IL FARO DEI SOGNI

Giacomo Puccini

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Turandot, l'incompiuta



Dal 1919 al 1922, lasciata Torre del Lago, perché era disturbato dall'apertura di un impianto per l'estrazione della torba, Puccini visse nel comune di Orbetello, nella Bassa Maremma, dove acquistò sulla spiaggia della Tagliata una vecchia torre di avvistamento del tempo della dominazione spagnola, oggi detta Torre Puccini, in cui abitò stabilmente.

Nel febbraio 1919 venne insignito con il titolo di grande ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia.

«La morte di Puccini mi ha recato grande dolore. Non avrei mai creduto di non dover più rivedere questo così grande uomo.

E sono rimasto orgoglioso di aver suscitato il suo interesse, e Le sono riconoscente che Ella lo abbia fatto sapere ai miei nemici in un recente suo articolo.»

(Arnold Schönberg, lettera ad Alfredo Casella, gennaio 1925.)

Nello stesso anno ricevette dal sindaco di Roma Prospero Colonna la commissione per musicare un inno alla città di Roma su versi del poeta Fausto Salvatori.

Nonostante Puccini non fosse assolutamente entusiasta di questo lavoro, in proposito scriverà ad Elvira: "Ho finito 'l'Inno a Roma (una bella porcheria)"[senza fonte], la prima esecuzione venne programmata per il 21 aprile 1919, in occasione dell'anniversario della leggendaria fondazione della città.

Tale evento doveva inizialmente tenersi presso Villa Borghese ma, prima a causa del maltempo poi per via di uno sciopero, il debutto dovette essere posticipato al primo giugno allo Stadio Nazionale per le gare ginniche nazionali dove ricevette un'accoglienza entusiastica da parte del pubblico.

A Milano, durante un incontro con Giuseppe Adami, ricevette da Renato Simoni una copia della fiaba teatrale Turandot scritta dal drammaturgo settecentesco Carlo Gozzi.

Il testo colpì subito il compositore che lo portò con sé nel viaggio seguente a Roma per una ripresa del Trittico.

Nonostante avesse fin da subito trovato difficoltà nel musicarlo Puccini si dedicò con fervore in questa nuova opera su cui, peraltro, si erano già cimentati due musicisti italiani: Antonio Bazzini, con la sua Turanda di però gran scarso successo, e Ferruccio Busoni che la mise in scena a Zurigo nel 1917.


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Tuttavia, la Turandot di Puccini niente ebbe a che spartire con quelle degli altri due suoi contemporanei.

Essa è l'unica opera pucciniana di ambientazione fantastica, la cui azione – come si legge in partitura – si svolge «al tempo delle favole». In quest'opera l'esotismo perde ogni carattere ornamentale o realistico per diventare forma stessa del dramma: la Cina diviene così una sorta di regno del sogno e dell'eros e l'opera abbonda di rimandi alla dimensione del sonno, nonché di apparizioni, fantasmi, voci e suoni provenienti dalla dimensione "altra" del fuori scena.

Nell'intento di ricreare originali ambientazioni, gli venne in aiuto il barone Fassini Camossi, ex diplomatico in Cina e possessore di un carillon che suonava melodie cinesi di cui Puccini si servì intensamente, in particolare nel musicare l'inno imperiale.

Puccini si entusiasmò subito al nuovo soggetto e al personaggio della principessa Turandot, algida e sanguinaria, ma fu assalito dai dubbi al momento di mettere in musica il finale, coronato da un insolito lieto fine, sul quale lavorò un anno intero senza venirne a capo.

Nel 1921 la composizione appare proseguire tra difficoltà, il 21 aprile scrive a Sybil "mi pare di non avere più fiducia in me, non trovo nulla di buono" e momenti di ottimismo, ad Adami scrive il 30 aprile "Turandot va bene avanti; mi par d'essere sulla via maestra."

Di certo la stesura della partitura non seguì la cronologia della trama ma saltò da una scena all'altra.

Le difficoltà si fecero sempre più evidenti quando, in autunno, Puccini propose diverse modifiche ai librettisti, come quella di ridurre l'opera a soli due atti, ma già nei primi mesi del 1922 si tornò ai tre atti e venne deciso che il secondo sarebbe stato aperto dalle "tre maschere".

Alla fine di giugno si riuscì a completare il libretto definitivo e il 20 agosto Puccini decise di partire per un viaggio in automobile attraverso Austria, Germania, Olanda, Foresta Nera e Svizzera.

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Superate parzialmente le difficoltà, la composizione di Turandot proseguiva, seppur lentamente.

