempo in officina ma è piuttosto una nuova Luigia Rocchi. Neo-diplomata a Londra, appena diciottenne entra nei ranghi della SAME e diventa il più stretto collaboratore di un presidente che comincia a sentire il peso degli anni nel fisico senza che la passione personale per il lavoro e la voglia di fare tutto e subito venga intaccata. Luisella collabora col padre nel decennio decisivo degli anni '60, quello della motorizzazione di massa, quando al trattore Francesco Cassani pensa si debba dare quelle comodità che il contadino apprezza nella seicento.

Cassani con la figlia e l'importatore olandese Vordeman

Cassani con la figlia e l'importatore olandese Vordeman
Interno dell'officina nello stabilimento della SAME

Interno dell'officina nello stabilimento della SAME
Interno dell'officina nello stabilimento della SAME

Interno dell'officina nello stabilimento della SAME

Il progetto Samecar
In alto il Samecar agricolo (a sinistra) e industriale. In basso il tipo Puledro di sagoma ridotta, progettato per inoltrarsi nei vigneti.

L'idea prende corpo durante una vacanza a Cortina d'Ampezzo, durante la quale Francesco Cassani abbozza un progetto su alcuni fogli dell'albergo in cui alloggia. È un trattore che sembra voler imitare all'aspetto esteriore un autocarro. Si tratta di una macchina polivalente che può essere utilizzata su strada e sui campi, e con ruote adatte perfino trainare una fila di carri merci ferroviari sui binari. Unisce i pregi del trattore e dell'automobile e dovrebbe far sì che i contadini possano avere entrambi a una cifra inferiore al costo della Fiat 600. "Per la prima volta", scrive il volantino pubblicitario ufficiale, "diamo al trattorista le stesse comodità dell'automobilista". Il prototipo viene presentato il 3 gennaio 1961 alla presenza di Mariano Rumor, all'epoca ministro dell'agricoltura, sul campo della Scuola Sperimentale di Agricoltura delle Capannelle, lo stesso dove trentatré anni prima ha presentato il suo primo trattore ai gerarchi del regime fascista, e mantiene le promesse fatte dalla propaganda. Ha il lunotto panoramico con tergicristallo, vetri scorrevoli, il posto guida dotato di poltroncine imbottite in gommapiuma con la cabina rimovibile, riscaldamento e addirittura un rudimentale sistema di aria condizionata.[51] La stampa e la TV danno ampia eco a questa inusuale novità, che viene presentata al Salon International de la machine agricole come l'avvenimento dell'anno, ma nonostante l'entusiasmo arrivi a coinvolgere politici di primo piano come Amintore Fanfani e Guido Gonella, che visitano i prototipi a Treviglio, il progetto si rivela un fallimento.

Un primo ostacolo è la velocità massima fissata a 40 km/h, normale per un trattore, ma inammissibile dal Codice della strada, che esclude a priori l'utilizzo del veicolo come automobile.[52] Il problema potrebbe essere risolto studiando un sistema che consenta al motore prestazioni diverse a seconda dell'utilizzo, ma il settore sta affrontando un periodo difficile a causa dello spopolamento dei paesi agricoli e del graduale abbandono della terra da parte dei giovani. L'utilizzo prevalente del trattore per i trasporti a scapito del lavoro dei campi, base di partenza dell'idea, si scontra con l'arretratezza delle famiglie contadine, che a dispetto di qualsiasi riforma del settore agrario sono povere e sfruttate da latifondisti e proprietari, e che quindi non sanno che farsene del veicolo al di là dei confini del podere. Come sempre sicuro delle proprie idee Cassani ha molta fiducia in questo progetto e ben lungi dall'abbandonarlo progetta una quarta versione, il modello "elefante", un vero e proprio autocarro di grande potenza, in versioni tra 120 e 160 cavalli, ma non vale a migliorare le cose.

A parte l'ordinazione della filiale francese le commesse languono e i veicoli si ammassano invenduti, e dopo un'ulteriore riunione con i collaboratori decide di abbandonare il progetto e di far smantellare le relative linee di produzione.[31]



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Gli ultimi anni

Con la figlia che prende il posto di Eugenio almeno sul lato imprenditoriale Francesco Cassani dedica il decennio degli anni '60 all'espansione internazionale della società. Gira l'intera Europa, viaggia in Africa, America e Australia, e riceve di continuo delegazioni straniere nello stabilimento di Treviglio. I trattori della SAME fanno breccia anche negli Stati Uniti, dove si ritagliano una quota del mercato a danno di Massey Ferguson, Ford e Caterpillar mentre in Africa la ditta può appoggiarsi ad alcune officine rudimentali ma efficienti di Addis Abeba. Luisella effettua i viaggi al posto del padre quando Francesco deve dedicare il suo tempo alla progettazione. Sua figlia Luisella, che deve far spesso da tramite tra il dinamismo del genitore e le esigenze organizzative della ditta, si reca a sua volta all'estero quando il padre si getta sul tavolo da disegno per concretizzare nuove idee.[53] Una delle occasioni è la progettazione del "Dinosaur", una macchina di grande potenza, commissionata dall'agente boliviano della SAME, che si limita però a una serie prototipo di dieci unità. Adatto alle grandi estensioni del nord e sud America è un trattore del tutto nuovo per l'Italia, col difetto al momento irrisolvibile di consumare il 40% della potenza erogata per muovere se stesso.[54]

La sua mancata produzione è legata alle più generali limitazioni della produzione dell'epoca, vincolata alla componentistica prodotta in proprio ed ancora lontana dall'innovazione fondamentale del motore in lega leggera, ma porta alla prima applicazione di una trasmissione semi-automatica, che ricorda il sistema Powershift messo a punto nello stesso periodo dall'industria statunitense.
Francesco Cassani con Ferruccio Lamborghini.

Nello stesso periodo cominciano ad apparire i primi sintomi del suo indebolimento fisico, un formicolio al braccio sinistro e una paresi facciale che si risolve in breve periodo. Sono le conseguenze di un prolungato stress psicofisico, durato gli anni stessi dell'azienda. Per Cassani, infatti, la fabbrica è al contempo lavoro e passione, lascia poco spazio agli hobby e alla vita sociale, e salvo la costruzione dell'ospedale di Treviglio (di cui è presidente per una decina d'anni),[55] vive unicamente per la SAME. Nell'ultima fase della sua vita ha però la soddisfazione di vedere avverarsi molte delle sue previsioni. Nel 1969 la produzione supera il traguardo dei diecimila trattori per la rinnovata spinta alla meccanizzazione agricola, lasciata da parte a favore dell'industria negli anni del boom economico e ripresa quando il miracolo italiano si esaurisce per far spazio all'inflazione degli anni '70.[56]

L'ultimo atto di Cassani è la firma dell'accordo con Ferruccio Lamborghini per l'acquisizione della consociata Lamborghini Trattori dell'omonima casa automobilistica, avviando la trasformazione della SAME nell'attuale gruppo SAME Deutz-Fahr.[57] Sempre più malato muore pochi mesi dopo, lasciando alla figlia e al genero Vittorio Carozza (che gli succede alla guida della SAME), un testamento spirituale.

«In caso di mia morte desidero raccomandare al mio erede di voler considerare che la SAME con l’aiuto del mio povero e caro fratello Eugenio è stata creata non già per scopi speculativi ma per dare all’Italia un’industria di prestigio nel campo dei trattori e dei motori endotermici. All’uomo che dirigerà la SAME raccomando di ispirarsi il più possibile ai concetti dell’unificazione e di non avventurarsi in tentativi che allontanino la SAME dal suo campo base, il quale essendo oggi basato come già detto sulla costruzione dei trattori, non dovrà che continuare in tale direzione, perseverando nel miglioramento della costruzione e avendo cura di non trascurare la ricerca assidua del minor costo e della modernità delle macchine. La concorrenza in futuro sarà ancora più agguerrita, pertanto non solo è assillante assicurare continuità alla fabbrica, ma anche mantenere il prodotto aggiornato. Gli uomini che oggi collaborano con me sia nel campo tecnico che commerciale ed amministrativo danno un buon affidamento […]. Raccomando e ricordo di non avventurarsi in speculazioni commerciali e finanziarie. Raccomando di non ingrandire troppo la fabbrica e di mantenere sempre un sufficiente cuscinetto finanziario di sicurezza onde far fronte ai momenti di crisi che non mancano mai in un'azienda. A tutti i collaboratori desidero esprimere l’affetto e la riconoscenza per la dedizione dimostrata verso la SAME. Raccomando a colui che prenderà il mio posto di agire ispirandosi ai miei concetti di lavoratore entusiasta, umile, tenace. Agire sempre con la massima imparzialità con i propri dipendenti e debellare con la massima energia l’insorgere di rivalità fra i collaboratori; essi devono ascendere nella gerarchia per merito e ispirati alla più schietta lealtà e onestà verso tutti. Nell’evoluzione della tecnica si guarda con molto interesse alla realizzazione della turbina a gas. Sarà consigliabile seguire soprattutto l’esperienza delle altre ditte prima di avventurarsi in studi rovinosi dal punto di vista economico. Avrei molte altre cose da dire ma desidero chiudere la presente affidando alle persone che continueranno la mia opera il messaggio per una conduzione sana e onesta dell’azienda confidando nella loro saggezza e rettitudine. Il Signore vi benedica e vi assista tutti premiandovi per l’opera che vi accingete a compiere»

(Il testamento spirituale di Francesco Cassani)
Premi
Francesco Cassani riceve la nomina di Cavaliere del Lavoro dal Presidente della Repubblica Antonio Segni.
Officine meccaniche Cassani

1934 - Primo premio all'VIII Concorso motonautico internazionale d'Italia, Venezia Lido, XII crociera Venezia-Trieste-Venezia per economia di carburante.
1939 - Premio del Consiglio Nazionale Ricerche per il motore Italmotor

SAME

1948 - Concorso internazionale per Motocoltivatori. Diploma di medaglia d'oro per l'autofalciatrice
1957 - Riconoscimento per la partecipazione al decennale del Salone della Macchina Agricola
1967 - Mercurio d'oro, L'Oscar del Commercio e dell'Industria conferito ufficialmente alla SAME
1972 - Seminatore d'oro alla 25º Salone della macchina agricola e 74ª Fiera di Verona

Onorificenze e riconoscimenti
Francesco Cassani

Laurea Honoris Causa in Ingegneria Meccanica[58]

Francesco Cassani, nato a Vailate (Cremona) il 16 aprile 1906 cominciò giovanissimo a lavorare nella modesta officina meccanica del padre, studiando contemporaneamente negli Istituti di Istruzione Tecnica di Milano, ma non poté, come sarebbe stato suo vivo desiderio, proseguire negli studi universitari, causa la prematura morte del padre che gli lasciò il grave onere di dirigere l'azienda che doveva provvedere ai bisogni della famiglia. La profonda passione per la meccanica, unita alla vivacità di ingegno e a un'innata capacità inventiva, gli permisero di affermarsi, appena ventenne, come pioniere della meccanizzazione agricola, realizzando, nel 1927, con la collaborazione del fratello minore Eugenio, la prima trattrice agricola del mondo azionata da motore diesel, cioè la Cassani 40 CV, la cui costruzione, per carenza di mezzi finanziari, fu appoggiata alle officine Barbieri di Bologna. [...] Francesco Cassani è ormai considerato ovunque, in Italia e all'estero, nell'ambito della meccanizzazione agricola, come tecnico di avanguardia nella costruzione di trattrici. Considerata la notevole attività di pioniere, innovatore e realizzatore nel campo delle costruzioni meccaniche e in particolare della tecnica motoristica, e a riconoscimento dei suoi alti meriti per il progresso dell'industria nazionale, il Consiglio di Facoltà delibera di proporre il conferimento della laurea honoris causa in Ingegneria industriale (sottosezione meccanica) al Signor Francesco Cassani.

Cavaliere del Lavoro - nastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere del Lavoro
«Fin da ragazzo lavorò nella piccola officina paterna di Vailate. Poco più che ventenne realizzò la prima trattrice agricola a motore diesel. Iniziò allora, tra i primi in Italia, lo studio e la sperimentazione dei motori diesel veloci per la marina e l'aviazione. Nel 1935 costituì la Società pompe iniezione Cassani per l'attuazione dei suoi brevetti. Nel 1943, intuendo lo sviluppo della meccanizzazione agricola, fondò la Same per la produzione in serie delle trattrici agricole. Creò quindi un nuovo stabilimento, alla periferia di Treviglio, tra i più moderni in Europa. In essa successivamente confluì anche la produzione della Lamborghini trattori di Pieve di Cento. Venne creato il famoso Samecar, trattore agricolo con motoaratrice, adatto a terreni impervi. La laurea h.c. in ingegneria industriale dell'Università di Pisa premiò la sua grande attività nel campo delle costruzioni meccaniche e, in particolare, nel campo motoristico. In ambito sociale fu presidente del Centro ospedaliero di Treviglio e della locale scuola di disegno professionale.»
— 1962
Modelli prodotti

Cassani:

1927 - Cassani 40 CV
1934 - Motore nautico diesel a revolver
1938-1940 - Motori diesel a revolver e pistoni contrapposti A4/90 (per navi) e B8/110 (per aerei)
1957 - Super Cassani Diesel D.A. 47

SAME:

1946 - Autofalciatrice 851
1948 - Trattorino universale
1950 - 4R/10
1952 - D.A.12 - D.A.25 DT
1953 - D.A.38
1954 - D.A.12 - D.A.55
1956 - D.A.17 - D.A.57
1957 - DA 30 - Sametto 18
1958 - SAC (Stazione Automatica di Controllo)
1959 - 240 DT – 360 – 480 Ariete – Sametto 120
1960 - Samecar – Puledro
1961 - 250
1965 - Italia V – Atlanta
1966 - 450 V – Centauro
1967 - Leone 70
1968 - Ariete
1969 - Minitauro 55
1971 - Delfino
1972 - Sirenetta – Saturno – Corsaro – Aurora – Drago
1973 - Minitauro Cingolato





fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_ed_Eugenio_Cassani

 
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Filippo Cassola


Filippo Càssola (Ferrandina, 12 settembre 1792 – Napoli, 25 luglio 1869) è stato un chimico e inventore italiano.[1]

Biografia
Ritratto dell'illustre scienziato Filippo Cassola

Filippo Cassola nacque a Ferrandina il 12 settembre 1792, da nobile discendenza di Mondovì. Suo padre Nicola esercitava la carica di governatore e di ripartitore di beni demaniali e, in qualità di giudice regio, morì a Sorrento. Sua madre, Emanuela Pezzella, era sorella del vescovo di Teano e dell’araldo reale e amministratore del regio Palazzo di Caserta.[2]

Lo scienziato ebbe per moglie la signora Maria Di Lucca di origini napoletane, da cui ebbe sei figli, tre maschi e tre femmine: Alessandro, Carlo, Eduardo, Giovanna, Adelaide e Amalia. La sua vita, come quella di tutti i migliori esponenti del pensiero italiano, fu caratterizzata da non poche avversioni, dovute certamente alle idee politiche, che in quei tempi si professavano anche dai suoi familiari. Infatti, nel 1849, egli venne destituito da tutte quelle cariche che aveva guadagnato e gli fu proibito di insegnare in privato e di ristampare persino le sue opere. Nel 1850, fu invitato ad allontanarsi da Napoli e a ritirarsi con la famiglia a Ercolano. Con la cacciata dei Borboni dal regno di Napoli, avvenuta nel 1860, ebbero termine le persecuzioni per Cassola. Venne allora insignito dell'onorificenza mauriziana e reintegrato nelle cariche, e prima d'ogni altro nella nomina di professore emerito della farmacia del Complesso degli Incurabili con un annuo stipendio di 1800 lire. Morì a Napoli il 25 luglio 1869.[2]
Famiglia

Delle sue figlie, la primogenita Giovanna sposò l’illustre mineralogista Arcangelo Scacchi; Amalia sposò Ernesto Filotico, dal quale discendeva la signora Virginia Filotico - Cafiero.[3]

Carlo, suo figlio, fu incarcerato nel dicembre 1847 e poi esiliato. Questi si recò successivamente in Lombardia con la prima coscrizione volontaria dove ottenne il grado di ufficiale per la memorabile giornata del 30 aprile a Pastrengo; si recò successivamente in Ungheria, in Grecia, in Turchia e poi a Parigi, dove in seguito a studi e concorsi, fu inviato come professore in un'università in Ecuador, dove sposò la "señorita" Adelaide. Per imputazioni politiche gli altri due figli, Alessandro ed Eduardo, vennero anch'essi arrestati nell'agosto 1849. Entrambi ottennero la libertà provvisoria dietro cauzione e sorveglianza; il primo dopo due anni e il secondo, dopo sette mesi di detenzione. Nessun favore, nessun sussidio o compenso fu chiesto dalla loro famiglia a rivalsa di tanti danni sofferti a causa delle lotte per l'Indipendenza e per l'unificazione della Patria. Nel 1861 rientrò dall'esilio il figlio Carlo, il quale fondò a Napoli una facoltà di chimica, pubblicò libri e poi morì nel 1868. Alessandro invece, funzionario nel dicastero della Pubblica Istruzione, morì celibe nel 1888. Eduardo, in seguito alla campagna del 1860, fu promosso ufficiale e si dimise per applicarsi alla questura di Napoli, dove veniva chiamato dalle premure del sindaco del tempo Nicola Amore. Eduardo sposò la nobile contessa Giulia Fieschi Ravaschieri e morì nel 1893.[4]
Studi e formazione

Grazie ai suoi grandi studi, Filippo Cassola, volle applicare il suo ingegno alle scienze naturali, con tanto amore da meritare, insieme con le sue opere, la stima dei maggiori scienziati d’Europa.[5]

Fu professore di fisica nel collegio militare della Nunziatella di Napoli, professore di chimica e di mineralogia nella Scuola di Applicazione dei Ponti e Strade, socio dell'Accademia delle Scienze di Torino (dal 19 luglio 1835)[6], della Società di Chimica medica Linneana e di chimica e fisica di Parigi, dell'Istituto Storico di Francia, della Società filosofico-medica di Wurtzburg in Baviera, dell'Accademia Gioenia di scienze naturali di Catania e infine dell'Accademia Peloritana dei Pericolanti di Messina.[7]
Luogo in cui abitava Filippo Cassola, via Cassola, Ferrandina (2019)

