IL FARO DEI SOGNI

Umberto Galimberti

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view post Posted on 28/11/2023, 09:42     Top   Dislike
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« Oggi i giovanissimi sono più soli e più depressi, più rabbiosi e ribelli, più nervosi e impulsivi, più aggressivi e impreparati alla vita, perché privi di quegli strumenti emotivi indispensabili per dare avvio a quei comportamenti quali l’autoconsapevolezza, l’autocontrollo, l’empatia, senza i quali saranno capaci di parlare, ma non di ascoltare, di risolvere i conflitti, di cooperare. »

U. Galimberti, “Gli analfabeti delle emozioni”

 
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Devi capire chi sei.
Perché c’è un mucchio di gente che vive a propria insaputa. Non solo i giovani. Anche gli adulti. Soprattutto loro. I quali sono alienati 5 giorni alla settimana perché realizzano non se stessi ma gli scopi dell’ apparato di appartenenza. E poi la domenica. Il sabato e la domenica che potrebbero rivolgere anche uno sguardo a se stessi, scappano da se stessi come dal peggior nemico. Si mettono in macchina e fanno il week end.
Per distrarsi.. da sè

#UmbertoGalimberti ♥️

 
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“Occorrono insegnanti affascinanti ma non è così. Oggi il ragazzo si deve ritenere fortunato se su nove docenti ne ha due carismatici, e questo è un grosso problema”.

Il filosofo Umberto Galimberti ammira talmente tanto il lavoro svolto dei maestri che ha speso parole benevole nei loro confronti: ”Fanno un lavoro pazzesco, io darei lo stipendio da professori universitari alle maestre e quello delle maestre ai professori universitari”.

 
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A differenza di tutti i popoli della terra, l'uomo occidentale un giorno ha detto "Io". L'ha annunciato Platone e l'ha esplicitato Cartesio. La psicologia ha catturato questa parola e ne ha fatto il centro della soggettività, dispiegando una visione del mondo a partire da questo centro. A mettere in crisi tale centralità fu nell'Ottocento la filosofia romantica. Schelling prima di tutti, e dopo di lui in modo esplicito Schopenhauer, per il quale ciascuno di noi è abitato da una doppia soggettività: la soggettività della specie che impiega gli individui per i suoi interessi, che sono poi quelli della propria conservazione, e la soggettività dell'individuo che si illude di disegnare un mondo in base ai suoi progetti, che altro non sono se non illusioni per vivere e non vedere che a cadenzare il ritmo della vita sono le immodificabili esigenze della specie.
Questa doppia soggettività viene codificata dalla psicoanalisi con le parole "Io" e "inconscio". Nell'inconscio è custodita la verità dell'esistenza, nell'Io e nella sua progettualità l'illusione concessa all'individuo per vivere. La psicoanalisi, quindi, strutturando il suo edificio sulla dialettica tra le due soggettività, che la filosofia romantica ha evidenziato come tratto tipico dell’antropologia occidentale, è un evento del pensiero romantico. La lezione fu accolta da Nietzsche che considera Schopenhauer suo "educatore" e da Freud che lo considera suo "precursore". L'assunto di Schopenhauer è che la vita e la verità non possono coesistere perché, se la verità della vita dell'individuo è nel suo essere strumento della conservazione della specie, l'individuo per vivere deve illudersi, indossando quella maschera che chiama "Io", e quindi fuoriuscire dalla verità della sua vita. Questo è l'annuncio di Schopenhauer, che così toglie la maschera alla filosofia dell'Occidente e apre l'epoca della disillusione.

U. Galimberti, La casa di psiche, Feltrinelli, pp. 29-30

#umbertogalimberti #ArthurSchopenhauer #schopenhauer

 
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Che una dose di egoismo sia necessaria per la sopravvivenza è ovvio, ed è altrettanto ovvio che essa va contenuta, altrimenti diventa distruttiva e autodistruttiva. Ma non è l’egoismo ad avvelenare l’esistenza, propria e altrui. È un suo parente, stretto ma degenere, a guastare più gravemente la vita di un individuo e il suo rapporto con quella degli altri: l’egocentrismo.