Le sue opere furono molto apprezzate in Italia, Francia, Germania e Russia. Di grande valore sono i trattati di chimica, che lo resero celebre in Europa, insieme a molte altre memorie scientifiche, che gli diedero grande fama dappertutto. Nei primi anni del 1800, a causa di scarsa disponibilità di docenti validi, l'Ospedale degli Incurabili fu costretto a chiudere il collegio degli studenti. Successivamente fu disposta la riapertura e Filippo Cassola venne assunto come responsabile nel laboratorio del suddetto Stabilimento degli Incurabili a Napoli all'età di diciotto anni. Partecipò, insieme con altri giovani medici dell'ospedale, alle idee liberali della Rivoluzione Partenopea del 1799. Stimolato dall'eleganza delle strutture della farmacia dell'Ospedale, Filippo Cassola, poco più che ventenne, realizzò le prime esperienze di laboratorio, portando avanti gli studi di chimica farmaceutica. Nel clima della restaurazione borbonica, dove qualsiasi forma di innovazione era fortemente contrastata dalla censura, lo scienziato non poté coltivare le sue idee e i suoi progetti scientifici in piena libertà.[8]
Osservazioni sulla chimica inorganica e analitica

Durante gli scontri per l'Unità d'Italia, il chimico ferrandinese concentrò il suo interesse sulla chimica inorganica e sulla chimica analitica attraverso studi su due particolari sostanze: la cubebina (Piper cubeba o pepe di Giava) e la lupinina. La cubebina veniva estratta dal Piper cubeba, una specie di pepe asiatico, conosciuto come pepe dell’India, con lo scopo di migliorare la cura della gonorrea (nominata popolarmente, specie in quei tempi, “scolo”); egli individuò un metodo per la preparazione del solfato di chinino, estraendo dal cubebe la nuova sostanza. In seguito all'esperienza in Francia e Inghilterra, dove soggiornò per due anni, poté disporre di ampie nozioni acquisite in tal campo. Nel 1821 Cassola pubblicò uno studio sull'estrazione dello iodio dall'alga marina.[9]

“Essendomi trovato a diporto in un luogo della costiera, che guarda il Mediterraneo, vicino al golfo di Salerno, vidi in diverse spiagge di esse una grande quantità ...di Zostera Oceanica, volgarmente chiamata alga marina. M’immaginai che questa avesse potuto contenere il Iode; perciò ne feci ammucchiare una quantità, che, avendola riunita dentro gli incavi di alcuni sassi a larga superficie, vi adattai un solfanello acceso per poterla bruciare, ed indi raccoglierne le ceneri”.[10]

Trattate le ceneri con acido solforico e acqua bollente, si manifestarono vapori che testimoniavano la presenza dello iodio.[11] Si riporta da un carteggio di Davide Winspeare, ex ufficiale dell'esercito napoletano rifugiatosi in Russia dopo il 1860 per militarvi, una sua lettera scritta all'amico Ferrarelli, il quale era interessato a favore dei Cassola, e la si riporta perché documenta i meriti dello scienziato e conferma le non floride condizioni in cui il medesimo lasciò la famiglia.

Pietroburgo, 21 gennaio 1889

Caro Ferrarelli,

Ti sono grato della memoria che servi di me e della testimonianza dei tuoi amichevoli sentimenti che mi hai dato con l'obbligante lettera del 10 corr. m. Sarei stato lieto, se avessi potuto rendere un servizio alla Signora Filotico, figlia del nostro caro e venerato maestro, signor Cassola. Ma la sua domanda non è stata e non poteva essere accolta; né mi sembra che in questa circostanza il governo Russo possa essere accusato di mancanza di memoria, o di generosità. Il signor Cassola è venuto in Russia, orsono quasi cinquanta anni; egli fu ricevuto coi riguardi e le attenzioni dovute al suo merito; fu largamente ricompensato pei suoi lavori scientifici e per le sue pene; e ritornò in patria soddisfatto nel suo amor proprio e nei suoi interessi. Non è dunque possibile di richiamare alla mente dei governanti i servigi del signor Cassola, i quali furono pagati a tempo debito e pei quali non si può rivendicare alcun diritto. Mi compiaccio di sapere che sei contento della tua posizione e delle tue occupazioni. Io invecchio, ma non posso dolermi della mia salute, la quale resiste ancora bene al clima rigidissimo del paese che mi ospita. Addio Ferrarelli; sta stano, e ricordati di tanto in tanto del tuo compagno ed amico.[3]

Davide Winspeare

Busto di Filippo Cassola
Sole di Cassola

L'invenzione che senz'altro portò grande fama al chimico, e degna di importanti riconoscimenti nel mondo antico e moderno, fu il "Sole di Cassola".

"Egli diè spettacolo d'una nuova luce, che, secondo i cronisti del tempo, fece sembrare la notte illuminata a luce di sole."[12]

Trasformando la luce di Drummond, un concentrato di gas ossidrico sull'ossido di calcio, scoprì quella lampada abbagliante che egli stesso osò sperimentare per prima sul faro del Molo Angioino di Napoli. Il calore sviluppato nella combustione stessa rende incandescente un corpo introdotto nella fiamma (come ad esempio un cilindretto di ossido di calcio). Nel punto dove il dardo della fiamma batte sopra il cilindretto, questo, reso incandescente, risplende di luce vivissima.[13]

Nel 1838, lo zar di Russia Nicola I, lo chiamò a illuminare la capitale dell'Impero. Il Cassola incominciò l'esperimento nell'Imperiale Teatro di Pietroburgo e precisamente, la sera in cui si rappresentava l'opera in musica di Gioacchino Rossini : "Il Mosè". Nel momento infatti, in cui il grande Profeta implorò dal cielo la cessazione delle tenebre, comparve la portentosa luce, che sbalordì gli spettatori, i quali l'appellarono "Sole di Cassola". Stupefatto da quella invenzione, il letterato Giuseppe Perticari gli dedicò un canto che è tutto un inno di gloria alla scoperta e all’autore.[5]

Scritti principali

Sull'estrazione dell'ioide della zostera oceanica.., in Atti del R.Istituto d’incoraggiamento alle scienze naturali di Napoli, vol. III, 1822, pp. 260-262
Azione dell'ammoniaca sul fosforo, 1823.
Corso elementare di Chimica, Napoli, stamp. Simoniana 1824, Vol. 4 in 8°.
Estrazione dello Iodio dalla Zostera Oceanica, 1824.
Combustione del platino, 1825.
Meteoroscopo, 1825.
Memoria analitica sui cloruri di Mercurio ed alcuni composti creduti identici col Mercurio dolce, Napoli stamp. francese, 1825 in 8°.
Sulla non identità del protocloro di mercurio, 1825.
Analisi del nitrato di argento in contatto con gli estratti vegetali, 1826.
Indicotina ed indaco scolorati dall'etere solforico, 1826.
Sostituzione dei fili di rame argentati a quelli di platino, Napoli 1826.
Sulla tintura di curcuma, 1826.
Nuovi processi per avere il solfato di chinino, 1829.
Ricerche analitiche sulle acque potabili di Napoli, Napoli 1829.
Analisi dell'acqua termominerale balneolana, 1831.
Processo facile e sicuro per scoprire il ferro nelle acque potabili, 1831.
Lo spettatore del Vesuvio e dei Campi Flegrei (L. Pilla), Napoli 1832.
Di alcuni nuovi alosali ed ossisali, in Annali Civili del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1833, p. 108
Sintesi del protocloro di mercurio,1833.
Analyse et propretè medicinales des eaux minerales de Castellamare par mm. les professeurs Sementini, Vulpes et Cassola, Naples, chez B. Girard & C.ie, 1834.
Cubebina sostanza trovata del cubele, Napoli 1834.
Lupinina nuova sostanza trovata nel lipuninus thermos, 1834.
Trattato di chimica elementare applicata alla Medicina, alla Farmacia, alla Mineralogia, all’Agricoltura ed alle Arti, Napoli stamp. Fibreno 1835, Vol 5 in 8.°
Dizionario di farmacia generale, Napoli, Fibreno 1836 e tip. Milit. 1846 in 2ª edizione.
Trattato di chimica elementare, 5 voll. Napoli 1838.
Trattato elementare di fisica applicata alle scienze naturali ed alle arti - Napoli 1845, Vol. 2 in 8°.
Modo più facile per determinare con esattezza l'acido carbonico nelle acque minerali, 1854.
Analisi delle principali acque di Castellamare, Napoli 1885.

Bibliografia

Alessio Ambruso - Ferrandinesi da ricordare – Profili biografici e contesti storici, IMD Lucana, Matera 2015, pp. 48-50
Salvatore Centola - Ferrandina e le sue remote origini Elleniche-Lucane, Ixia editrice S.r.l. , Napoli 1931, pp. 131-134
Angelo Lucano Larotonda - Riprendiamoci la Storia. Dizionario dei Lucani, Mondadori Electa, Verona 2012, pp. 269-272



fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Filippo_Cassola

 
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Bernard Castro


Bernardo Castro (Palermo, 1904 – Ocala, 24 agosto 1991[1]) è stato un inventore italiano naturalizzato statunitense, che ha ideato il divano-letto, da lui battezzato Castro convertibile sofa[2].

A quindici anni si trasferì a New York. Lì il suo nome perse l'ultima lettera (diverrà conosciuto come Bernard Castro). Nel 1931 aprì un negozio di mobili. Castro si rese conto che dopo la Grande depressione del 1929 la vita era cambiata per molte persone: non ci si poteva permettere più delle case grandi e per risparmiare spazio si dovevano sacrificare dei mobili. Per rimediare a ciò, Castro reinventò il divano-letto (già ideato nel Seicento), rendendolo più economico e anche meno pericoloso. Ne diventò il primo produttore (la sua compagnia si chiamò Castro Convertibles) e ideò anche una pubblicità che fece scalpore: la protagonista era la figlia Bernadette (di quattro anni) che mostrava com'era facile aprire un divano-letto. Morì milionario in Florida.[2]





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Giovanni Cavalli


Giovanni Carlo Cavalli (Novara, 23 luglio 1808 – Torino, 23 dicembre 1879) è stato un generale, inventore e politico italiano

Biografia

Sottotenente d'artiglieria nel 1826, partecipò con il grado di maggiore alla campagna del 1848-1849 distinguendosi a Peschiera, e da colonnello a quella del 1859; ricoprì la carica di direttore della Regia fonderia dell'Arsenale di Torino; nel 1860, promosso maggior generale, fu comandante generale dell'artiglieria nelle Regie truppe dell'Emilia; con il grado di tenente generale fu membro del comitato d'artiglieria nel 1862 e nel 1865 è comandante generale della Regia Accademia Militare di Artiglieria e Genio di Torino fino al 1879, allorché fu collocato a riposo. Insignito delle croci di ufficiale e commendatore dell'Ordine militare di Savoia e membro di accademie scientifiche e letterarie, fu spesso in missione all'estero, fece parte del Parlamento quale deputato del V collegio di Torino nelle legislature III, V e VI e, nel 1876, ebbe la nomina a senatore del regno.
Attività accademica

Si dedicò allo studio delle artiglierie e cercò di risolvere i problemi dell'alleggerimento delle artiglierie da campagna, del perfezionamento delle grosse artiglierie e del caricamento dalla culatta, e risolse il problema della sistemazione dei ponti militari. I suoi progetti per i ponti e per il caricamento delle artiglierie dalla culatta, ad anima liscia, sono del 1832. A lui è dovuto anche il rinnovamento degli stabilimenti d'artiglieria. Nel 1844 furono adottate le sue bocche da fuoco, e il suo carreggio Mod. 44, impiegato fino al 1882 per l'artiglieria da campagna, e fino al 1914 per l'artiglieria da posizione. L'affusto Cavalli venne adottato dall'esercito belga.

Dal 1839 al 1845 insegnò alla Scuola di applicazione, e nel 1846 sottopose alle prove di tiro, in Svezia, il suo primo cannone rigato. In seguito diede grande impulso alle fonderie dei cannoni. Nel 1866, quando si incominciò a riconoscere presso tutte le potenze la necessità di un fucile a retrocarica per la fanteria, il generale Cavalli fu incaricato di studiare questa importante questione, sulla quale poi presentò al Comitato una dotta relazione nella quale riconosceva anche la necessità di ridurre il calibro per conciliare la precisione del tiro con la possibilità di dotare il soldato di munizionamento più abbondante.
Pubblicazioni

Gli scritti del generale Cavalli furono raccolti per cura del Ministero della Guerra e pubblicati in quattro volumi;

Gli equipaggi da ponte
Cannoni caricati dalla culatta e cannoni rigati
Vari perfezionamenti militari
Sul bacino del Po in Piemonte
Sull'artiglieria di maggiore potenza
Memoria sulla pace universale
Saggio sulla dottrina morale per tutti

Onorificenze
Ufficiale dell'Ordine militare di Savoia - nastrino per uniforme ordinaria
Ufficiale dell'Ordine militare di Savoia
— 16 marzo 1913[1]
Commendatore dell'Ordine militare di Savoia - nastrino per uniforme ordinaria
Commendatore dell'Ordine militare di Savoia





fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Cavalli

 
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Filippo Cecchi


Padre Filippo Cecchi, nato Giulio Isdegerde Cecchi (Ponte Buggianese, 31 maggio 1822 – Firenze, 1º maggio 1887), è stato un fisico, religioso e inventore italiano, abile costruttore di strumenti scientifici.

Biografia

Dopo aver studiato presso le Scuole Pie di Firenze, entrato nell'ordine degli Scolopi, studiò scienze fisiche e matematiche nel collegio fiorentino di S. Giovannino e fu compagno di studi di Alessandro Serpieri.

Le sue occupazioni erano l'insegnamento e la ricerca che si estese dall'elettromagnetismo, alla telegrafia e specialmente alla meteorologia e sismologia. Diresse l'Osservatorio Ximeniano a Firenze dal 1872 al 1887 sviluppando quella stazione meteorologica e favorendo la nascita di altre in Toscana (a Fiesole, Lugliano, Pescia, La Verna). Cecchi inoltre dotò l'Osservatorio di un importante centro sismologico.

Cecchi ideò e realizzò personalmente vari tipi di sismografi, progettò il grande termometro e barometro che fu collocato nella Loggia dell'Orcagna a Firenze e che oggi si trova esposto nel Museo Galileo, apportò migliorie agli apparecchi telegrafici e nel 1854 costruì una nuova elettrocalamita. In occasione della Prima Esposizione Italiana svoltasi a Firenze nel 1861, Cecchi presentò un nuovo tipo di motore elettrico; egli inoltre restaurò lo gnomone installato nel Duomo di Firenze da Leonardo Ximenes, ripetendo in quell'occasione le esperienze di Foucault (pendolo di Foucault).

Filippo Cecchi fu membro non residente a Roma della Accademia Nazionale dei Lincei e venne eletto vicepresidente della Società Meteorologica Italiana (da lui fondata insieme a Francesco Denza) che, nel 1885, tenne il suo primo Congresso a Firenze.

Morì a Firenze il 1º maggio 1887 e fu sepolto nel cimitero di Ponte Buggianese. Il 20 novembre 1977 i suoi resti furono traslati nella Propositura di San Michele Arcangelo.
Opere e bibliografia

Terremoti di Firenze del 23 dicembre e del 12 marzo 1878, di Cecchi F., in "Bullettino del Vulcanismo Italiano", A.V (1878), fasc. VI-VIII, p.63, Roma 1878
Sismografo elettrico a carte affumicate scorrevoli, di Cecchi F., in "L'Elettricista", A.I (1877), N.1º gennaio, Firenze 1877

Bibliografia

Presentazione di un istrumento sismografico del P.Cecchi, di De Rossi M.S., in "Atti della Pontificia Accademia de' nuovi Lincei", Roma 1883
La corrispondenza meteorologica italiana alpina-appennina, di Denza F., Roma 1877
Il P. Filippo Cecchi, in "Bullettino Mensuale della Società Meteorologica Italiana", di Denza F., Moncalieri 1887
Il sismografo analizzatore del P. Filippo Cecchi, di Giovannozzi G. in "Memorie della Pontificia Accademia de' Nuovi Lincei", , Roma 1888
Per la commemorazione del P. Filippo Cecchi delle Scuole Pie, in Ponte Buggianese, Giovannozzi G., Firenze 1906
I sismografi del P. Cecchi, di Roberto G. in "Bullettino della Società Meteorologica Italiana", Moncalieri 1887





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Mario Celso


Mario Celso (Sant'Antonino di Susa, 1º marzo 1917 – Sant'Antonino di Susa, 10 luglio 1994) è stato un inventore italiano, fondatore nel 1947 dell'azienda IREM (Industria Raddrizzatori Elettromeccanici).

Nel 1992, ha vinto il Premio Oscar al merito tecnico-scientifico, consegnatogli dall'Academy of Motion Picture Arts and Sciences, per il suo lavoro pionieristico nel progetto, nello sviluppo e nella produzione di apparecchi per l'alimentazione degli archi a carbone, delle lampade allo xeno e per gli accenditori usati nella produzione cinematografica.

Biografia

Mario Celso nasce a Sant'Antonino di Susa il 1º marzo 1917 da Francesco Celso e Delfina Usseglio Mattiet. Presto si trova costretto ad abbandonare la scuola, cominciando come fresatore per poi passare alla Industriale Radio, prima stazione radiofonica di Torino, all'Italradio e infine alla FERT, studio cinematografico, dove lavora come aiuto recordista, occupandosi dell'impianto di registrazione della colonna sonora delle varie produzioni cinematografiche. Alla morte del padre, nel 1937, lascia la FERT per affiancare la madre nel lavoro di commerciante ambulante di stoffe; due anni dopo arriva un nuovo cambio di lavoro, con l'apertura di un'officina di elettrauto. Nel 1940 parte per la guerra, che lo porta a Bari, Durazzo, Tirana e Atene. Infine arriva l'internamento, prima in Germania e in seguito in Cecoslovacchia, dove si occupa della riparazione delle radiotrasmittenti sequestrate dai tedeschi.

Riesce a rientrare in Italia e a raggiungere la casa materna per stare il più possibile accanto alla madre malata. Lavora poi per la Microtecnica di Torino, e grazie a questo impiego ha la possibilità di muoversi abbastanza liberamente e di viaggiare anche durante gli ultimi anni della guerra. Proprio durante un viaggio incontra la futura moglie, Bruna Bandera, che sposa nel 1944 e con la quale ha un figlio, Francesco (1945-2016), e una figlia, Giuseppina (1949).

Dopo la nascita di Francesco, Celso apre una seconda officina di elettrauto, ma la Microtecnica è destinata a fare ancora parte della sua vita: è proprio per questa azienda, infatti, che Celso si dedica alla costruzione del suo primo raddrizzatore per la proiezione cinematografica [1]. Nel 1946 l'apparecchiatura viene sperimentata per la prima volta nel cinema del paese di Celso; pochi minuti dopo l'inizio della pellicola, però, i contatti si surriscaldano e la proiezione viene sospesa. Una seconda prova, questa volta riuscita, viene fatta nella sala di proiezione del cinema Porta Nuova, alla presenza di numerosi tecnici e ingegneri della Microtecnica, e questa volta senza intoppi. Il brevetto ottenuto nel 1947 gli permette di fondare così la IREM, Industria Raddrizzatori Elettromeccanici, che vende i primi raddrizzatori alla Microtecnica e poco dopo alle Officine Prevost, costruttore di proiettori cinematografici.

I decenni 1940 e 1950 vedono un notevole incremento nella produzione cinematografica: Celso deve stare al passo con le richieste del mercato e, anzi, essere in grado di anticiparle. È proprio nel 1950 che brevetta un interruttore automatico di protezione per evitare che la pellicola, allora di celluloide, si bruci in caso di surriscaldamento. E, quando l'azienda tedesca Osram introduce sul mercato le lampade allo xeno, la IREM risponde con il primo raddrizzatore per lampade allo xeno per la Cinemeccanica.

Nel 1966 Celso sviluppa il primo accenditore per lampade allo xeno, da usarsi con un alimentatore per le applicazioni scientifiche: questa invenzione porta la IREM ai vertici mondiali della progettazione, costruzione e distribuzione di sistemi di alimentazione usati nelle proiezioni cinematografiche e di illuminazione. L'anno successivo Celso diventa membro della Society of Motion Picture and Television Engineers.

Mario Celso muore il 10 luglio 1994 all'età di 77 anni.
Il brevetto

Il progetto definitivo per il raddrizzatore elettromeccanico sincrono viene presentato nell'agosto del 1946 e brevettato nell'aprile del 1947. Il prodotto brevettato è un raddrizzatore elettromeccanico la cui originalità consiste nell'impiego di un motore elettrico sincrono di bassa potenza il cui albero attiva, al momento opportuno, i contatti mobili montati su un gruppo di commutatori. Questo permette di interrompere la corrente alternata nei punti di passaggio per lo zero, convogliando così tutte le alternanze in un'unica direzione. Questo sistema per la proiezione cinematografica con archi a carbone elimina gli inconvenienti dei raddrizzatori a collettore rotante o a lamina vibrante, migliorando la stabilità luminosa dell'immagine proiettata.
Memoria

Nel 2005 il Comune di Sant'Antonino di Susa ha dedicato una via cittadina a Mario Celso.
Nel 2005 l'Enel ha intitolato a lui la centrale idroelettrica di Bardonecchia, in Alta Valle Susa [2].
Nel 2011 a Sant'Antonino è stata dedicata la scuola di musica a Mario Celso.
Il 14 ottobre 2015 il Museo Nazionale del Cinema di Torino, in collaborazione con la famiglia Celso e la ditta Irem (Industria Raddrizzatori Elettromeccanici), ha inaugurato una vetrina presso il museo, dedicata a Mario Celso con alcuni suoi storici prodotti ed il premio Oscar.[3] [4]
il 2 marzo 2017 un concerto di musica classica a Sant'Antonino di Susa, ha ricordato i 100 anni della nascita di Mario Celso.

Premio Oscar al merito tecnico-scientifico

Il 13 dicembre del 1991, Celso riceve un fax da parte di Karl Malden, presidente dell'Academy of Motion Picture Arts and Sciences, che gli comunica l'assegnazione dell'Oscar al merito tecnico-scientifico. Il premio gli viene consegnato il 7 marzo 1992 a Hollywood da Tom Hanks.

Come omaggio al successo di Celso, il Museo del Cinema di Torino e la IREM organizzano nel maggio del 1992 una serata in suo onore presso il Cinema Massimo. Tra gli ospiti anche Mario Soldati, amico di Celso. È proprio quella sera che Celso regala al Museo del Cinema il primo raddrizzatore elettromeccanico per proiettori.





fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Celso

 
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Leonardo Chiariglione


Leonardo Chiariglione (Almese, 30 gennaio 1943[1]) è un ingegnere italiano.

È noto per aver fondato, insieme a Hiroshi Yasuda, l'MPEG[2], un gruppo internazionale di esperti che ha prodotto i noti standard audio-video MPEG-1, MPEG-2 e l'MP3[3], ed altri. Il prof. Karlheinz Brandenburg accredita a Chiariglione, in particolare, la vision dell'importanza degli standard nelle tecnologie audio-video dell'epoca di Internet[4].

Biografia

Dopo aver conseguito la maturità classica presso il Liceo salesiano Valsalice di Torino, si laurea in ingegneria elettronica nel 1967 al Politecnico di Torino. Ha poi conseguito il dottorato in comunicazioni elettriche (Ph.D.) nel 1973 presso l'Università di Tokyo.

Dal marzo 1971 fino al luglio 2003, ha lavorato come ricercatore e manager di ricerca presso lo CSELT (oggi Telecom Italia Lab), il centro ricerche aziendale dapprima del gruppo IRI-STET divenuto, nel 1997, della sola Telecom Italia.

Mentre lavora allo CSELT, nel 1988, fonda, insieme a Hiroshi Yasuda, il gruppo di lavoro internazionale MPEG, il cui numero di aderenti raggiunse le trecento unità. Tale gruppo è costituito da esperti internazionali provenienti da diversi settori dell'audio e video digitali.

Dal 2004 è amministratore delegato di una società di consulenza (CEDEO) che tratta di media digitali.

Chiariglione è, oltre a cofondatore, anche presidente (chairman) ed organizzatore (convener) del gruppo MPEG fin dalle origini.
L'attività in MPEG

Chiariglione è noto internazionalmente soprattutto per il suo ruolo di ideatore e leader del gruppo MPEG, che ha prodotto standard tecnologici audio-video largamente conosciuti e diffusi anche presso il grande pubblico.

Nel 1988 egli ha avviato l'attività di standardizzazione ISO del MPEG (Moving Pictures Experts Group, ufficialmente ISO TC97/SC2/WG8/MPEG, ora ISO IEC-JTC1/SC29/WG12), che ha prodotto la famiglia di standard MPEG (iniziando da MPEG-1 ed MPEG-2) e lo standard MP3 (acronimo di MPEG-1 Layer 3). Nel 1996 il premio Emmy Engineering Award venne dato alla ISO/IEC per il lavoro sugli standard MPEG-1, MPEG-2 e JPEG. L'MPEG-4 è disponibile dal 2002. MPEG-7 e MPEG-21 sono al momento in fase di sviluppo.
Altre attività

Chiariglione ha guidato numerosi progetti a livello europeo (IVICO, COMIS, EU 625).

Nel 1994 promosse l'iniziativa DAVIC (Digital Audio Video Council)[5], incentrata sugli standard della Tv digitale.
Riconoscimenti

È stato premiato con l'IBC John Tucker award, IEEE Masaru Ibuka Consumer Electronics award e Kilby Foundation award.
Nel 1999, il prestigioso settimanale Time Digital lo ha incluso nei 50 maggiori innovatori del mondo digitale.[6]
Nel 2012 è stato insignito della Medaglia Faraday (IET).[7]
Nel 2014 è stato insignito del prestigioso Premio Marconi per la Creatività.[8]
Premio Paolo Scolari 2018.[9]
Premio Columbus nel 2019 per la Scienza e la Tecnologia

Curiosità
Parla cinque lingue, tra cui il giapponese[10].





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Pio Chiaruttini


Pio Chiaruttini (Bozzolo, 21 giugno 1901 – Botticino, 6 giugno 1985) è stato un inventore e imprenditore italiano del settore tessile.

Biografia

Appena ventenne viene assunto dal calzificio Ferrari, grande azienda bresciana che a quel tempo contava tre stabilimenti dislocati a Botticino, Brescia e Ospitaletto.
Si rivela un ottimo esperto in meccanica tessile, tanto da guadagnare presto il ruolo di capo officina presso lo stabilimento di Roberto Ferrari a Botticino.
Nel 1942, ancora occupato presso Ferrari, decide di aprire la sua prima attività in proprio, producendo calze in seta da donna e acquistando la materia prima presso l'opificio fondato da Don Arcangelo Tadini a Botticino.
Brevetti
Nel 1953 deposita all'ufficio brevetti di Brescia l'invenzione industriale: "Dispositivo per l'esecuzione di rigature o punteggiature in rilievo su calze in genere da montare su macchine circolari a doppia alimentazione di filato". Sostanzialmente il brevetto permetterà d'ora in poi di produrre industrialmente la famosa calza con la riga, prima realizzata unicamente ripassando la calza con una macchina taglia-cuci.





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Giovanni Antonio Ciaschi


Giovanni Antonio Ciaschi (Livorno, 1763 – Larderello, 1816) è stato un ingegnere e inventore italiano.
Biografia

Si sa poco della vita di Giovanni Antonio Ciaschi. Nacque a Livorno da Valentino Ciaschi e Bartolommea Guerrazzi. Nel 1796 ideò un battello sottomarino in grado colpire i vascelli nemici con appositi cannoni. L'invenzione fu esposta in un'adunanza dell'Accademia del Cimento il 16 marzo 1801.[1]

Successivamente Ciaschi è accreditato come tecnico del catasto di Livorno e poi come ingegnere alle dipendenze di un'impresa che opera nel campo dell'estrazione di Acido borico.[2] Il suo contributo è fondamentale nella costruzione dei cosiddetti lagoni artificiali, in uno dei quali sfortunatamente precipita, trovando la morte dopo una terribile agonia.[3]





fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Antonio_Ciaschi

 
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Teresa Ciceri Castiglioni


Teresa Ciceri Castiglioni (Angera, 15 ottobre 1750 – Como, 29 marzo 1821) è stata un'inventrice italiana.

Biografia

Figlia del conte Giobatta Castiglioni Zaneboni, si sposò nel 1770, a vent'anni, con un nobile comasco quarantatreenne, Cesare Liberato Ciceri, appartenente ad una famiglia prestigiosa. La coppia andò ad abitare nel centro di Como, in un austero complesso di cinquantanove stanze (nell'attuale via Diaz). A Camnago Volta possedevano un terreno di 438 pertiche e 21 tavole, le proprietà della Rienza e della Figarola, ebbero domestici, balie, staffieri e massari. Quello che mancava era il denaro liquido e spesso il marito ricorse ai prestiti e alla vendita di porzioni di terreno (le pertiche di Camnago si riducono a 385), per fare studiare i figli e sposare le figlie.[1]
Studi e scoperte

Nonostante avesse 12 figli, si specializzò nelle scienze agrarie, discipline a cui apportò diversi contributi; si interessò di arti e utili applicazioni nell'industria.

Promosse l'arte di " pettinare, filare, torcere e tessere a maglia la scorza di lupini"[2] come scrisse Maurizio Monti nella sua Storia di Como. Teresa mise a punto un sistema per ottenere filo da tessere e fare tela dai lupini, leguminosa frequente nei terreni acidi. Alcuni frammenti da lei stessa prodotti si conservano ancora nel Museo di Como. Per questa sua scoperta, ma soprattutto per aver introdotto nel comasco la coltivazione della patata[3], la Società Patriottica di Milano il 1º febbraio del 1786 la nomina "Sozia Corrispondente Nazionale per le cognizioni e lo zelo rispettivamente agli oggetti dell'agricoltura e delle arti".

L'esperimento, insieme a Volta, della coltivazione delle patate (pomi di terra), trovò un seguace in don Mario Monti, parroco di Brunate, che nel 1832 scrisse che le qualità di patate coltivate intorno al borgo erano dieci e che il dovere di fare questi esperimenti era dei ricchi proprietari di terreni[3].

A farla nominare membro di questa Società fu Alessandro Volta che in una lettera al cavalier Landriani scrive: "...l'abate Carlo Amoretti porterà alla Società Patriottica la tela e le altre mostre di filaccia di lupini, che presenta alla medesima Società colla descrizione delle relative operazioni, la signora donna Teresa Ciceri, dama comasca, mia singolar padrona e amica..." (da Flavia Scotti nata Castiglioni).

È grazie alla sua amicizia che Alessandro Volta, ospite nella sua casa di Angera, il 4 novembre 1776 all'Isolino Partegora raccolse in alcune bottiglie di gas che si sprigionava dalla palude che chiamò inizialmente aria infiammabile per poi in seguito venire classificato come metano. A lei è intitolato il Liceo "Teresa Ciceri" di Como.





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Gaetano Ciocca


Gaetano Ciocca (Garlasco, 27 giugno 1882 – Garlasco, 31 ottobre 1966) è stato un ingegnere, inventore e saggista italiano.

Come ingegnere ha lavorato nel settore degli impianti ferroviari ed elettromeccanici, elaborando il progetto della "strada guidata", in seguito si è dedicato alla bonifica del Pavese e alla costruzione di villaggi di edilizia popolare in Piemonte e Lombardia.[1][2] Come saggista ha pubblicato le riflessioni elaborate durante i viaggi in Unione Sovietica (Giudizio sul bolscevismo, 1933) e negli Stati Uniti d'America (Economia di massa, 1936) e le serie di articoli Dialoghi sulle cose possibili (1942) e Discorsi sulle cose reali (1943), pubblicate sulla rivista Tempo.[1][2] L'archivio di Ciocca è conservato presso l'Archivio del '900 del Mart di Rovereto.[1][2][3]

Biografia

Gaetano Ciocca nasce a Garlasco il 27 giugno 1882.[1][2] Frequenta il liceo a Vigevano, in seguito si iscrive al Politecnico di Torino dove consegue la laurea in Ingegneria industriale nel 1904.[1][2] Nel 1905 è assunto dall'Ansaldo di Cornigliano Ligure, in seguito lavora presso le Officine elettro-ferroviarie e la ditta Carminati & Toselli.[1][2] Tra il 1911 e il 1915 svolge la libera professione nel settore degli impianti ferroviari e elettromeccanici a Milano.[1][2] Nel 1915, all'inizio della prima guerra mondiale, parte volontario per il fronte.[1][2] Dopo la guerra riprende il lavoro di ingegnere a Milano, sempre come libero professionista, in particolare svolge il ruolo di perito tecnico per la Società Ferrovie Nord e la Compagnia d'assicurazioni Zurigo.[1][2] È eletto segretario della sezione milanese dell'Associazione nazionale ingegneri liberi professionisti.[1][2]

Nel 1922 Ciocca elabora il progetto della "strada guidata", che propone il trasporto di persone e merci tramite trazione automobile su un binario in cemento.[1][2] Nel 1930 è incaricato dalla Fiat di Torino di progettare e dirigere la costruzione di uno stabilimento per la produzione di cuscinetti a Mosca.[1][2] Da maggio 1930 a settembre 1932 si trasferisce in Russia per seguire i lavori.[1][2] Dal 1933 collabora con la rivista Quadrante.[1][2] Nell'agosto dello stesso anno pubblica il saggio Giudizio sul bolscevismo, che raccoglie memorie della sua permanenza in Unione Sovietica.[1][2] Il saggio è recensito positivamente dalla critica e anche da Benito Mussolini che lo elogia su Il Popolo d'Italia.[1][2] Nel 1934 Ciocca compie un viaggio negli Stati Uniti d'America in seguito al quale pubblica il libro Economia di massa (1936), con prefazione di Valentino Bompiani.[1][2]

Negli anni Trenta Ciocca elabora nuove tecniche costruttive basate sull'uso di prefabbricati nel settore dell'edilizia popolare e si dedica alla zootecnia studiando il modo di aumentare la produttività degli impianti.[1][2] Partecipa inoltre a numerosi convegni e conferenze in cui illustra le proprie invenzioni.[1][2] Al IV Convegno Volta, nell'autunno 1934, teorizza la creazione di un "teatro di massa", tema del saggio La tecnica del teatro di massa, pubblicato l'anno seguente.[1][2] Nello stesso periodo collabora con il gruppo di architetti milanesi BBPR (Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti e Ernesto Nathan Rogers) alla stesura del nuovo piano regolatore di Pavia, e in seguito al concorso per la progettazione della Mostra della civiltà italica per il complesso E42 di Roma, ottenendo il secondo premio.[1][2]

Dall'aprile 1936 al febbraio 1937 Ciocca è volontario in Africa nella guerra d'Etiopia come maggiore e comandante del genio divisionale.[1][2] Dal 1937 risiede a Roma, dove continua a promuovere il progetto della "strada guidata", sulla quale pubblica nel 1939 il saggio La strada guidata.[1][2] Negli stessi anni si dedica alla campagna di bonifica del Pavese realizzando canalizzazioni e drenaggi.[1][2] Dal giugno al novembre 1942 collabora con la rivista Tempo di Alberto Mondadori, pubblicando i Dialoghi delle cose possibili, 25 articoli sulla società moderna in forma di dialogo filosofico.[1][2] Dall'aprile al luglio del 1943 pubblica, sempre su Tempo, i 15 Discorsi sulle cose reali, considerazioni filosofiche sull'assetto politico-economico dello Stato e sulla società italiana.[1][2] Durante la seconda guerra mondiale collabora con i partigiani piemontesi.[1][2]

Nel dopoguerra Ciocca è membro del comitato organizzatore del Convegno nazionale per la ricostruzione edilizia di Milano e partecipa al Congresso nazionale per la ricostruzione dell'industria, e si occupa della realizzazione di villaggi prefabbricati a Novara, Pavia, Vigevano e Casate.[1][2] Dal 1954 al 1960 collabora a Il giornale dell'ingegnere con una serie di articoli che inserisce nel saggio La chiara scienza, rimasto incompiuto.[1][2] Negli anni Cinquanta realizza il complesso Palazzo Lido Sport di Milano ed elabora il piano regolatore di Vigevano.[1][2] Negli anni Sessanta si ritira a Garlasco, dove si avvicina al pacifismo.[1][2] Nel saggio Per una lingua internazionale teorizza la creazione di una lingua universale basata sul latino, simile a quella sviluppata da Giuseppe Peano.[1][2] Si spegne a Garlasco il 31 ottobre 1966.[1][2]
Pubblicazioni
La strada guidata

Giudizio sul bolscevismo, Milano, Bompiani, 1933.
La tecnica del teatro di massa, Roma, Reale Accademia d'Italia, 1935.
Economia di massa, Milano, Bompiani, 1936.
La strada guidata, Milano, Bompiani, 1939.
Dialoghi delle cose possibili, in Tempo, Milano, Mondadori, 1942.
Discorsi sulle cose reali, in Tempo, Milano, Mondadori, 1943.
Per una lingua internazionale, Pavia, Tipografia popolare, 1963.



fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Gaetano_Ciocca

 
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Giovanni Codazza


Giovanni Codazza (Milano, 15 maggio 1816 – Como, 1º settembre 1877) è stato un ingegnere, fisico, matematico, accademico, inventore e politico italiano.
Biografia

Allievo del Collegio Borromeo, si laureò in ingegneria e architettura a Pavia e dal 1842 insegnò geometria descrittiva presso la medesima università, per circa venti anni. Nel 1848 prese parte ai moti insurrezionali in Lombardia e visse per due anni esule in Piemonte, dove insegnò arte militare alla scuola ufficiali di Pinerolo. Dal 1863 al 1868 fu docente di fisica tecnologica al nuovo Istituto tecnico superiore di Milano.[1]

A Pavia fu molto attivo anche nella politica locale, venne eletto consigliere comunale e ricoprì la carica di sindaco della città dal 1862 al 1863.[1]

Autore di numerose pubblicazioni in campo scientifico, fu rettore dell'Università degli Studi di Pavia nell'anno accademico 1857-1858, oltre che socio dell'Accademia dei Lincei e dell'Accademia delle scienze di Torino. Dal 1870 al 1877 fu direttore del Regio museo industriale di Torino.[1]





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Giuseppe Conti (abate)


Giuseppe Conti (Pellegrino Parmense, 17 gennaio 1779 – Napoli, 1855) è stato un abate, matematico e inventore italiano.
Biografia

Entrò molto giovane in un collegio gesuita di Parma, dove intraprese gli studi ecclesiastici, distinguendosi soprattutto nelle materie scientifiche. Al termine degli studi ricevette gli ordini sacri. Nel 1801, a soli 22 anni, gli fu affidato l'insegnamento di fisica e matematica nel collegio Lalatta (poi collegio Maria Luigia). Mantenne l'incarico fino al 1808 e pubblicò due opere: Proposizioni fisico-matematiche (Parma, 1805) e Proposizioni di geometria (Parma, 1806).