L’egocentrico ritiene che il suo problema – il suo lavoro, il suo libro, il suo progetto, le sue idee, la sua situazione sentimentale – sia in assoluto il più importante, anzi l’unico veramente importante, e sotto sotto pensa che pure gli altri, pure i suoi concorrenti, pure Dio dovrebbero preoccuparsi soprattutto di ciò che sta a cuore a lui, del suo bisogno e del suo desiderio, perché la sua pena è umanamente più profonda e la sua sensibilità più dolorosamente vulnerabile di quelle degli altri.

Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo

 
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«Alle persone tristi consiglio la massima storica "substine et abstine". Reggi la sofferenza e astieniti dal metterla in scena. Gli stoici la indicavano come forma da acquisire per rafforzare il carattere. Io la consiglio per non perdere gli amici che dopo un "Su, forza!" ti evitano per non contaminarsi con il tuo dolore, o più semplicemente perché hanno perso la capacità di partecipare al dolore degli altri (finché non capita a loro).»
Umberto Galimberti

 
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L’unica etica possibile è quella del viandante. A differenza del viaggiatore, il viandante non ha meta. Il suo percorso nomade, tutt’altro che un’anarchica erranza, si fa carico dell’assenza di uno scopo. Il viandante spinge avanti i suoi passi, ma non più con l’intenzione di trovare qualcosa, la casa, la patria, l’amore, la verità, la salvezza. Cammina per non perdere le figure del paesaggio. E così scopre il vuoto della legge e il sonno della politica, ancora incuranti dell’unica condizione comune all’umanità: come l’Ulisse dantesco, tutti gli uomini sono uomini di frontiera.
Umberto Galimberti
L'etica del viandante

 
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Conformismo e consumismo hanno messo in circolazione un nuovo vizio che per comodità chiamiamo "spudoratezza", con riferimento non tanto a uno scenario sessuale, quanto al crollo di quelle pareti che consentono di distinguere l’interiorità dall’esteriorità, la parte "discreta", "singolare", "privata", "intima" di ciascuno di noi dalla sua esposizione e pubblicizzazione. Se chiamiamo "intimo" ciò che si nega all’estraneo per concederlo a chi si vuol fare entrare nel proprio segreto profondo e spesso ignoto a noi stessi, allora il pudore, che difende la nostra intimità, difende la nostra libertà. E la difende in quel nucleo dove la nostra identità personale decide che relazione instaurare con l’altro. Il pudore allora non è una faccenda di vesti, sottovesti o intimo abbigliamento, ma una sorta di vigilanza per mantenere la propria soggettività, in modo da essere segretamente se stessi in presenza degli altri.
Ma contro tutto ciò soffia il vento del nostro tempo che vuole la "pubblicizzazione del privato", perché in una società consumista, dove le merci per essere prese in considerazione devono essere pubblicizzate, si propaga un costume che contagia anche il comportamento degli uomini, i quali hanno la sensazione di esistere solo se si mettono in mostra, per cui, tra uomini e merci, il mondo è diventato una "mostra", un’esposizione pubblicitaria che è impossibile non vistare perché comunque ci siamo dentro.
Siamo diventati tutti "esposti", la nostra identità è ormai fuori di noi, è laggiù, in ciò che si dice di noi. Là si raccoglie credibilità e fiducia, accesso al credito e all’iniziativa. Dobbiamo costruirci ogni giorno una faccia con cento lingue e mille parole per poter abitare tutte le situazioni che il mondo pubblico ci ha preparato. Chi infatti non irradia una forza di esibizione e di attrazione più intensa degli altri, chi non si mette in mostra e non è irraggiato dalla luce della pubblicità non ha la forza di sollecitarci, di lui neppure ci accorgiamo, il suo richiamo non lo avvertiamo, non ce ne lasciamo coinvolgere, non lo riconosciamo, non lo usiamo, non lo consumiamo, al limite "non c’è".
Per esserci bisogna dunque apparire. E chi non ha nulla da mettere in mostra, non una merce, non un corpo, non un’abilità, non un messaggio, pur di apparire e uscire dall’anonimato, mette in mostra la propria interiorità dove è custodita quella riserva di sensazioni, sentimenti, significati "propri" che resistono all’omologazione, che nelle nostre società di massa è ciò a cui il potere tende per una più comoda gestione degli individui. Allo scopo vengono solitamente impiegati i mezzi di comunicazione che, dalla televisione ai giornali, con sempre più insistenza irrompono con "indiscrezione" nella parte "discreta" dell’individuo per ottenere non solo attraverso test, questionari, campionature, statistiche, sondaggi d’opinione, indagini di mercato, ma anche e soprattutto con intime confessioni, emozioni in diretta, storie d’amore, trivellazioni di vite private, che sia lo stesso individuo a consegnare la sua interiorità, la sua parte discreta, rendendo pubblici i suoi sentimenti, le sue emozioni, le sue sensazioni, secondo quei tracciati di "spudoratezza" che vengono acclamati come espressioni di "sincerità", perché in fondo: "Non si ha nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi".
A parte che "vergognarsi" è un verbo riflessivo che dunque rinvia a una riflessione, a una relazione con se stessi di cui non è proprio il caso di vergognarsi, c’è da notare anche che è un verbo che dice la nostra "esposizione agli altri". "Vergogna" viene infatti da "vereor gognam" che significa "temo la gogna, la mia esposizione pubblica". E questa è la ragione per cui solitamente non ci si vergogna della colpa, ma della nostra esposizione agli altri che il nostro pudore avverte più disdicevole della colpa. Quando dico: "Non ho nulla di cui vergognarmi" non sto dicendo solo: "Non mi vergogno, quindi non sono colpevole", ma anche: "Non mi vergogno, quindi non temo l’esposizione agli altri. Ho oltrepassato quello che per chiunque sarebbe il pudore e ho fatto della spudoratezza non solo la mia virtù, ma la prova della mia sincerità e della mia innocenza". I tracciati profondi dell’anima, in cui ciascuno dovrebbe riconoscere le radici profonde di se stesso, una volta immessi "senza pudore" nel circuito della pubblicizzazione, quando non addirittura in quello della pubblicità, non sono più propriamente "miei", ma "proprietà comune", e questo sia in ordine alla qualità del vissuto, sia in ordine al modo di viverlo, perché il pudore, prima di una faccenda di mutande che uno può cavarsi o infilarsi quando vuole, è una faccenda d’anima che, una volta depsicologizzata perché si sono fatte cadere le pareti che difendono il dentro dal fuori, l’interiorità dall’esteriorità, non esiste semplicemente più. A questo punto si potrebbe obiettare che siccome il male avviene di solito segretamente, "segretezza" e "riservatezza" sono per l’opinione pubblica prove del male.