Nel 1809 fu chiamato a Napoli per diventare precettore di un alto funzionario del Regno di Napoli. Prima di partire affidò gli studenti di cui era insegnante privato ad un suo ex alunno, Antonio Lombardini, che poi diventerà professore emerito di matematica e funzionario di rilievo del Ducato di Parma e Piacenza. A Napoli fu nominato socio corrispondente del Reale Istituto d'Incoraggiamento, fondato durante il decennio francese (1806-1815), e fu professore di fisica sperimentale, chimica e mineralogia presso la direzione generale ponti e strade. Fece parte di una commissione per la riforma del sistema di pesi e misure, che si stava introducendo in quegli anni nel Regno di Napoli. A tale scopo costruì nel suo laboratorio i primi campioni di riferimento di pesi e misure.

Dal 1815, restaurata la monarchia borbonica, Giuseppe Conti fu accreditato come tecnico per continuare l'opera di rinnovamento della struttura economica del Regno, già iniziata durante il dominio francese. Risolse il problema dell'azionamento idrico dei filatoi della grande manifattura serica di San Leucio, ritenuto fino ad allora insolubile a causa del dislivello tra la manifattura e le acque del fiume che dovevano alimentarla.[1]

Nel 1824 Ferdinando I di Borbone gli riconobbe un brevetto per l'invenzione di uno speciale tessuto di ferro particolarmente adatto per la costruzione dei ponti e delle armature dei tetti. Questo nuovo materiale gli permise di progettare ponti sospesi in ferro più resistenti ed economici di quelli fino ad allora costruiti. Altre sue invenzioni che gli valsero il brevetto furono una macchina a vapore a bassa pressione (1832), un'attrezzatura per la mietitura dei cereali (1837) e un nuovo metodo per sfruttare meglio la forza motrice delle cadute d'acqua, applicabile anche con correnti di bassa velocità (1845).

Nel VII congresso degli scienziati italiani, tenutosi a Napoli nell'autunno del 1845, l'abate Conti fu eletto membro della commissione per le irrigazioni nel Regno. Dopo questa data non si hanno più notizie di lui, ma negli Atti del Regio Istituto d'Incoraggiamento alle Scienze Naturali di Napoli, del 1855, il suo nome è ancora riportato tra i soci corrispondenti.[2]





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Pietro Conti da Cilavegna


Pietro Conti (Cilavegna, 2 maggio 1796 – Cilavegna, 15 maggio 1856) è stato un ingegnere e inventore italiano. È maggiormente conosciuto per l'ideazione del Tacheografo, precursore della macchina per scrivere, oltre che per il suo contributo nella nascita della stenotipia. Nel 1934 tale ruolo chiave venne riconosciuto dal "Primo Centro Italiano di Studi dattilografici di Padova", il quale collocò Pietro Conti fra i precursori italiani dell'invenzione della macchina per scrivere.[1] Inoltre, l'11 novembre dello stesso anno, venne affissa sulla parete dell'antico torrione del castello di Cilavegna una lapide commemorativa, opera di Giovanni Battista Alloati (1878–1964).[1][2]

L'attività e i riconoscimenti scientifici conseguiti da Conti in Francia non sono ancora ben documentati poiché i suoi brevetti andarono perduti a causa di una cattiva archiviazione e anche per gli eventi del terremoto di Messina, dove erano conservati alcuni fascicoli. Tuttavia, è stato possibile ricavare dati specifici grazie ad alcune fonti, come il diario di Giuseppe Ravizza (ciò testimonia che le soluzioni adottate dal Ravizza e da altri furono successive all'invenzione di Conti).[3][1]

Biografia

Pietro Conti nacque il 2 maggio 1798 a Cilavegna, un paese che, data la sua impostazione agricola, non venne mai apprezzato dall'inventore poiché il suo obiettivo era «vivere una vita varia ed avventurosa».[4] A causa di questa lontananza, Conti intraprese diversi viaggi per contrastare la monotonia della ruralità.[4][2]
Casa in cui visse Pietro Conti

Durante i suoi viaggi, egli trasse ispirazione dai luoghi che visitava e questo lo portò ad immaginare diverse invenzioni: una di queste venne pensata da Conti nel 1820, quando capì che era necessario elaborare una macchina «capace di tener dietro alle parole d'un oratore».[4] I suoi studi per realizzare uno strumento simile lo occuparono diversi anni e duranti questo periodo egli passò gran parte del suo tempo in viaggio, anche se spesso tornava a Cilavegna per perfezionare la sua idea.[4][2]

Durante uno di questi soggiorni a Cilavegna (1827), egli si innamorò di una ragazza, la cui famiglia però mal sopportava il modo di fare di Pietro Conti; per questo motivo la coppia decise di scappare a Parigi, meta non casuale poiché capitale della stenografia:[4][2] in Francia l'inventore poté presentare un modello della sua macchina per scrivere alla Société d'encouragement pour l'industrie nationale, dalla quale un anno più tardi ottenne una sovvenzione in denaro su segnalazione degli scienziati Molard e Navier.[4]
Lapide, fissata nel 1934 sul torione dell'antico castello, che celebra l'inventore Pietro Conti

Nel 1833 Conti tornò in patria, ma la sua invenzione non ebbe successo perché l'ambiente in cui visse, ancora distante da una completa apertura alle istanze tecnologiche del periodo, non favoriva lo sviluppo di macchine del genere.[4][2] Ciò comportò una caduta del suo entusiasmo che, in aggiunta alla penuria di risorse finanziarie, contribuì al fallimento della sua scoperta; in quegli anni inoltre stava prendendo forma il Risorgimento e il Regno di Sardegna, di cui il Vigevanasco all'epoca era parte, era teso verso altre mete.[5][4] Ciò nonostante proprio in quel periodo incontrò Giuseppe Ravizza, il quale, lavorando nel novarese, si confrontò spesso con lui riguardo alla costruzione del cembalo scrivano:[6] grazie a questo sodalizio fu possibile un importante avanzamento nella costruzione di una macchina che sarebbe diventata in seguito "macchina per scrivere".[6] Un altro dato interessante riguarda la figura di Celestino Galli, il quale, venuto a conoscenza dell'invenzione di Pietro Conti, anticipò il Ravizza ed elaborò durante il suo soggiorno a Londra il Potenografo: esso consisteva in un tacheografo leggermente alleggerito, al quale vennero sostituiti i tasti stenografici con quelli della stampa comune.[7]

Pietro Conti morì a Cilavegna nel 1856, all'età di 58 anni.[4]
Il tacheografo

Il 10 agosto del 1827, Pietro Conti presentò all'Accademia delle scienze di Francia la descrizione di due macchine di sua invenzione, rispettivamente dette tacheografo e tacheotipo, intese a facilitare e accelerare la composizione tipografica;[3] egli ne fece rapporto a Navier e Fourier, ma siccome i relativi documenti sono andati persi, non è chiara la differenza fra i due prototipi.[8][3] Sta di fatto che le enciclopedie italiane coeve usano indistintamente i due termini, "tacheografo" (grecismo composto da tacheos, celeremente, e grapho, scrivere) e "tacheotipo" (grecismo composto da tacheos, celeremente, e typos, tipo), per descrivere la stessa macchina.[9][3] Nella letteratura dell'epoca viene anche denominato tachigrafo e tachitipo.[3][1]
Descrizione

La macchina inventata da Conti, per stampare e scrivere con una rapidità simile a quella della parola (anche senza l'uso della vista), stampava su carta, cera e metalli teneri ogni tipo di carattere, tramite punzoni.[3] La sua descrizione offre la possibilità di verificare la somiglianza con le successive e "moderne" macchine da scrivere.[3] Essa, infatti, era composta principalmente da una cassa portatile, che aveva, in mezzo ad un telaio a battente, una tavoletta mobile di marmo o di ferro, sulla quale si poneva il foglio di carta.[3] Ad ogni linea impressa, la tavoletta avanzava di uno spazio uguale alla separazione delle righe, e di sotto era sospesa una specie di scatola rotonda, mobile da sinistra a destra, intorno alla quale erano disposti ordinatamente i caratteri di acciaio temprato in numero sufficiente alla scrittura.[9][3] Ogni carattere o punzone corrispondeva ad una "pinna" o tasto di una tastiera collocata davanti alla scatola e alla tavoletta mobile.[3] Sopra ogni pinna, che era disposta in modo tale da permettere di essere azionata senza scostare le mani, era impresso il carattere corrispondente al punzone.[3] Ad ogni pressione di pinna il punzone si bagnava d'inchiostro ed andava a collocarsi al centro della scatola sotto l'azione di un piccolo montone, che lo calcava e si ritirava prontamente per dar luogo al successivo.[9][3]





fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Pietro_Conti_da_Cilavegna

 
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Salvatore Cortese


Salvatore Cortese (Napoli, 26 gennaio 1933 – Napoli, 22 ottobre 2007) è stato l'inventore della prima macchina per la produzione della granita.
Salvatore Cortese, in officina
First Class by Elmeco
Biografia

Salvatore Cortese nacque nel 1933 a Napoli. Alla fine degli anni ’50 Cortese aveva insieme ai fratelli una ditta che si chiamava f.lli Cortese snc e si occupava di assistenza per attrezzature da bar. Fu Passalacqua – torrefattore napoletano -, a chiedere a Cortese un’idea per eliminare la famosa grattata di ghiaccio e passare ad una macchina più efficiente dal punto di vista dell’igiene e della manutenzione.

Nel 1961, su richiesta del suo cliente, progettò il primo granitore verticale con completa esposizione del prodotto, segnando il passaggio dalla produzione manuale della granita a quella meccanica e poi elettronica. La macchina fu chiamata Royal (6 o 12 in base alla capacità). Si componeva di un impianto frigo su cui poggiava una piastra refrigerata chiusa da un contenitore circolare dotato di rubinetto. Al suo interno vi erano due pale mosse da altrettanti motori. Uno girava molto lentamente e aveva il compito di raschiare il ghiaccio che si formava per congelamento del prodotto (succo di limone, arancia, fragola, etc) con una percentuale di zucchero. L'altro girava in senso opposto e aveva il compito di mescolare il prodotto e contemporaneamente aiutarne la fuoriuscita dal rubinetto. La portata innovativa consisteva nel fatto che la macchina permetteva di produrre, esporre e nello stesso tempo distribuire la granita.

Nel 1983 con brevetto del 30.05.1983 lanciò “Mach”, il primo granitore orizzontale. L’innovazione consisteva nella capacità prodotta maggiore (2 litri in più per ogni vasca) e nella riduzione del 50% dello spazio occupato sul banco del bar. Mach, inoltre, con un solo motore (invece di due) riusciva a erogare, produrre e miscelare grazie a un’elica senza fine all'interno della vasca. Il prodotto si formava sempre all'interno della vasca che ghiacciava il prodotto. Con Mach nascono i primi stampi per la produzione industriale.

Nel 1989 Salvatore Cortese rilevò dai fratelli la società Elmeco, (Elettromeccanica Cortese) e proseguì nella sua opera di innovatore del settore.

Nel 1993, scaduto il brevetto alcuni concorrenti passarono immediatamente dal modello verticale a quello orizzontale con una variante. In questo modo venne riconosciuta la validità del brevetto a livello mondiale.
Royal Model Patent

Nel 1995 con brevetto NA95A00038del 08.02.1995 Cortese lanciò una nuova macchina, il First Class: primo granitore a trasmissione Verticale che sfrutta un meccanismo di ingranaggi verticale e orizzontale che permette il movimento del prodotto in modo indiretto con una semplificazione degli aspetti legati all’igiene e un azzeramento dei costi di manutenzione. Ancora oggi Elmeco rimane l'unica azienda a produrre questo modello.





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Adolfo Cozza


Adolfo Cozza (Orvieto, 4 giugno 1848 – Roma, 16 agosto 1910) è stato uno scultore, inventore, archeologo, topografo, pittore e ingegnere italiano.

Biografia

Nacque a Orvieto dal conte Giovanni Cozza, esperto di lettere classiche e poeta, e dalla contessa Maria Martinelli Pontici, disegnatrice, e si iscrisse al Collegio della Sapienza di Perugia, dedicandosi allo studio di autori classici e del disegno. Nel 1862 si trasferì con la famiglia a Firenze dove iniziò ad interessarsi alla scultura frequentando lo studio di Giovanni Dupré. Fervente sostenitore di Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini all'età di 18 anni prese parte all'invasione del Trentino del 1866; nello stesso anno tornò a Firenze dove realizzò le sue due prime statue in stile neoclassico: Angelo della resurrezione e Camoëns, accolte sfavorevolmente dalla critica dell'epoca. Di carattere fortemente ribelle ed irrequieto scelse di abbandonare la scultura e tornò ad Orvieto con la giovane moglie Adina Arnaud, per dedicarsi allo studio di matematica e meccanica.[1] Dalla moglie ebbe tre figli: Gualtiero, Corrado[2] e Lorenzo, nato nel 1877 ed anch'egli scultore.[3]

In virtù dei suoi studi formulò numerose invenzioni, delle quali almeno 35 brevettate, tra cui un freno idraulico per convogli ferroviari e per le eliche motrici delle navi, che gli valsero un invito a Londra, un goniografo con dispositivo per riportare gli angoli misurati sul foglio, una bascula, che gli valse un premio all'Esposizione di Parigi del 1878, ed un ortottero, che brevettò nel 1904. Nel 1896 ottenne un'autorizzazione da parte del Ministero dei lavori pubblici per un imponente progetto di porto ad Ostia, che non fu mai portato a compimento per le continue modifiche ed approfondimenti portati avanti nell'arco della sua vita. Fu inoltre l'ideatore nella sua città natia della funicolare, realizzata nel 1888 su progetto di Alessandro Ferretti. Contemporaneamente si impegnò in diverse opere di restauro per il duomo di Orvieto: nel 1884 si occupò della ricostruzione del toro bronzeo di Lorenzo Maitani, caduto e frantumatosi nel 1835, nel 1886 si occupò del restauro di alcuni capitelli delle absidi laterali all'interno del duomo e poi nel 1889 modellò il bassorilievo in bronzo, fuso da Alessandro Nelli per l'architrave della porta laterale nord e raffigurante il miracolo eucaristico di Bolsena. Nel 1899 e nel 1909 presentò anche dei progetti per le porte della facciata.[1]

Fu attivo anche nel campo archeologico: il 23 novembre 1881 scrisse alla Direzione generale antichità e belle arti del Ministero della pubblica istruzione per farsi promotore della redazione di una carta archeologica d'Italia. Dopo aver ricevuto l'autorizzazione dal direttore generale Felice Barnabei nel corso dell'anno successivo iniziò gli scavi nel territorio compreso tra Orvieto e Bolsena, con l'obiettivo di partire da una carta archeologica dell'Etruria; tali scavi si espansero al territorio Falisco, Tarquiniese e Sabino tra il 1883 e il 1884. Nella redazione di quest'opera fu affiancato dagli archeologi Angiolo Pasqui e Raniero Mengarelli sotto la direzione di Gian Francesco Gamurrini anche se la redazione della carta si interruppe definitivamente nel 1897 poiché l'interesse archeologico fu polarizzato sui ritrovamenti di Cozza riguardanti la necropoli falisca e i templi di Apollo e Giunone Curite a Civita Castellana; da quel momento infatti gli sforzi furono convogliati nella realizzazione del futuro Museo nazionale etrusco di Villa Giulia, del quale Barnabei fu principale ideatore nonché primo direttore. Per il museo Cozza, che nel frattempo si era trasferito con la famiglia a Roma[1], realizzò una ricostruzione a grandezza naturale del tempio di Alatri, del quale aveva rinvenuto alcuni resti nel 1882 insieme al collega Hermann Winnefeld; tale ricostruzione, tra le prime del suo genere, è esposta nel cortile del museo.[4]
I grandi navigatori, gli astronomi e i naturalisti dal secolo XIII al XVIII alla scoperta del mondo di Villa Lubin, rimasto incompiuto.

Nella capitale italiana riprese la sua attività di scultore e divenne amico di Giuseppe Sacconi, col quale collaborò alla progettazione del Vittoriano, del quale assunse la direzione artistica dei lavori nel 1905. Realizzò inoltre delle sculture per l'imponente opera tra cui: due Vittorie sul lato orientale, i motivi decorativi di gorgone e festoni, il trofeo sottostante le finestre frontali, i capitelli dei pilastri e l'ornato con due aquile reggenti un festone sulla gradinata del terzo ordine. Tra le sue ultime opere vi furono le quattro statue colossali poste dopo la sua morte sui timpani del portico del Foro delle regioni all'Esposizione romana del cinquantenario della proclamazione del Regno d'Italia e alcune decorazioni di villa Lubin; qui Cozza modellò il bassorilievo posto sopra gli archi del portale d'ingresso con l'allegoria del trionfo dell'agricoltura e dipinse due tele murali poste nella sala delle riunioni raffiguranti una L'agricoltura dalle epoche barbariche fino ai tempi della Roma Imperiale e l'altra Il rifiorire arabo e medioevale dell'agricoltura dal suo sorgere ai nuovi sviluppi, quest'ultimo rimasto incompiuto. Mentre era intento a dipingere il volto di Leonardo da Vinci sulla sua terza tela, raffigurante i principali navigatori, astronomi e naturalisti dei secoli precedenti, fu colto da un malore e cadde dall'impalcatura morendo sul colpo.[1]
Memoria
Il busto di Adolfo Cozza ad Orvieto.

Gli sono state dedicate delle strade a Lecce, Roma e Orvieto. Nel decennale della sua morte i figli gli hanno dedicato un busto posto ad Orvieto in piazza del Popolo, accostato al Palazzo del Capitano del Popolo, recante la scritta:

«ALLA CITTÀ DI ORVIETO
CHE DI ADOLFO COZZA
CONOBBE LA GIOVINEZZA GARIBALDINA
E LA VIRILITÀ FECONDA DI GRANDI OPERE
ED EBBE LUI TENACE ESTIMATORE DEL
SUO POPOLO E ASSERTORE DELLE
SUE GLORIE ISPIRATRICI
QUESTA EFFIGE DEL PADRE LORO
TRAVOLTO TRAGICAMENTE
I FIGLI MEMORI
OFFRONTO
16 AGOSTO 1911»

([5])
Opere

Ricostruzione del tempio di Alatri, 1899-1891, Roma, Museo nazionale etrusco di Villa Giulia
I grandi navigatori, gli astronomi e i naturalisti dal secolo XIII al XVIII alla scoperta del mondo, Roma, Villa Lubin
L'agricoltura dalle epoche barbariche fino ai tempi della Roma Imperiale, Roma, Villa Lubin



fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Adolfo_Cozza

 
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Silvio Crespi


Silvio Benigno Crespi (Milano, 24 settembre 1868 – Cadorago, 15 gennaio 1944) è stato un imprenditore, inventore e politico italiano.


Biografia

Primogenito di Cristoforo Benigno Crespi e di Pia Travelli collaborò e poi succedette al padre nella conduzione del cotonificio di Crespi d'Adda che ampliò insieme al villaggio operaio.

Laureatosi a soli ventun anni in Giurisprudenza all'Università degli Studi di Pavia, si recò in Francia, Germania e Inghilterra per seguire gli sviluppi dell'industria cotoniera: lavorò anche a Oldham, presso la Platt Brothers, famosa ditta produttrice di macchine tessili. Nel 1889 entrò nell'azienda paterna e ne assunse la procura generale, quindi, nel 1906, rimase solo nella direzione.

Passò successivamente a occuparsi di numerosissime attività e ad assumere svariate cariche nel campo industriale, politico e finanziario. Pubblicò uno studio sui mezzi per prevenire gli infortuni, fu il primo presidente dell'Associazione fra gli Industriali Cotonieri e membro del Consiglio Superiore dell'Industria e del Commercio. Fu presidente della Banca Commerciale Italiana e dell'Automobile Club di Milano, promuovendo, insieme a Piero Puricelli la costruzione dell'autodromo di Monza (nel 1922) e dell'Autostrada Milano-Laghi (1925).

Fu Deputato e Senatore del Regno d'Italia (nel 1920) nelle file dei liberali cattolici e svolse un'intensa attività in Parlamento a favore dell'industria e del commercio, rivolgendosi anche a problemi legati alle condizioni di lavoro degli operai: l'abolizione del lavoro notturno nelle fabbriche, il diritto al riposo festivo settimanale, la riduzione delle ore di lavoro e la tutela sul lavoro dei minori.

Fu nominato sottosegretario agli approvvigionamenti durante la prima guerra mondiale e, innalzati i servizi a Ministero, fu Ministro degli approvvigionamenti e consumi alimentari nel Governo Orlando (dal 22 maggio 1918 al 18 giugno 1919). Fu Ministro plenipotenziario al termine della guerra: firmò la "Pace di Versailles" nel 1919 come rappresentante dello stato italiano.

Sposò Teresa Ghislieri, con la quale ebbe sette figli.

È ricordato anche per i suoi numerosi brevetti e invenzioni, tra i quali anche un telaio circolare.

Al secondo Congresso Mondiale dei Trasporti nel 1928 a Roma, Silvio Crespi propose di utilizzare i container in una collaborazione (e non competizione) tra i sistemi di trasporto stradale e ferroviario sotto gli auspici di un organismo internazionale così come già succedeva per Sleeping Car Company per il trasporto internazionale di passeggeri in vagoni letto; dopo il Congresso l'allora presidente della Camera di commercio internazionale Alberto Pirelli invitò le organizzazioni a formare un comitato internazionale per trovare il miglior sistema di container a questo scopo.[1]

Oggi riposa nel cimitero mausoleo di Crespi d'Adda.
Onorificenze
Grande ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro - nastrino per uniforme ordinaria
Grande ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro
Grand'Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia - nastrino per uniforme ordinaria
Grand'Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia



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Marcello Creti


Marcello Creti (Roma, 16 aprile 1922 – Sutri, 1º gennaio 2000) è stato un inventore e sensitivo italiano.

Fin da giovanissimo è stato autore di molteplici invenzioni e brevetti.[1]

Biografia

Nato a Roma in una famiglia benestante, Creti afferma, fin da piccolo, di vedere in sogno o in stato di trance macchine e grafici di una certa complessità che poi quando ritorna cosciente riproduce e inizierà a brevettare.

Il padre, spiritista, ritiene che l'attività del figlio sia da attribuire ad altre entità e quindi spinge il figlio a partecipare alla sedute spiritiche fino a che lo stesso Marcello si convince di essere un medium. Destò da subito l'attenzione dei giornali (che lo indicavano come il più giovane inventore d'Italia) e dello stesso Benito Mussolini che lo riceve e lo incoraggia.[2] Nel 1947 acquista le rovine del monastero benedettino di San Luca ubicato nel comune di Guarcino[3] per istituirvi il Centro Romano Esperimenti Tecnico Industriali (C.R.E.T.I.), dove tra le altre attività tiene lezioni gratuite ai ragazzi meno abbienti. Negli anni '60 accantona, anche se non completamente, il suo lavoro di inventore per dedicarsi all'esplorazione, che è un'altra sua grande passione.

Moltissimi sono stati i suoi viaggi; il più famoso, cui poi seguì la realizzazione di un documentario, è quello realizzato al Polo nord. Negli anni 1970 i suoi studi si concentrano sull'archeologia e la mineralogia. La grande quantità di materiale ritrovato gli permetterà di aprire una Mostra mineraria permanente nell'ambito della Associazione Culturale Marcello Creti a Sutri.

Fonda a Sutri il gruppo degli Ergoniani[4][5][6], che si propone di preparare "superuomini e superdonne" grazie all'Ergos, ovvero l'energia radiante governante ogni scienza[7][8]. Ma in seguito il Creti soppresse tale denominazione e quanto ad essa correlato e proseguì le sue attività come "Associazione Culturale Marcello Creti".[9]

Muore nel 2000 poco tempo dopo una apparizione al Maurizio Costanzo Show.[10]
Onorificenze

Premio di Primo Grado con Medaglia d'Oro - Nel 1939 a soli 17 anni viene conferito a Marcello Creti da Pietro Badoglio, per aver risolto un problema tecnico che gli consentì di realizzare la nota invenzione del Telefono Amplificato, comunemente detto Viva Voce.[senza fonte]

Invenzioni che gli si attribuiscono

1930 cacciavite prensile (permetteva di collocare o estrarre una vite anche in posti poco accessibili).
1936 prova valvole e prova circuiti.
1937 amplitele (telefono vivavoce). Brevettato nel 1937 con il n. 357707.[11]
1938 telefono plurimo (doppia linea usatissimo in campo militare poiché permetteva il collegamento simultaneo tra più persone che si trovavano il luoghi differenti). Brevettato nel 1938 con il n. 368324
1939 riflettore antiaereo al magnesio (faro funzionante senza corrente elettrica e proiettante un fascio di luce visibile anche a 10000 metri).
1939 cambiadischi automatico (primo prototipo di juke-box per i dischi a 78 giri; per questa invenzione ricevette un premio di 10.000 lire[12]
1940 luxsometro (misuratore di intensità luminosa). Brevettato nel 1940 con il n. 384417
1940 automobile autarchica. Brevettato nel 1940 con il n. 381020
1940 telefono automatico portatile. Brevettato nel 1940 con il n. 384047.
1940 combinatore di numero telefonico (non a disco, ma verticale). Brevetto italiano numero 360507.
1941 geo-comando per campi minati (tramite questo comando le mine venivano fatte esplodere a distanza senza alcun pericolo). La prima dimostrazione pratica del funzionamento fu fatta il 9 febbraio 1941.
1941 multifono (precursore della moderna segreteria telefonica, registrava le chiamate degli utenti all'amplitele). Brevetto italiano numero 388130.
1942 pistola automatica (di forma tubolare, poteva essere nascosta ed azionata con l'incavo della mano e fu utilizzata nei servizi di polizia). Brevetto italiano numero 398121.
1942 ondogeno (indirizzato all'uso terapeutico). Brevettato nel 1942 con il n. 391444.
1950 neon scrivente (principio fisico che consiste nel sollecitare l'accensione parziale e progressiva dei gas contenuti nei tubi di vetro). Brevettato in Francia con il numero 983700.
Instamatic (macchina fotografica automatica a 16mm, provvista di caricatore pellicola). Fu commercializzata dalla Kodak.[13]
1970 lama indistruttibile per rasoi.[14]



fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Marcello_Creti

 
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Bartolomeo Cristofori


Bartolomeo Cristofori (Padova, 4 maggio 1655 – Firenze, 27 gennaio 1732[1][2]) è stato un cembalaro, organaro e liutaio italiano. Fu uno dei più famosi costruttori di clavicembali del suo tempo. È stato l'inventore del fortepiano, principale precursore del pianoforte.

Biografia
La chiesa di San Luca Evangelista, dove il 6 maggio del 1655 venne battezzato Bartolomeo Cristofori

Nacque a Padova il 4 maggio 1655 dall'unione di Francesco Cristofori e Laura. Venne battezzato nella chiesa di San Luca Evangelista il 6 maggio e per padrini ebbe il signor Camillo Chinoni e la signora Lina Pani, che lavorava a servizio della nobildonna Laura Papafava. Della sua infanzia e della vita padovana si sa ben poco, se non che il lavoro come cembalaro fruttò al Cristofori una grande notorietà, tanto da venire chiamato al servizio dal principe Ferdinando de' Medici, figlio dell'allora granduca di Toscana Cosimo III, grande amatore degli strumenti musicali ed esperto clavicembalista. Ferdinando incontrò probabilmente il padovano durante uno dei suoi numerosi viaggi nell'Italia settentrionale, verso il 1688. Furono forse i Papafava stessi a dare appoggio al cembalaro per l'importante ruolo propostogli nella città di Firenze.

L'attività fiorentina è testimoniata dal nutrito carteggio mediceo, che ci restituisce un Cristofori impegnato nella costruzione e nel trasporto di strumenti: spinette, clavicembali (quello in cipresso pagato 597 lire nel 1692), ma anche organi e strumenti ad arco. Tra le varie commesse del duca Ferdinando ci fu quella di un nuovo strumento, che percuotesse le corde anziché pizzicarle. Tra prototipi e sperimentazioni, gli strumenti - i fortepiani 'di nuova invenzione' definitivi del Cristofori - uscirono attorno agli anni Venti del Settecento, ossia dopo la morte del mecenate mediceo, avvenuta il 30 ottobre 1711, quando il padovano continuava a lavorare presso la corte come costruttore e curatore della crescente collezione di strumenti dei Medici, senza esimersi dal soddisfare commesse private.

Dei tre fortepiani del Cristofori giunti fino a noi, spicca quello del 1722, appartenuto dapprima a Benedetto Marcello, quindi al fratello Alessandro che lo lasciò in eredità alla cugina contessa Lucia Cittadella Rapti, poi passato ai conti Giusti di Padova ed ora conservato nel Museo degli strumenti musicali di Roma.
Fortepiano costruito da Bartolomeo Cristofori nel 1722 che appartenne a Benedetto Marcello. Oggi è conservato nel Museo Nazionale degli Strumenti Musicali di Roma.

Tra i suoi allievi spiccano Giovanni Ferrini, che lavorò poi alla corte di Spagna, e Domenico Del Mela, primo costruttore di un fortepiano verticale.

Bartolomeo Cristofori morì a Firenze il 27 gennaio del 1732 nel territorio parrocchiale della chiesa di San Jacopo tra i Fossi, dove venne redatto l'atto di morte, e fu poi sepolto a Santa Croce.

Ci è pervenuta un'unica immagine del cembalaro padovano: l'autore ignoto lo ha ritratto in piedi, accanto ad uno strumento a tastiera, mentre regge un foglio con lo schema della meccanica a martello e la scritta "Bartholomaeus Cristof", mentre sullo sfondo, attraverso una finestra, si estende la città di Firenze. Ritrovata nel 1934, l'immagine venne distrutta con il museo degli strumenti musicali di Berlino, dov'era ospitata; se ne conservano solo alcune riproduzioni.
Strumenti esistenti
Attribuzione certa

spinetta del 1693, Lipsia, Grassi Museum für Musikinstrumente der Universität (ex coll. Heyer, n. 53); la dicitura "Bartholomaeus Cristophori Patavinus / faciebat Florentiae / MDCCXIII" è sulla striscia sopra i tasti.
contrabbasso del 1715, Firenze, Museo del conservatorio "L. Cherubini", n. 41 (B/19): "Bartolomeo Cristofori in Firenze MS Primo" scritto direttamente sul legno del fondo. Originariamente era a quattro corde e manico corto; ora a cinque con manico più lungo, sostituito.
fortepiano del 1720, New York, Metropolitan Museum of Art (ex Crosby Brown coll. n. 1219); sulla parte anteriore del blocco che sorregge la meccanica si legge "Bartholomaeus De Cristophoris Patavinus inventor faciebat Florentiae MDCCXX" e da un lato, in corsivo, "Restaurato l'Anno 1875, da Cesare Ponsicchi Firenze"; si tratta di un esemplare molto alterato nelle sue caratteristiche originali per i ripetuti restauri.
fortepiano del 1722, Roma. Nel Museo degli strumenti musicali, sulla striscia sopra i tasti è inciso "Bartholomaeus De Christophoris Patavinus inventor faciebat Florentiae/ MDCCXXII", esemplare in ottimo stato di conservazione e sostanzialmente integro in tutte le sue parti.
clavicembalo del 1722, Lipsia, Musikinstrumenten Museum, Karl-Marx-Universität (ex coll. Heyer, n. 84); sulla striscia sopra i tasti si legge "Bartholomaeus De Christophoris Patavinus faciebat Florentiae MDCCXXII".
fortepiano del 1726, ibidem (ex coll. Heyer, n. 170); sulla striscia sopra i tasti è inciso: "Bartholomaeus De' Christophoris Patavinus inventor faciebat Florentiae MDCCXXVI".
clavicembalo del 1726, ibidem (ex coll. Heyer, n. 85); sulla striscia sopra i tasti si legge "Bartholomaeus De' Christophoris Patavinus faciebat Florentiae MDCCXXVI".

Attribuzione dubbia

clavicembalo del 1702, a tre tastiere, University of Michigan, Ann Arbor, Mich., n. 1336; con stemma mediceo e dubbia iscrizione. È giudicato unanimemente falso.
clavicembalo del 1703, a tre tastiere, Monaco di Baviera, Deutsches Museum, n. 9232, 201-0.
clavicembalo del 1703, a tre tastiere, Norimberga, Germanisches Nationalmuseum (ex coll. Neupert, n. 122, Bamberga); firmato: "Bartholomaeo Christofori Patavinus fecit Florentiae 1703".
clavicembalo traverso non datato (c. 1725), Lipsia, Musikinstrumenten Museum, Karl-Marx-Universität (ex coll. Heyer, n. 86; già coll. Kraus, n. 543); non firmato né datato, tuttavia attribuito al C. in base ad attinenze costruttive riscontrate operando un confronto con i cembali del 1722 e 1726 sopraricordati, di sicura attribuzione.





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Alessandro Cruto


Alessandro Cruto (Piossasco, 18 marzo 1847 – Torino, 15 dicembre 1908) è stato un inventore e imprenditore italiano.

Completò l'invenzione della sua lampada a incandescenza cinque mesi dopo Thomas Edison.[1]


Biografia
Prima pagina del manoscritto di Alessandro Cruto "L'inventore"

Noto anche come "Tasso", figlio di un modesto capomastro, nacque a Piossasco; si iscrisse ad una scuola di architettura, seguendo nel contempo le lezioni di Fisica sperimentale e di Chimica presso la Regia Università di Torino, perseguendo il sogno di cristallizzare il carbonio per ottenere diamanti.[2]

Costretto dalle ristrettezze economiche della famiglia, seguì il padre nel lavoro edile svolgendo il ruolo di capomastro, ma non rinunciò ai suoi studi e riuscì anche ad aprire un laboratorio nel paese natale nel 1872, dove effettuò test di produzione di carbonio puro dall'etilene in fase gassosa (risultato che raggiunse nel 1874 nella forma di sottili guaine di grafite, sebbene il suo scopo iniziale fosse quello di riuscire ad ottenere dei diamanti).[3]

Dopo aver assistito ad una serie di conferenze tenute da Galileo Ferraris sui progressi dell'elettrotecnica e sugli esperimenti compiuti da Thomas Edison, tesi alla ricerca di un filamento adatto per la sua lampada elettrica, inventò con pochi mezzi un filamento di grafite adatto per le lampade elettriche ad incandescenza con un coefficiente di resistività positivo (che aumenta, cioè, con l'aumento della temperatura).