E allora, per smentire l’opinione pubblica, omologata su questo pregiudizio, non resta che la spudoratezza di chi si tiene sempre pronto, "mani alla chiusura lampo", per interviste, pubbliche confessioni, rivelazioni dell’intimità, come è facile vedere in numerose trasmissioni televisive particolarmente seguite, dove l’invito è a collaborare attivamente e con gioia alla propria deprivatizzazione. Quanti sono interessati a che l’individuo non abbia più segreti e al limite neppure più un’interiorità, perché le pareti della casa di psiche sono crollate, alimentano il proliferare incontrollato di queste trasmissioni che, a livello subliminale, fanno passare la persuasione che la spudoratezza è una virtù: la virtù della sincerità. Per quanto la cosa possa apparire strana, la sua realizzazione nella nostra società è già in corso e il processo di eliminazione del pudore è quasi completo perché il pudore può essere non solo sintomo di "insincerità", ma addirittura, e qui anche gli psicologi danno una mano, di "introversione", di "chiusura in se stessi", quindi di inibizione se non di repressione. E inibizione e repressione, recitano i manuali di psicologia, sono sintomi di un "adattamento sociale frustrato", quindi di una socializzazione fallita. Vedete dove si può arrivare avviando una sequenza un po' disinvolta di sillogismi? Ma purtroppo la sequenza è avviata e la nostra vita è diventata proprietà comune.
E allora perché non lasciarsi intervistare senza riserva e senza pudore? In fondo anche il nostro corpo è diventato proprietà comune, e quel che un tempo era prerogativa di alcune dive, farsi misurare seni e sederi e pubblicare le relative cifre sotto la fotografia, oggi è il gioco di qualsiasi ragazza che non vuol passar per inibita. Ma anche il sesso è diventato proprietà comune e, dalla stampa alla televisione, è un susseguirsi di articoli e servizi sui piaceri e sulle difficoltà della camera da letto, redatti sotto forma di consigli, in modo confidenziale, come se fossero rivolti solo a te e non a un milione di orecchie. Questo significa "non aver nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi". Significa che le istanze del conformismo e dell’omologazione lavorano per portare alla luce ogni segreto, per rendere visibile ciascuno a ciascuno, per toglier di mezzo ogni interiorità come un impedimento, ogni riservatezza come un tradimento, per apprezzare ogni volontaria esibizione di sé come fatto di lealtà se non addirittura di salute psichica. E tutto ciò, anche se non ci pensiamo, approda a un solo effetto: attuare l’"omologazione della società" fin nell’intimità dei singoli individui e portare a compimento il conformismo. In fondo non è un’operazione difficile. Basta "non aver nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi", che tradotto significa: "Sono completamente esposto", "non custodisco nulla di intimo", "sono del tutto depsicologizzato", ma in compenso ho guadagnato appariscenza, conformità sociale e forse qualche apprezzamento per il mio coraggio e la mia sincerità.
A questo punto scopriamo che di intimo c’è rimasto solo il dolore, la malattia, la povertà che ciascuno di noi cerca di nascondere per non essere trascurato dagli altri, da loro tralasciato. E così proprio ciò che avrebbe massimamente bisogno di comunicazione (il dolore, la malattia, la povertà) resta chiuso nel segreto della solitudine dove nessuna voce giunge a diluire quel che la solitudine rende insopportabile. E poi ci si meraviglia del numero sempre più impressionante di suicidi, quando una voce inespressa decide di tacere per sempre. Qui inquietante non è il suicidio, ma la nostra meraviglia. Abbiamo capovolto il senso del pudore a cui abbiamo dato da custodire non più la nostra "intimità", in cui si radica la nostra identità personale e la nostra libertà, ma il fondo opaco e buio del nostro "dolore", reso addirittura inespressivo per l’impossibilità di comunicarlo. In questo caso non c’è né conformismo né omologazione, ma la difesa ostinata di un silenzio per non privarsi almeno di quelle conversazioni insincere, che del dolore, della malattia, della povertà non vogliono saper nulla, ma proprio nulla.
Umberto Galimberti