Il filamento di Cruto è preparato per deposizione di grafite su un sottile filo di platino in atmosfera di idrocarburi; volatilizzato il platino ad alta temperatura, rimane il filamento di grafite purissima.[3] Cruto intuì che la sua scoperta avrebbe potuto essere utilizzata per i filamenti delle lampadine elettriche in sostituzione di quelle in bambù carbonizzato. Con l'autorizzazione del professor Andrea Naccari sperimentò nel 1880 la sua invenzione nel laboratorio di fisica dell'Università di Torino.[3] Raggiunse l'obiettivo di produrre una lampadina funzionante il 4 marzo 1880, cinque mesi dopo Edison,[1] cui è riconosciuta l'invenzione della lampada ad incandescenza, sebbene allo scienziato statunitense siano occorsi poi altri otto anni per ottenere un prodotto commercialmente valido.[3]
Lampadina Cruto

Nel 1882 partecipò all'Esposizione di Elettricità di Monaco di Baviera, dove riscosse un enorme successo per la sua lampadina, il cui rendimento era maggiore rispetto a quella di Edison ed emetteva una luce più bianca di quella giallastra di Edison,[2] successo confermato all'Esposizione Nazionale di Torino del 1884,[3] tanto che Cruto riuscì a vendere il progetto in Francia, Svizzera, Cuba e Stati Uniti.
Targa dedicata ad Alessandro Cruto ad Alpignano

Visto l'enorme successo e l'inadeguatezza del vecchio laboratorio trasformato in fabbrica a Piossasco, decise di trasferire l'attività in un luogo più idoneo. Questo fu trovato ad Alpignano, sulla sponda meridionale della Dora Riparia, dove impiantò nel 1886 (altre fonti indicano il 1885) una fabbrica per la produzione su scala internazionale delle lampadine da lui inventate e ne mantenne la direzione fino al 1889.
Lo stabilimento di Alpignano alla fine dell'Ottocento

L'azienda fu in grado di raggiungere una produzione quotidiana di 1000 lampade, ma questo fatto non riuscì a lenire i forti contrasti fra Cruto e la direzione della società, dalla quale decise infine di licenziarsi per riprendere la sua passione d'inventore.[2]

L'industria, in seguito a numerosi passaggi di proprietà e un fallimento, venne rilevata dalla Philips nel 1927.
Il murale dedicato ad Alessandro Cruto a Torino in Borgata Lesna

Cruto si sposò in tarda età e trascorse l'ultimo periodo di vita oscillando tra la famiglia e il vecchio laboratorio; continuò i suoi esperimenti, come quello per immagazzinare energia atmosferica oppure la creazione di un giocattolo denominato "mosca elettrica".

Alessandro Cruto morì nel 1908, pressoché dimenticato da tutti.
Memoria

Presso il Museo della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci di Milano sono conservati disegni, appunti e scritti di Alessandro Cruto, donati dalla figlia negli anni cinquanta del Novecento insieme a oggetti vari.[4]
L'Ecomuseo di Alpignano, intitolato allo scienziato, conserva diversi oggetti relativi ai suoi esperimenti.
La città di Torino gli ha intitolato una via nel quartiere Barriera di Milano ed un murale nella Borgata Lesna
Gli è stata intitolata la scuola media di Piossasco, suo paese natale.
Gli sono state intitolate una via ad Orbassano, davanti alla scuola media “Leonardo da Vinci”, una via ad Alpignano, dove impiantò la sua fabbrica di lampadine, una via a Roma nel quartiere Portuense, vicino al Lungotevere degli Inventori, ed un'altra ancora a Pisa, nel quartiere Porta a mare.





fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Alessandro_Cruto

 
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Corradino D'Ascanio


Corradino D'Ascanio (Popoli, 1º febbraio 1891 – Pisa, 5 agosto 1981) è stato un ingegnere italiano. Inventò il prototipo di elicottero moderno e fu il progettista della Piaggio Vespa.

Biografia

Nacque nel 1891 a Popoli,[1] comune allora della provincia dell'Aquila, oggi di Pescara in Abruzzo, da Giacomo e Anna De Michele; il palazzo della famiglia si trova sul corso Gramsci, allora corso Vittorio Emanuele, all'angolo con via Venezia. La sua passione per l'allora primordiale scienza aeronautica fu precoce. Nel 1906, a soli tre anni dal primo volo dei fratelli Wright, dopo aver studiato le tecniche di volo e le proporzioni tra peso e apertura alare di alcuni volatili, progettò e costruì una sorta di deltaplano, che usò per lanci sperimentali effettuati dalle colline di Popoli[2].
Gli studi

Frequentò il Regio Istituto Tecnico Ferdinando Galiani di Chieti[1], diplomatosi nel 1909 e volendo intraprendere studi ingegneristici, si trasferì a Torino iscrivendosi al Regio Istituto Superiore d'Ingegneria che all'epoca rappresentava il massimo nel campo dell'ingegneria meccanica. Si laureò nel 1914 in ingegneria industriale meccanica al Politecnico di Torino[1][3].
Gli anni della Grande Guerra

Nel dicembre 1914 si arruolò volontario nell'Arma del Genio nella divisione "Battaglione Aviatori" della città di Torino, dove venne assegnato al collaudo dei motori. Nominato, in seguito, sottotenente di complemento del Genio, il 21 marzo 1915 si occupò della prima installazione di una stazione radio a bordo di un veicolo. In seguito, fu inviato in Francia per scegliere un motore rotativo da produrre in Italia; iniziò così la produzione dei motori "Le Rhone"[4].

Allo scoppio della prima guerra mondiale, D'Ascanio seguì un breve corso di pilotaggio per Maurice Farman MF 1914, conclusosi senza il conseguimento del brevetto a causa dei molteplici impegni che lo assorbivano in quel periodo. In seguito, venne destinato al fronte per occuparsi della manutenzione e sorveglianza del materiale assegnato alle squadriglie di volo, modificò circa 40 biplani Caudron che con il freddo venivano bloccati a terra dal congelamento dell'olio lubrificante. Nel 1916 fu congedato temporaneamente e assegnato all'Ufficio Tecnico della Società per costruzioni aeronautiche Pomilio (in quegli anni impegnata nella fabbricazione degli apparecchi S.P.2, Tipo C, Tipo D e altri). Collaborò con Ottorino Pomilio, ingegnere e pilota, oltre che conterraneo ed amico, alla costruzione di numerosi prototipi di aerei da caccia e da combattimento.[1]

Nel 1917 Corradino si fidanzò a Popoli con Paola Paolini, nipote del Generale Giuseppe Paolini. Anche in quell'occasione dimostrò la sua grande inventiva: volendo comunicare con la sua fidanzata, durante i brevi periodi di licenza a Popoli, installò due telefoni a batteria, uno in casa sua e uno in casa di Paolina, e li collegò alla rete elettrica comunale di illuminazione che allora erogava tensione nelle sole ore notturne. Corradino e Paolina si sposarono il 20 ottobre 1917: dalla loro unione nacquero Giacomo nel 1922 e Giorgio nel 1927[5].
L'esperienza Americana

Nel gennaio 1918 si trasferì a Indianapolis negli Stati Uniti,[1] al servizio della neonata "Pomilio Brothers Corporation", costruendo due apparecchi.[1] Ben presto i rapporti con la società s'incrinarono ma D'Ascanio non si scoraggiò e percorse altre strade nel campo dell'industria aeronautica statunitense e costituì una società aeronautica con l'ing. Ugo Veniero D'Annunzio, figlio di Gabriele D'Annunzio e allora progettista presso la Caproni Airlines di Detroit,[1] per la realizzazione di un aeroplano equipaggiato con un motore di motocicletta Harley Davidson. L'avventura americana non ebbe tuttavia i risultati sperati e nel settembre 1919 Corradino D'Ascanio, deluso, fece ritorno in Italia.
L'edilizia civile a Popoli
Il monumento ai caduti nella città di Popoli realizzato da D'Ascanio

Al suo rientro insediò uno studio di ingegneria civile e industriale a Popoli,[1] dove ebbe un'intensa attività di progettazione per l'industria privata e nel settore delle opere pubbliche. Si occupò di vari progetti di ingegneria civile, come ad esempio la sistemazione della Piazza Giuseppe Paolini con il monumento ai caduti o, dietro invito del pretore di Popoli, della perizia sul tronco di linea elettrica nei pressi del bosco del Castello di Popoli "dichiarando se tale tronco è fatto secondo le norme dettate dalla scienza e dalla pratica". Gli anni popolesi furono anni fecondi, con decine di brevetti degli anni venti tra i quali troviamo il "forno elettrico a media capacità termica per cottura di pane e per pasticceria" o la "macchina elettropneumatica per la catalogazione e ricerca rapida di documenti", una macchina che utilizza delle schede perforate per l'azionamento di circuiti elettrici[6].
Elicotteri
Il barone Camillo Trojani e D'Ascanio con le maestranze davanti al prototipo di elicottero D'AT1 presso l'officina della fonderia Camplone, 19 maggio 1926. L'attività iniziò con la progettazione di alcuni prototipi di elicotteri realizzati nelle officine meccaniche di Giuseppe Camplone.[7]
Corradino D'Ascanio davanti al prototipo di elicottero D'AT2 presso le officine della fonderia Camplone, Pescara 1926.

Sebbene lo studio popolese gli rendesse bene, l'idea del volo non lo abbandonò mai e anche da Popoli mantenne un legame con il mondo dell'aviazione. Continuò sempre gli studi ed esperimenti legati al mondo del volo, e nel biennio 1923-24 è documentata ad esempio una spesa di 266.510 lire per lo studio di un ortottero. Nel 1925 fondò una Società con il barone Pietro Trojani di Pescosansonesco, che credette subito nel progetto dell'elicottero e mise a disposizione il suo patrimonio, con lo scopo "di far sorgere e prosperare un'industria aviatoria in questa industriosa zona d'Abruzzo". Dallo studio incessante di D'Ascanio sul volo verticale nacque, il 7 aprile 1925, il brevetto dell'elicottero a due eliche coassiali.[1] Tra il 1925 e il 1930 sono numerosi i brevetti della nuova società relativi al mondo aeronautico e non solo[8][9].

Nel 1925 venne avviata la costruzione e l'assemblaggio dei pezzi meccanici che componevano l'elicottero. In base a un accordo con Eugenio Camplone, i pezzi furono prodotti presso le omonime officine di Pescara. In cambio, D'Ascanio progettò per le Officine Camplone macchine industriali e agricole come torchi per frantoi. Nacquero nel cortile delle officine Camplone a Pescara i prototipi dell'elicottero D'AT1 e D'AT2. Entrambi volarono per pochi secondi e poi ricaddero a terra. I prototipi consentirono a D'Ascanio di progettare un nuovo elicottero, molto superiore ai precedenti[10].
Il D'AT3
L'elicottero D'Ascanio
L'elicottero D'Ascanio in volo

Il terzo prototipo, il D'AT3 (la sigla sta per D'Ascanio-Trojani-3), commissionato dal Ministero dell'aeronautica per un importo di 600.000 lire fu realizzato nelle officine del Genio Aeronautico a Roma. Le prove di volo vennero effettuate nell'aeroporto militare di Ciampino Nord, il pilota collaudatore fu il maggiore Marinello Nelli (primo in assoluto a sperimentare il volo verticale). Nell'ottobre del 1930 il D'AT3, con un motore Fiat A.50 S HP90 conquistò i primati internazionali di:

durata del volo con ritorno senza scalo 8'45" (8 ottobre 1930)
distanza in linea retta senza scalo m 1078,60 (10 ottobre 1930)
altezza sul punto di partenza m 18 (13 ottobre 1930)[11]

I primati di volo stabiliti da questo primo elicottero moderno rimarranno imbattuti per alcuni anni. La Domenica del Corriere dedicò all'evento la sua copertina, mentre tutti i quotidiani riportarono la notizia in caratteri cubitali. L'elicottero venne brevettato in quasi tutti i Paesi Occidentali e in Giappone, ma, nonostante l'interesse della Regia Marina e l'incoraggiamento verbale del capo del governo, Benito Mussolini, i finanziamenti non vennero rinnovati e il D'AT3 venne abbandonato nell'hangar dirigibili di Ciampino. La realizzazione dell'elicottero esaurì i capitali messi a disposizione dal barone Trojani, mentre tramontarono, una dopo l'altra, tutte le prospettive di perfezionamento del prototipo e del suo sfruttamento commerciale.

Vittorioso con il suo elicottero prototipo, ma senza prospettive commerciali, D'Ascanio nel 1931 si trovava in una condizione di quasi povertà. La dedizione al volo verticale fu pagata a caro prezzo.
L'elica a passo variabile

D'Ascanio, grazie al suo elicottero, divenne il massimo esperto italiano di eliche a passo variabile in volo. A quel tempo, anche l'industria aeronautica iniziava ad averne bisogno per le crescenti prestazioni degli aerei. Fu grazie alle competenze maturate con il D'AT3 che su D'Ascanio si concentrarono le attenzioni della Sezione Aeronautica della Società Rinaldo Piaggio.

Nel 1932 D'Ascanio cominciò un'attività di consulenza tecnica con la Piaggio. L'elica salvò appena in tempo il giovane ingegnere dal disastro economico, aveva contratto numerosi debiti e aveva dovuto attingere anche alla dote della moglie. L'elica a passo variabile ben presto lo portò dal baratro all'agiatezza economica: D'Ascanio infatti percepiva mille lire per ogni pezzo realizzato. La richiesta di eliche incrementò ben presto negli anni pre-bellici e bellici. Le eliche Piaggio-D'Ascanio vennero in pochi mesi montate sui migliori aerei italiani, Macchi e Caproni. Dietro il record mondiale di altezza del colonnello Mario Pezzi, che raggiunse i 17.000 metri, e il suo biplano Caproni Ca.161bis dotato di motore Piaggio P.XI RC.100/2v c'erano le eliche D'Ascanio, che in quell'occasione introdusse anche il respiratore con ossigeno liquido per il pilota.
L'elicottero PD3
Relazione tecnica dell'ing. Corradino D'Ascanio sul nuovo elicottero PD3 a una sola elica, Pontedera (PI) 1949. Il prototipo, realizzato nel 1943, era stato momentaneamente accantonato e i voli ripresero soltanto nel 1949.

Gli anni precedenti la seconda guerra mondiale consentirono a D'Ascanio di lavorare con una certa tranquillità economica nell'ambiente giusto per la sua creatività nel campo dell'aviazione. La sua passione fu tutta per l'elicottero, ma in Piaggio all'inizio l'interesse per questa macchina era praticamente nullo. Nel 1935 venne progettato un nuovo elicottero per il Ministero dell'aeronautica: il PD2 (Piaggio-D'Ascanio2). Del prototipo PD1 che aveva ancora i rotori coassiali non si hanno molte notizie. Nel 1937 il PD2 non era ancora pronto, tramontò così la scommessa dell'Aeronautica. Nel 1939 progettò e realizzò il PD3 che aveva un solo rotore e l'elica di contro-coppia in una configurazione che rispettava quella dei moderni elicotteri. Sebbene questo approccio non fosse inedito, non era ancora stato studiato nei dettagli. D'Ascanio non ebbe però la fortuna di Igor Sikorsky che riuscì a convincere la United Aircraft a sviluppare i suoi progetti. Lo sviluppo del PD3 andava a rilento, era scoppiata la guerra e non c'era interesse nell'invenzione da parte dell'Aeronautica. Il PD3 rimase così a terra fino al 1942, quando fu provato in volo e subito dopo ricoverato in un capannone a Buti[12].
L'elicottero PD4
Fase di decollo del prototipo di elicottero PD4 prodotto dall'azienda Piaggio, Pontedera (PI) 05 agosto 1952. Questo elicottero era stato progettato da Corradino D'Ascanio per usi civili e militari ed era dotato di due rotori in tandem. A seguito di un incidente in fase di collaudo l'elicottero venne gravemente danneggiato e l'azienda Piaggio decise d'interrompere le sperimentazioni.

Nell'aprile del 1948 D'Ascanio ricevette l'invito a partecipare al IV congresso per l'elicottero organizzata dalla American Helicopter Society. Fu accolto come il pioniere del volo verticale e il suo entusiasmo per l'elicottero riprese. Al suo ritorno in Italia riuscì a convincere Enrico Piaggio a riprendere gli studi. Nel 1949 rinacque il PD3, recuperando tutto ciò che era possibile dalla prima versione, il PD3 volò fino al febbraio 1951, quando un incidente mise fine alla storia di questo sfortunato prototipo. L'incidente non raffreddò l'entusiasmo di D'Ascanio e nemmeno quello di Enrico Piaggio, che chiese la realizzazione di un elicottero con due rotori in tandem. Nel 1951 iniziò il progetto del PD4. Sin dalle prime prove si evidenziò che la potenza installata era insufficiente; di conseguenza la governabilità ne veniva a soffrire. L'elicottero fu alleggerito rimuovendo la carenatura e gli esperimenti continuarono fino al 5 agosto 1952, quando fu sfiorata la tragedia; fortunatamente non ci furono perdite umane, ma l'incidente segnò la fine del PD4. La bontà del progetto era evidente, ma era anche evidente che andavano eseguiti altri tentativi e investimenti. Enrico Piaggio non era disposto a sostenere ulteriori investimenti, tutti gli sforzi dell'azienda di Pontedera erano rivolti alla Vespa, lanciatissima in tutta Europa.
L'ultimo elicottero D'Ascanio

D'Ascanio rimase in Piaggio fino al 1961, anno del suo pensionamento, e restò consulente dell'Azienda per ciò che riguarda la Vespa. Ufficialmente, non farà più elicotteri in Piaggio, ma nel garage della sua abitazione (a volte usufruendo delle officine Piaggio) portò avanti la costruzione di un minuscolo elicottero per uso agricolo, per l'irrigazione dei campi, economico e alla portata di tutti: la Vespa dell'aria. Questo elicottero fu pronto il 20 luglio 1970, aveva soluzioni innovative come le pale in vetroresina, ma anche questo piccolo gioiello dell'inventore abruzzese non trovò committenti e volò nel solo giardino di casa D'Ascanio.
La rinascita del D'AT3

Nel 1975 l'Aeronautica militare, sollecitata dal generale Domenico Ludovico, procedette alla costruzione della replica a grandezza naturale del D'AT3 presso l'aeroporto di Pisa in base ai disegni originali e sotto la direzione dello stesso ing. D'Ascanio. A questo elicottero del 1930 l'ingegnere rimase attaccato come a un figlio: lo cercò inutilmente nell'immediato dopoguerra tra i relitti e le macerie dell'aeroporto di Guidonia. Il nuovo D'AT3 è conservato insieme al piccolo elicottero ad uso agricolo nel Museo Storico dell'Aeronautica Militare di Vigna di Valle.
Piaggio Vespa
Lo stesso argomento in dettaglio: Piaggio Vespa.
Vespa modello primavera
Lettera di Corradino D'Ascanio sulla presentazione della Vespa a una ditta americana, New York 19 maggio 1948. Con la Sears, Roubuk & Co la Piaggio firmò un accordo per la commercializzazione e distribuzione della Vespa. Il modello immesso sul mercato americano fu la 125U, ribattezzata Vespa Allstate.

Nel 1945 la seconda guerra mondiale è finita e ha colpito duro. L'Italia è in ginocchio, la maggior parte delle fabbriche sono distrutte.

Anche la Piaggio è alle prese con i problemi del dopoguerra, c'era da risolvere il problema della riconversione degli stabilimenti ad una produzione di pace. Enrico Piaggio ebbe la geniale intuizione: costruire un motociclo, a basso costo, in pratica accessibile a tutti. Affidò inizialmente il compito della progettazione all'ingegner Renzo Spolti che realizzò l'MP5 soprannominato Piaggio Paperino. L'MP5 non piacque a Piaggio e nell'estate del 1945 chiamò D'Ascanio che affrontò il problema con una mentalità del tutto nuova[13].

D'Ascanio non amava le motociclette, non se n'era mai occupato dal punto di vista costruttivo e come veicolo non gli piaceva. Pensò a un mezzo per chi non era mai salito su una motocicletta e odiava la sua guida difficile: ideò così la Vespa.

Il primo modello del leggendario motociclo, la 98, fece la sua comparsa ufficiale nel 1946 quando venne esposto al salone del ciclo e motociclo di Milano e fu subito un successo. Insieme alla Lambretta, che nacque l'anno dopo, cambiarono lo stile di vita degli italiani[14].

Il modello "Vespa" rappresentò un fenomeno commerciale e di costume, in Italia come all'estero, che oltre alla sua funzione di mezzo di trasporto, avrebbe influenzato irrimediabilmente anche il cinema ed i mass media, ispirandoli con un nuovo messaggio di libertà ed indipendenza: memorabili e da premio Oscar sono le scene del film Vacanze romane del 1953, che vedono una Audrey Hepburn avvinghiata alla schiena di Gregory Peck in sella ad una Vespa per le strade di Roma.[15] Per non citare le influenze che tale invenzione ebbe anche sulla letteratura, ispirando una serie di libri dove la Vespa viene indicata quasi come "oggetto di culto"[16].

Brevettata dalla Piaggio nel 1946 e poi prodotta l'anno seguente con un motore a tre marce da 100cc.[17], la Vespa, anticipando l'avvento definitivo dell'automobile, rappresentò di fatto il mezzo della prima motorizzazione di massa in Italia[18].

Nei 50 anni della sua storia la Vespa diverrà lo scooter più famoso al mondo, con 16 milioni di esemplari prodotti in 130 modelli diversi al 2005[19].
Ultimi anni
Casa natale di Corradino D'Ascanio a Popoli

Nel 1961 Corradino sposò in seconde nozze Amalia Manetti, l'amata Paolina era morta ancora giovane nel 1939 per le conseguenze di un intervento chirurgico. Dopo tante privazioni fece appena in tempo a intravedere i successi, anche economici, del marito. Sempre nel 1961 concluse l'attività di docente dell'Università di Pisa dove insegnò Meccanica e Disegno Industriale.
Targa apposta sulla casa natale di Corradino D'Ascanio, corso Gramsci

Nel 1964 sottoscrisse un contratto di consulenza con la società Agusta che porterà alla progettazione di un aliante per addestramento dei piloti di elicotteri con l'intento di spendere molto meno di quello che costava l'addestramento su un vero elicottero. Il progetto non arrivò mai alla fase realizzativa.

D'Ascanio morì a Pisa il 5 agosto 1981 e venne sepolto a Popoli nel cimitero comunale nella tomba di famiglia, che lui stesso disegnò, al fianco della moglie Paola morta prematuramente[20]. D'Ascanio ebbe un grande rammarico: passò alla storia come l'ideatore della Vespa, ma pochi ricordano che fu anche un pioniere degli elicotteri. Attualmente, a suo nome è intitolato un liceo scientifico[21][22], a Montesilvano (PE) e tutta la scuola ha celebrato la figura di D'Ascanio con numerose mostre e rappresentazioni. Popoli gli ha dedicato una strada e un museo nella sua casa natale in Corso A. Gramsci, dove è presente una mostra permanente sulla sua figura. Pisa ha operato sul piazzale antistante l'aerostazione Galileo Galilei.
Archivio

L'archivio D'Ascanio è stato depositato presso l'Archivio di Stato il 20 marzo 1996 dalla Sovrintendenza Archivistica per l'Abruzzo. Si tratta di documentazione relativa alla vita e all'attività esercitata dall'ingegnere abruzzese. Altra documentazione è consultabile presso l'archivio privato Troiani, a Torre de' Passeri. Nel riordinamento sono state individuate diverse fasi: l'attività svolta presso le industrie di Pomilio, quella riconducibile alla società fondata con il barone Troiani, la terza riferibile alla consulenza presso la Piaggio, infine alla collaborazione con la società Agusta di Gallarate.[23]
Filmografia

Enrico Piaggio - Un sogno italiano, regia di Umberto Marino - film TV (2019)

Onorificenze
Stella al merito del lavoro - nastrino per uniforme ordinaria
Stella al merito del lavoro
— 1º maggio 1958
Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana - nastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana
— 26 ottobre 1976[24]
Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte - nastrino per uniforme ordinaria
Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte
— 1961

1931, Medaglia d'oro del Reale Aero Club d'Italia per i tre record mondiali dell'elicottero
1950, Medaglia d'oro del Ministero dell'aeronautica per i primati dell'elicottero del 1930
1950, Medaglia d'oro per i record di velocità della Vespa a Montlhery
1965, Ala d'onore dei Pionieri d'Aeronautica
1970, Medaglia d'oro, premio Fibonacci, della Camera di Commercio di Pisa, per aver ideato e costruito l'elicottero nel 1930, l'elica a passo variabile del 1932, la vespa e derivati nel 1945



fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Corradino_D%27Ascanio

 
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Marco Dané


Marco Dané (La Spezia, 25 aprile 1944) è un autore televisivo, pedagogista e regista teatrale italiano

Biografia

Si è diplomato maestro specializzandosi sul campo nel rapporto con gli alunni con handicap mentale e in particolare nell'autismo, per laurearsi poi in lettere moderne. A vent'anni si è trasferito a Roma, dove ha iniziato la sua carriera televisiva.

Il fratello Roberto Dané era un produttore discografico.
Anni sessanta

Dané ha debuttato nel 1963 come attore presso il Piccolo Teatro Città della Spezia con La mandragola di Niccolò Machiavelli e Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare.

Prima di trasferirsi a Roma è stato chiamato dalla Scuola Editrice di Brescia come docente nei corsi di formazione per insegnanti di scuola elementare. A Firenze, sempre come docente, ha partecipato ai corsi del CEMEA (Centri d'esercitazione ai metodi dell'Educazione attiva) dirigendo anche soggiorni estivi per adolescenti.

Nel 1969 è stato chiamato, dopo un provino, dal Programma nazionale della Rai come conduttore e coautore della trasmissione per bambini Il paese di Giocagiò, i cui autori principali erano Gianni Rodari e Marcello Argilli.
Anni settanta

Nel 1970/71 ha condotto "Il gioco delle cose" (proseguimento del "Paese di Giocagiò dal Centro di produzione Rai di Napoli) di cui ha scritto la sigla finale per la musica di Roberto De Simone. Dal 1973 al 1979 è stato autore e conduttore, sui due canali Rai, di molte edizioni di Telescuola. Dal 1979 al 1981 ha condotto su Rai 2 il telegiornale per ragazzi Trentaminutigiovani, lo stesso che ha visto iniziare la carriera televisiva di Alessandro Cecchi Paone.
Anni ottanta

Dal 1982 al 1986 è stato coautore e conduttore, sempre sulla seconda rete RAI, della trasmissione per giovani Tandem, insieme a Enza Sampò, Fabrizio Frizzi, Claudio Sorrentino, Roberta Manfredi, sempre per la regia di Salvatore Baldazzi. Nel contenitore pomeridiano del programma, tra gli altri giochi e interventi, Dané ha svolto il ruolo di giudice per il gioco Paroliamo, che condurrà anche in proprio, oltre Tandem, fino al 1989, confluendo in Mente fresca, con ospite fisso Roberto Vacca e la sua rubrica Parole per l'avvenire. Tutti i quiz televisivi condotti in questi anni riscuoteranno successo, grazie anche alle rispettive versioni commerciali in giochi da tavolo.[1] Nel 1983 Dané ha vinto il Microfono d'Argento, premio assegnato dal pubblico televisivo e il Premio Chianciano della critica televisiva.
Anni novanta

Dal 1990 si dedica prevalentemente all'attività di autore per la TV. Dal 1990 al 1995 ha curato vari giochi televisivi, tra cui una versione facilitata di Paroliamo, all'interno di Non è la Rai su Canale 5, per la regia di Gianni Boncompagni.

Nel 1997 e 1998 è stato tra gli autori di Domenica in, condotto da Fabrizio Frizzi. Sempre nello stesso anno ha collaborato alla trasmissione di Canale 5 Superboll condotta da Fiorello.
Anni duemila

Nel 2000 ha inventato "Syncro", un gioco didattico edito dalla Garzanti che ha venduto circa 25 000 copie. Il gioco riguardava sinonimi e contrari e campi semantici (famiglie di parole).

Nel 2001 è stato coautore di Kilimangiaro, condotto da Licia Colò. Dal 2001 al 2003 è autore del canale satellitare RaiSat Album con il quale ha ripercorso la storia della televisione italiana.[2] Nel 2003 è diventato Direttore generale dell'istituto per minori della Sacra Famiglia di Roma, incarico tenuto sino al 2011.

Dal 2004 è giurato in varie edizioni del Festival Internazionale del Cinema Naturalistico e Ambientale nato a Teramo nel 1998. Nel 2010 ha collaborato per i libri del Corriere della Sera alla pubblicazione Brain Trainer, venti numeri con dispensa e DVD per capire meglio il funzionamento del cervello umano. Dané era il protagonista di una fiction e interpretava se stesso intento a spiegare a un gruppo di persone come usare al meglio la propria mente.

Ha preparato e portato in scena uno spettacolo dal titolo Parole ed emozioni, incentrato sulle più famose poesie dell'Ottocento e del Novecento. L'ultima parte dello spettacolo è intitolata Quando la canzone diventa poesia, ed è dedicata a celebri autori di canzoni come Fabrizio De André, Giorgio Gaber, Leo Chiosso.

Nel 2021 ha pubblicato un libro dedicato ai bambini delle scuole elementari, intitolato 30 Filastrocche, con le illustrazioni di Dalisca.

Nel 2023 ha pubblicato su play store una app, un gioco di parole dal titolo TANDEM MDP. Il gioco è utile per allenare la mente e per implementare il nostro bagaglio lessicale.
Vita privata
Sposato, ha due figli.





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Luca de Samuele Cagnazzi


Luca de Samuele Cagnazzi (Altamura, 28 ottobre 1764 – Napoli, 26 settembre 1852) è stato un politico, scienziato e arciprete italiano. Apparteneva alla nobile famiglia dei de Samuele Cagnazzi e in alcune sue opere si occupò anche di meteorologia, sotto impulso del suo amico Giuseppe Maria Giovene,[1] e di pedagogia ed è stato l'inventore del tonografo.[2]

Biografia
I primi anni

Luca de Samuele Cagnazzi nacque ad Altamura nella notte tra il 27 e il 28 ottobre 1764 da Ippolito de Samuele Cagnazzi e Livia Nesti. In seguito alla morte prematura del padre, avvenuta nel 1767, il giovane Luca, insieme al fratello maggiore Giuseppe, finirono sotto l'egida di Carlo de Marco, un amico del loro padre che ne curò la loro educazione ed avviamento a carriere prestigiose. Il 4 giugno 1772 i due fratelli entrarono nel Collegio di Bari, appena fondato, ove ebbero come insegnanti, tra gli altri, Emanuele Mola, Filippo Farchi, e Nicola Fiorentino. Il direttore e Luigi Sagrariga Visconti. Cagnazzi uscì dal collegio nell'ottobre del 1779.[3]

Cagnazzi ricevette in collegio solo un'istruzione basilare in matematica, studiando solo geometria piana, logica e "cronologia". Continuò a studiare presso l'Università degli Studi di Altamura con il professor Giuseppe Carlucci, con cui terminò "il resto del corso filosofico", mentre studiò diritto con il professor Domenico Castelli della stessa università.[3]

Cagnazzi dovette studiare la matematica principalmente da autodidatta, fatta eccezione per i rudimenti del Collegio di Bari. Lo studio della matematica avanzata, come ad esempio l'analisi infinitesimale, era all'epoca ignorato nel Regno di Napoli, "avendomene solamente eccitato il desiderio Fiorentini", e studiò per conto proprio il Compendio d'analisi di Girolamo Saladini, pur incontrando notevoli difficoltà nelle equazioni di grado superiore al secondo. Per risolvere tali difficoltà, Cagnazzi ebbe una corrispondenza epistolare con lo stesso Saladino, il quale tra l'altro gli consigliò di studiare la sua opera principale, le Institutiones Analyticae, scritta insieme a Vincenzo Riccati.[3]

Successivamente Cagnazzi si spostò a Napoli, dove proseguì i suoi studi e fu avviato alla carriera ecclesiastica. I suoi insegnanti furono, il canonico Ignarra, Marino Guarani e Francesco Conforti. A Napoli, Cagnazzi comprese di essere particolarmente preparato in matematica in confronto ai suoi coetanei, tanto da essere paragonato ai più bravi matematici di Napoli. Come lui stesso afferma, "il solo che mi faceva ombra era Annibale Giordani." A Napoli, Cagnazzi ebbe modo di studiare matematica e le scienze e scambiare opinioni con i luminari napoletani, ma dovette studiare anche a malincuore diritto e teologia dal momento che il marchese Carlo de Marco teneva conto del suo studio; questa sorta di conflitto tra disciplina amate e discipline odiate e imposte a malincuore compare più volte al'interno della sua autobiografia, e dalla sua stessa esperienza si apprende come tale situazione fosse molto comune ai suoi tempi; qualche suo conoscente aveva addirittura sviluppato una specie di malattia derivata dall'imposizione di discipline non congeniali con la propria vocazione.[4] Già dalla sua giovinezza, Cagnazzi cominciò ad avere dei problemi di salute; essi furono di vario tipo (dolori al fianco, febbre ecc.) e sono tutti documentati dettagliatamente all'interno della sua autobiografia. Alcune malattie furono probabilmente dovute ai suoi viaggi, intensificatisi a partire dal 1799.[4]
Il ritorno all'Università di Altamura

In seguito a un dolore al fianco sinistro, gli fu consigliato dal medico Domenico Cotugno di ritornare nella propria città Altamura. Nell'università di questa città mancava un'insegnante per la cattedra di matematica. Cagnazzi convinse il rettore Gioacchino de Gemmis a inserire una cattedra di matematica, dal momento che fino ad allora vi era solo un insegnamento di geometria piana. Dopo alcuni esami che Cagnazzi dovette ottenere dal Cappellano Maggiore, Cagnazzi ottenne nel 1787 la cattedra di matematica ma ebbe a pentirsene in seguito volendo piuttosto ritornare nella capitale, ma era già "Canonico di Altamura ed ordinato in sacris".[5]

Cagnazzi ebbe in seguito la possibilità di ritornare a Napoli, dove poté approfondire le sue conoscenze in ambito mineralogico con l'aiuto di Alberto Fortis, col quale Cagnazzi rimase in contatto anche dopo il suo ritorno in Lombardia (inverno 1789) attraverso una fitta corrispondenza e uno scambio di minerali.[6]

A febbraio del 1790, mentre era a Napoli, Cagnazzi fu nominato Primicerio della Cattedrale di Altamura e "dovei dottorarmi nella maniera ridicola che si praticava nel Collegio del Principe di Avellino". A giugno dello stesso anno ritornò ad Altamura e cominciò a insegnare "il corso filosofico naturale e razionale", andando a sostituire Giuseppe Carlucci, che insegnava il suddetto corso. Cagnazzi descrive Carlucci come "ben istituito nelle materie ecclesiastiche e di filosofia razionale" e sprezzante della superstizione "che si promoveva da sciocchi preti".[7]

Negli anni tra il 1790 e il 1799 ritornerà abbastanza spesso a Napoli e negli stessi anni gli saranno offerte cariche ecclesiastiche importanti (incluso il vescovado) che Cagnazzi sistematicamente rifiuterà. Nella sua autobiografia, afferma: "Confesso che io non disprezzava il vescovato, ma non voleva molto giovane ligarmi ad una vita molto circospetta, come quella di un Vescovo".[8]

Nell'estate del 1798, Cagnazzi dovette ritornare ad Altamura e intanto "si prevedeva la prossima invasione de' francesi nel Regno". Il governo napoletano voleva allora comprendere quanti uomini adatti alle armi ci fossero nel Regno di Napoli al fine di farne un esercito che ne contrastasse l'invasione. La Segreteria dell'ecclesiastico possedeva dei dati relativi ai matrimoni e ai nati del regno senza alcun'altra informazione a corredo dei dati. L'Ufficiale Maggiore allora si rivolse a Cagnazzi il quale diede la sua prima dimostrazione di abilità nei calcoli e, da quel momento, la sua competenza tecnica lo rese molto apprezzato e richiesto dal governo napoletano. In poche ore e applicando il "calcolo per probabilità secondo le teorie statistiche" partendo dai soli dati di cui sopra, Cagnazzi calcolò il numero di uomini adatti alle armi e, in aggiunta ricavò altre utili informazioni "necessarie al buon Governo di una Nazione". Cagnazzi redasse una tavola da presentare direttamente al re di Napoli e, come lui stesso racconta, "non dovei poco combattere per apporci il titolo Tavola Statistica, sembrando capriccioso allora un tale titolo, tanto era qui ignota la Scienza statistica".[9]
Il 1799 e la Rivoluzione altamurana
La bandiera della Repubblica Napoletana del 1799

Nella vita di Cagnazzi, l'anno 1799 può essere sicuramente considerato un anno spartiacque nella sua vita. Infatti quella che fino ad allora era stata una vita sostanzialmente tranquilla e dedicata allo studio si tramutò in una serie di peregrinazioni e di situazioni assai pericolose, in cui Cagnazzi rischiò più volte anche la vita.Lamiavita}

Agli inizi del 1799, il Regno di Napoli fu attraversato da alcuni sconvolgimenti che portarono alla Repubblica Napoletana del 1799. Molti amici di Cagnazzi come ad esempio Francesco Conforti, Carlo Lauberg, Domenico Cirillo, Giuseppe Leonardo Albanese e Ignazio Ciaja furono messi a capo del governo provvisorio. Cagnazzi si trovava in quel periodo ad Altamura e, secondo quanto scritto nella sua autobiografia, alcuni di essi lo invitarono nella capitale ma Cagnazzi rifiutò di immischiarsi nelle rivolte, considerando che "in tali circostanze, simili all'agitazione de' fluidi ne' vasi, la spuma va per sopra e si suol togliere col cucchiajo".|[10]

Durante i fatti della Rivoluzione altamurana (1799), Cagnazzi fu destinato Commissario del Cantone di Altamura ma ciononostante non accettò subito e si tenne "riservata la carta".