 
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“Educare vuol dire condurre qualcuno all’evoluzione, dall’impulso all’emozione, dall’emozione al sentimento. Un ragazzo che ha sentimento non brucia un migrante che dorme su una panchina, non picchia un disabile. Se queste cose accadono è perché la scuola non ha educato. Per educare bisogna avere a che fare con la soggettività degli studenti, che oggi è messa fuori gioco. Se è vero che al posto dei temi si fa la comprensione del testo scritto, si è spostata la valutazione dalla soggettività alla prestazione. A questo punto è chiaro che anche la scuola è serva del modello tecnico. I ragazzi non contano più come soggetti ma solo nelle loro prestazioni [...] La realtà è che siamo passati da una scuola umanistica a un’educazione anglosassone, perdendo un’infinità di valori della prima.”

Umberto Galimberti

 
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"Oggi la si chiama "resilienza", una volta la si chiamava "forza d´animo", Platone la nominava "tymoidés" e indicava la sua sede nel cuore.
Il cuore è l´espressione metaforica del "sentimento", una parola dove ancora risuona la platonica "tymoidés".Il sentimento non è languore, non è malcelata malinconia, non è struggimento dell´anima, non è sconsolato abbandono. Il sentimento è forza. Quella forza che riconosciamo al fondo di ogni decisione quando, dopo aver analizzato tutti i pro e i contro che le argomentazioni razionali dispiegano, si decide, perché in una scelta piuttosto che in un´altra ci si sente a casa. E guai a imboccare, per convenienza o per debolezza, una scelta che non è la nostra, guai a essere stranieri nella propria vita.
La forza d´animo, che è poi la forza del sentimento, ci difende da questa estraneità, ci fa sentire a casa, presso di noi. Qui è la salute. Una sorta di coincidenza di noi con noi stessi, che ci evita tutti quegli "altrove" della vita che non ci appartengono e che spesso imbocchiamo perché altri, da cui pensiamo dipenda la nostra vita, semplicemente ce lo chiedono, e noi non sappiamo dire di no.
Il bisogno di essere accettati e il desiderio di essere amati ci fanno percorrere strade che il nostro sentimento ci fa avvertire come non nostre, e così l´animo si indebolisce e si ripiega su se stesso nell´inutile fatica di compiacere agli altri. Alla fine l´anima si ammala, perché la malattia, lo sappiamo tutti, è una metafora, la metafora della devianza dal sentiero della nostra vita. Bisogna essere se stessi, assolutamente se stessi.
Questa è la forza d´animo. Ma per essere se stessi occorre accogliere a braccia aperte la nostra ombra. Che è poi ciò che di noi stessi rifiutiamo.
Quella parte oscura che, quando qualcuno ce la sfiora, ci sentiamo "punti nel vivo". Perché l´ombra è viva e vuole essere accolta. Anche un quadro senza ombra non ci dà le sue figure. Accolta, l´ombra cede la sua forza.
Cessa la guerra tra noi e noi stessi. Siamo in grado di dire a noi stessi:
"Ebbene sì, sono anche questo". Ed è la pace così raggiunta a darci la forza d´animo e la capacità di guardare in faccia il dolore senza illusorie vie di fuga.
"Tutto quello che non mi fa morire, mi rende più forte", scrive Nietzsche.
Ma allora bisogna attraversare e non evitare le terre seminate di dolore.
Quello proprio, quello altrui. Perché il dolore appartiene alla vita allo stesso titolo della felicità. Non il dolore come caparra della vita eterna, ma il dolore come inevitabile contrappunto della vita, come fatica del quotidiano, come oscurità dello sguardo che non vede via d´uscita. Eppure la cerca, perché sa che il buio della notte non è l´unico colore del cielo.
Di forza d´animo abbiamo bisogno soprattutto oggi perché non siamo più sostenuti da una tradizione, perché si sono rotte le tavole dove erano incise le leggi della morale, perché si è smarrito il senso dell´esistenza e incerta s´è fatta la sua direzione. La storia non racconta più la vita dei nostri padri, e la parola che rivolgiamo ai figli è insicura e incerta.
Gli sguardi si incontrano solo per evitarsi. Siamo persino riconoscenti al ritmo del lavoro settimanale che giustifica l´abituale lontananza dalla nostra vita. E a quel lavoro ci attacchiamo come naufraghi che attendono qualcosa o qualcuno che li traghetti, perché il mare è minaccioso, anche quando il suo aspetto è trasognato.
Passiamo così il tempo della nostra vita, senza sentimento, senza nobiltà, confusi tra i piccoli uomini a cui basta, secondo Nietzsche: "Una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute".
Perché ormai della vita abbiamo solo una concezione quantitativa. Vivere a lungo è diventato il nostro ideale. Il "come" non ci riguarda più, perché il contatto con noi stessi s´è perso nel rumore del mondo.
Passioncelle generiche sfiorano le nostre anime assopite. Ma non le risvegliano. Non hanno forza. Sono state acquietate da quell´ideale di vita che viene spacciato per equilibrio, buona educazione. E invece è sonno, dimenticanza di sé. Nulla del coraggio del navigante che, lasciata la terra che era solo terra di protezione, non si lascia prendere dalla nostalgia, ma incoraggia il suo cuore. Il cuore non come languido contraltare della ragione, ma come sua forza, sua animazione, affinché le idee divengano attive e facciano storia. Una storia più soddisfacente."

Umberto Galimberti, un grande pensatore, filosofo, psicoanalista, saggista. .
Soprattutto una mente libera, non ingabbiata dalle ideologie e dalla politica. Grazie Prof 🌼🌼

 
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