«Intanto i spiriti fervidi della mia patria, tra quali molti studenti che allora vi erano al nostro Liceo, volevano piantare l'albero, e predicavano libertà ed eguaglianza, il che o mal annunziato o mal appreso dal popolo veniva preso per sistema di libertà ed eguaglianza di beni, onde si erano accinti a dare il saccheggio alle case ricche. Io andava una mattina alla chiesa mentre il popolo era a ciò istigato,e fui interrogato da alcuni villani in Piazza, e dissi che la vera libertà ed eguaglianza era quella di Gesù Cristo insegnataci col Vangelo, e progredii alla Chiesa.Lamiavita, p. 17»

Secondo la testimonianza di Cagnazzi, affermazioni di tal genere gli cagionarono l'avversità e inimicizia dei rivoluzionari ("i turbolenti mettevano la mia persona in discredito presso il popolo, come di famiglia nobile e ricca"). Il chirurgo lombardo Attanasio Calderini, che Cagnazzi considerava un ciarlatano, lo fece nominare "Cancelliere della Municipalità" (secondo Cagnazzi lo fece per oltraggiarlo) e Cagnazzi non poté rifiutarsi dal momento che all'epoca era vietato rifiutare le cariche assegnate. Mantenne la carica per otto giorni, dopodiché riuscì a ottenere dal Generale la carica (verosimilmente meno apicale) di Commissario del Cantone.[11] Il racconto di Cagnazzi è confermato dalle memorie di Vitangelo Bisceglia sui fatti del 1799.[12]

Il 22 marzo 1799 giunsero ad Altamura il generale Felice Mastrangelo e il commissario Nicola Palomba, i quali erano stati assegnati a capo del Governo Dipartimentale del Bradano dal governo provvisorio della Repubblica Napoletana. Cagnazzi afferma che questi erano "gente ignorante, turbolenta, sanguinaria ecc. che invece di poter accreditare il sistema repubblicano lo discreditava colle azioni".[11] Da quel momento "scoppiò la più fiera inimicizia tra Altamura e Matera", e "cominciò una guerra civile ne' confini".[13]

Il cardinale Fabrizio Ruffo aveva già raccolto un esercito improvvisato, l'Esercito della Santa Fede, al fine di riportare il regno al precedente governo e si avvicinava a Matera. L'esercito di Ruffo era composto per la maggior parte da calabresi, ai quali si erano aggiunte altre persone dei paesi limitrofi. Cagnazzi definisce i calabresi come "per loro indole sanguinarj e rapaci". Secondo la sua autobiografia, Cagnazzi consigliò di far allontanare Palomba, Mastrangelo e i loro seguaci, di abbattere l'albero della libertà (piantato nel centro della "piazza del mercato" di Altamura) e di arrendersi. Per questo Cagnazzi rischiò di essere arrestato come "traditore della patria", mentre Cagnazzi reputò che sarebbe invece stato "salvatore della patria" se gli avessero dato ascolto.[13]




segue Le peregrinazioni

 
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Le peregrinazioni

Si decise di inviare qualcuno a esplorare le intenzioni del generale francese e Palomba destinò Cagnazzi a ciò. Onde evitare problemi, Cagnazzi accettò l'incarico e, come deciso, Cagnazzi partì con un certo Paolo Nuzzolese in direzione di Molfetta, Barletta e Cerignola per poter parlare col generale francese, "ma i Francesi a marcia sforzata retrocedevano". Mentre Cagnazzi era in procinto di ritornare da Cerignola ad Altamura, incontrò Palomba e Mastrangelo i quali informarono della caduta di Altamura e della loro fuga.[14]

«Quello che avvenne ad Altamura nel saccheggio non mi fermo qui a dirlo avendone altri scritto. Dico solo che sono incredibili le scelleraggini commesse dai Calabresi sotto l'occhio del Cardinale Ruffo.»

(Lamiavita, p. 20)

Cagnazzi, Palomba e Mastrangelo decisero allora di recarsi a Napoli. Giunti a Pomigliano d'Arco, Palomba ostentò "la stessa frenesia di potere repubblicano", mentre Cagnazzi informò i Municipalisti della città dei fatti e dell'imminente caduta della repubblica. Inoltre consigliò loro di mandare deputati dal cardinale Ruffo. A Napoli, Palomba, Mastrangelo e Cagnazzi parlarono col Direttorio, e Cagnazzi espose i fatti e fece "la fedele narrativa delle soverchierie da essi fatte". L'Esercito della Santa Fede nel frattempo si era avvicinato a Napoli e il 12 giugno i sanfedisti si erano accostati al ponte della Maddalena.[15]

A Napoli, Cagnazzi trovò rifugio in casa del sig. Tommaso Montaruli e in compagnia del canonico Giambattista Manfredi. Successivamente Cagnazzi si spostò nella casa del presidente Giuseppe de Gemmis e all'alba del giorno successivo si portò a Castel Sant'Elmo, dove vi erano molti giacobini rifugiati sotto le mura dal momento che non era stato consentito loro di entrare nel castello. Tornò allora a casa di de Gemmis, "con gravissimi pericoli".[16]

«Conobbi in quel punto che io era dotato di molto coraggio ne' pericoli con molta sorpresa. Per le strade si tiravan delle fucilate tra Calabresi e Patriotti, e molti ne vidi cadere da una parte, ma io credei dover camminare moderatamente, senza di che avrei potuto perdermi inevitabilmente»

(Lamiavita, p. 22)

Successivamente, Cagnazzi si spostò a Castellammare di Stabia insieme al cavaliere Giuseppe de Turris (che successivamente sarebbe divenuto marchese) ma in tale città vi erano molti calabresi che avevano preso parte all'Esercito della Santa Fede ed erano persino stati ad Altamura; tali calabresi cominciarono a parlare di Cagnazzi e pertanto dovette fuggire via mare verso Napoli. Successivamente si imbatté in un uomo armato che chiese di unirsi a lui e che successivamente gli puntò uno stiletto alla gola, lo legò e lo derubò di tutto ciò che aveva. Successivamente Cagnazzi e il suo assalitore furono assaliti da altri paesani armati che li condussero in una casa entrambi legati. Il cocchiere, essendo libero, andò a raccontare l'accaduto a cinque soldati di cavalleria nelle vicinanze, i quali battevano alla porta per entrare. I paesani irruppero nella casa e condussero i due nel carcere di Pomigliano d'Arco. Qui un luogotenente che Cagnazzi aveva aiutato in precedenza nonché Attanasio Calderini (dietro lauta ricompensa) effettuarono il riconoscimento e scagionarono Cagnazzi.[17]

Successivamente Cagnazzi si spostò in Calabria e in Sicilia. Il 25 agosto 1799, Cagnazzi si imbarca a Messina su di un "brigantino Dalmatino" diretto a Trieste e Venezia insieme a cinque cavalieri di Malta tra cui il Balì che ritornavano a Trieste. A causa di una tempesta durata tre giorni, il brigantino fu trascinato fino alle coste dell'Africa, correndo anche il rischio di essere attaccati dai corsari barbareschi. In seguito riuscirono a raggiungere l'isola di Zante e approdarono a Corfù e a Trieste. Approdato a Trieste, Cagnazzi dovette soggiornare in tale città per alcuni giorni, essendo stato assalito da una febbre che gli aveva fatto perdere in parte anche l'udito e la vista. Costretto dalla polizia a lasciare Venezia, Cagnazzi, in precarie condizioni di salute, si diresse verso l'Europe settentrionale.[18]

Raggiunse Graz e, non essendogli consentito procedere per Vienna, si diresse verso la Svizzera, armato di una guida con un dizionarietto di tedesco e arrivò a Bressanone e a Bormio. Anchq qui gli fu intimato da un ufficiale russo di ritornare indietro all'istante e pertanto si decise a dirigersi nuovamente a Venezia dove era così malridotto che la Polizia gli consentì di subito di tornare a casa in gondola.[19] Cagnazzi lasciò Venezia il 4 novembre 1799 per poi passare da Bologna, Pistoia e Prato.[20]

In quegli anni, Cagnazzi ricevette anche un'offerta di collaborazione (in cambio di denaro) da parte di una donna e un uomo che rivelarono di essere delle spie francesi che rifornivano "con perdita" l'armata austriaca e nel frattempo ne osservavano le mosse. Cagnazzi rifiutò l'offerta, nonostante la coppia proponesse "qualunque somma".[21]

Arrivato a Firenze, a Cagnazzi viene offerta la cattedra di economia politica.[22] Durante la sua permanenza in Toscana, durata all'incirca un anno,[23] Cagnazzi ebbe modo di conoscere moltissimi illustri letterati e scienziati, tra i quali Vittorio Alfieri e lo stesso Cagnazzi afferma che la dimora in Toscana "fu per me sommamente deliziosa e forma una grata epoca della mia vita. Non vi fu giorno che non vi fosse stato un fatto rimarchevole e che non m'interessasse l'intelletto e il cuore".[24]

Durante le sue peregrinazioni, Cagnazzi riuscì a ricevere denaro dal fratello attraverso un negoziante ebreo e con l'intermediazione del marchese Giuseppe de Turris.[25]
Il ritorno nel Regno di Napoli

In seguito alla morte di sua moglie Elisabetta de Gemmis il fratello Giuseppe de Samuele Cagnazzi chiese a Luca di ritornare a casa dal momento che non vi era più niente da temere grazie alla stipula della pace di Firenze e dal momento che Giuseppe aveva dei figli che avevano bisogno di essere istruiti. Cagnazzi si decise allora a ritornare dalla Toscana, presentandosi a Roma dal cardinale Fabrizio Ruffo, all'epoca ministro di Napoli. Dopo un lungo discorso tra i due, Cagnazzi ottenne il passaporto "senza alcuna clausola".[26] Dopo una breve permanenza in Napoli, dove Cagnazzi riacquisì gli abiti sacerdotali persi durante la Rivoluzione altamurana, giunse ad Altamura il 23 dicembre 1801.[27]
I napoleonidi al trono

Nel 1806, mentre Cagnazzi si trovava ad Altamura e mentre in questa città vi era come governatore Alessandro Nava, ricevette una lettera dal nipote il quale lo informava dell'entrata dei francesi a Napoli. Cagnazzi e il fratello Giuseppe promisero assistenza a Nava, il quale si trovava esposto alle vendette degli altamurani che aveva fatto imprigionare.[28]

In occasione del passaggio di Giuseppe Bonaparte ad aprile del 1806, Cagnazzi aveva rivisto André-François Miot, già conosciuto a Firenze. Miot, già a Matera, chiese a Cagnazzi di recarsi a Napoli, volendolo accanto a lui per via della sua notevoli abilità e conoscenze tecniche ed economiche, ma Cagnazzi afferma nella sua autobiografia che inizialmente rifiutò. Poco dopo, Cagazzi fu inviato a Napoli come componente della Deputazione di Altamura che doveva recarsi a Napoli e il nuovo ministro dell'interno del Regno di Napoli gli intimò di restare.[29] Divenne professore "di prima classe" di economia politica dell'Università degli Studi di Napoli e ricevette anche alcune cariche.[30]

Cagnazzi fu anche coinvolto nella faccenda delle cosiddette "licenze segrete", con la complicità di Gioacchino Murat, il cui scopo era quello di aggirare il blocco continentale.[31]
La Restaurazione

Con il ritorno dei Borbone, Cagnazzi si ritrovò in uno stato di estrema agitazione, "vedendo molti funesti preparativi del popolaccio simili a quelli della rivoluzione dell'anno 1799" e fu apertamente minacciato.[32] Negli anni successivi, Cagnazzi dovette faticare non poco per ricevere incarichi pubblici di un qualche rilievo, sebbene neanche i politici borbonici e lo stesso re volessero rinunciare alle preziose competenze del Cagnazzi. Ampio spazio viene dato, nell'ultima parte della sua autobiografia, all'astio del ministro Nicola Santangelo nei suoi confronti, e Cagnazzi lo considerava estremamente ignorante e disonesto.[33][34]

In occasione dei fatti del 1820, Cagnazzi fu anche accusato in alcune occasioni di essere carbonaro e in altre di essere calderaro.[35] Interessante da un punto di vista storico risulta essere anche la diffusione della satira di cui Cagnazzi parla nella sua autobiografira e diretta in particolare contro il conte Giuseppe Zurlo, derivante dalla promulgazione della costituzione e dalla maggiore libertà di stampa.[36]
Le Riunioni degli scienziati italiani

Dopo essersi ripreso da una malattia, Cagnazzi si mise a costruire con le sue stesse mani uno strumento per la misura dei toni della voce umana a cui diede il nome di tonografo. In seguito a questa sua invenzione, fu invitato alla Terza riunione degli scienziati italiani (1841) dove mostrò il funzionamento del suo tonografo e, come da lui stesso raccontato, fu colmato di lodi. Cagnazzi ebbe modo di partecipare anche alle riunioni degli scienziati successive e, nella sua autobiografia, fornisce dei resoconti molto accurati (persino del cibo consumato durante le cene), di elevato valore storico.[37]

In particolare, durante la Terza riunione degli scienziati italiani, la granduchessa di Toscana Maria Antonia di Borbone-Due Sicilie espresse il suo piacere nel vedere per la prima volta napoletani suoi conterranei a una riunione degli scienziati italiani e affermò che era per opera di Cagnazzi.[38]
La Costituzione del 1848 e il processo
Targa commemorativa di Cagnazzi risalente al 1842 ("Cappellone di San Giuseppe" della Cattedrale di Altamura).[39]

Nel 1847 si verificarono alcuni tumulti a Napoli e re Ferdinando II, pressato dalla popolazione, il 12 gennaio 1847 promise una costituzione "sulla lusinga, che richiamando qui l'armata Tedesca, ossia Austriaca, come nel 21 avrebbero in seguito ripristinato [la monarchia assoluta]".[40]

L'anno successivo si tennero le elezioni per il Parlamento delle Due Sicilie e, a ottantaquattro anni, Cagnazzi fu eletto deputato sia della Provincia di Napoli, sia di quella di Bari; Cagnazzi rinunciò a quella di Napoli e si tenne solo la nomina come deputato della Provincia di Bari.[41] Fu nominato anche Presidente del nuovo Parlamento delle Due Sicilie.

Il 15 maggio 1848, il parlamento (situato nei Chiostri di Monteoliveto) fu circondato da soldati svizzeri e lazzaroni; i deputati (Cagnazzi era in compagnia, tra gli altri del capitano della Guardia Nazionale Giovanni La Cecilia) restarono chiusi nel parlamento fino a ora tarda, dopo il tramonto, temendo molto per la loro vita.[42]

«Ecco per cui io pregai tutti, specialmente qualche giovane esaltato, ad armarsi di coraggio ed attendere il nostro destino. Rammentai allora ai miei colleghi di imitare il Romano Senato [e] di attendere con coraggio i Galli al loro posto.»

(Lamiavita, p. 285)

A ora tarda, dopo il tramonto, due ufficiali, uno svizzero e uno napoletano, li informarono che erano liberi di uscire.[43] In quei momenti Cagnazzi fece voto di pubblicare una nuova edizione della sua opera I precetti della morale evangelica se ne fosse uscito libero e subito ne incaricò Don Vito Buonvento.[44]

Dopo due o tre giorni dal 15 maggio 1848, fu avviato in processo nei confronti di Cagnazzi; poco dopo, seppe che era stato rinvenuto un "foglio ingiurioso [...] in cui si parlava di decadimento di Re Ferdinando dalla corona per avere usato attentato contro il Parlamento".[44] Cagnazzi, sia nella sua autobiografia, sia durante il processo, negò di aver mai firmato tale scritto:

«Io giuro, e prego chiunque leggerà questo scritto che giammai io firmai una tale carta o altra che offendesse la R. Persona da me sempre venerata. Non è difficile imitare la mia firma onde qualche scellerato ha dovuto farla, ma io protesto fermamente avanti a Dio non aver firmato, ripeto, né questa, né altra carta offensiva alla Sovranità. Prego chiunque vorrà fare la mia biografia a far ciò rilevare in ogni tempo.»

(Lamiavita, p. 287)

Onde evitare l'arresto, Cagnazzi lasciò il Regno di Napoli e si diresse verso Livorno, anche se tale peregrinazione non durò molto a causa della sua età avanzata e desiderando passare gli ultimi istanti della sua vita nella sua patria.[45]

Nelle pagine finali della sua autobiografia, scritte presumibilmente nel 1852, afferma che firmò una lettera (probabilmente dal contenuto diverso da quella contestata) diretta al comandante della piazza affinché cessasse il fuoco:

«Allora quasi tutt'i Deputati vennero a premurarmi che fatta avessi una lettera al Comandante della piazza che procurasse far cessare il fuoco, allora io dissi non potendo resistere sulla negativa che avrei firmata la lettera al comandante, perché non vi fosse stato ordine o comando, ma semplice preghiera, in fatti fu concepita una lettera che io credei non fosse criminosa, che io firmai e fu spedita.»

(Lamiavita, p. 299)

Gli storici sembrano concordi nell'affermare che Cagnazzi non firmò il documento in questione, dal momento che anche Silvio Spaventa affermò di non aver firmato il documento durante il processo che seguì i fatti del 15 maggio.[46] Lo storico Cesare Spellanzon, invece, "è dell'opinione che Cagnazzi abbia firmato la Protesta".[46][47][48]

Nelle ultime pagine della sua autobiografia, Cagnazzi afferma che, durante la sua permanenza a Napoli, essendo costretto a restare a casa, fu spesso minacciato dalla polizia borbonica e gli fu chiesto denaro onde evitare peggiori conseguenze. La corruzione della polizia borbonica e la presenza di criminalità diffusa negli anni '40 e '50 dell'Ottocento sono ben documentate, oltre che dal Cagnazzi, anche dalle più recenti ricerche storiche. Questo avvalorerebbe l'ipotesi secondo cui Cagnazzi non firmò alcun documento compromettente e le accuse del processo furono inventate.[49][50]




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