Il 1923 fu l'anno di svolta: trasferitosi a Viareggio, Puccini lavorò intensamente all'opera tanto che dopo poco si iniziò già a pensare a dove ospitare il debutto.

Nel frattempo la salute del compositore andò rapidamente peggiorando lamentando un forte dolore alla gola.

Il successivo consulto con uno specialista fiorentino lasciò poche speranze, la diagnosi fu un tumore giudicato inoperabile.

Da un'ulteriore visita presso un altro specialista, Puccini ricevette il consiglio di recarsi a Bruxelles dal professor Louis Ledoux dell'Institut du Radium di Bruxelles il quale avrebbe potuto tentare una cura con radio.

Il 24 novembre 1924 il musicista si sottopose, quindi, ad un intervento chirurgico di ben tre ore, in anestesia locale, che consistette nell'applicazione, tramite tracheotomia, di sette aghi di platino irradiato, inseriti direttamente nel tumore e trattenuti da un collare.

Nonostante l'intervento fosse stato giudicato pienamente riuscito e che i bollettini medici si esprimessero in toni positivi, Puccini morì alle 11.30 del 29 novembre all'età di 65 anni.


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La messa funebre si tenne nella chiesa Royale Sainte-Marie a Bruxelles e subito dopo la salma fu portata in treno a Milano per la cerimonia ufficiale che si tenne nel Duomo di Milano il 3 dicembre.

In tale occasione, Toscanini condusse l'Orchestra del Teatro alla Scala nell'esecuzione del requiem tratto da Edgar.

Inizialmente il corpo di Puccini venne deposto nella cappella privata della famiglia Toscanini, ma due anni più tardi venne traslata, su suggerimento di Elvira, nella cappella della villa di Torre del Lago, dove venne sepolta anch'essa.

Le ultime due scene di Turandot, di cui non rimaneva che un abbozzo musicale discontinuo, furono completate da Franco Alfano sotto la supervisione di Arturo Toscanini; ma la sera della prima rappresentazione lo stesso Toscanini interruppe l'esecuzione sull'ultima nota della partitura pucciniana, ossia dopo il corteo funebre che segue la morte di Liù.

220px-Tomba_Puccini_Torre_del_Lago

La tomba di Puccini nella
cappella della villa, a Torre del Lago

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Personalità artistica




Figura di punta del mondo operistico italiano a cavallo tra Ottocento e Novecento, Giacomo Puccini si accostò proprio alle due tendenze dominanti: quella verista prima (nel 1895 aveva cominciato a lavorare a una riduzione operistica de La lupa di Verga, abbandonandola dopo pochi mesi), quella dannunziana poi:


«O meraviglia delle meraviglie! D'Annunzio mio librettista! Ma neanche per tutto l'oro del mondo. Troppa distillazione briaca e io voglio restare in gamba.»

Altrettanto arduo è collocare la sua personalità artistica nel panorama internazionale, in quanto la sua musica, pur nell'incessante evoluzione stilistica, non presenta l'esplicita tensione innovativa di molti dei maggiori compositori europei del tempo.

Puccini d'altronde si dedicò in modo pressoché esclusivo alla musica teatrale e, al contrario dei maestri dell'avanguardia novecentesca, scrisse sempre pensando al pubblico, curando personalmente gli allestimenti e seguendo le sue opere in giro per il mondo.

Se diede alla luce soltanto dodici opere (comprese le tre in un atto che compongono il Trittico) fu per mettere a punto organismi teatrali assolutamente impeccabili, tali da consentire ai suoi lavori di affermarsi stabilmente nei repertori dei teatri lirici di tutto il mondo. Interesse, varietà, rapidità, sintesi e profondità psicologica, abbondanza di trovate sceniche sono i fondamentali ingredienti del suo teatro.

Il pubblico, benché talvolta disorientato dalle novità contenute in ciascuna opera, alla fine si schierò sempre dalla sua parte; al contrario, la critica musicale, in particolare quella italiana, guardò molto a lungo a Puccini con sospetto o addirittura con ostilità.

Specie a partire dal secondo decennio del Novecento, la sua figura fu il bersaglio favorito degli attacchi dei giovani compositori della Generazione dell'Ottanta, capitanati da uno studioso di musica antica, Fausto Torrefranca, che nel 1912 pubblicò un libello polemico di straordinaria violenza, intitolato Giacomo Puccini e l'opera internazionale.



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In questo libriccino l'opera di Puccini è descritta come l'estrema, spregevole, cinica e «commerciale» espressione di quello stato di corruzione nel quale la cultura musicale italiana, abbandonata la strada maestra della musica strumentale a favore del melodramma, verserebbe ormai da secoli. Il presupposto ideologico che alimenta la tesi è d'impronta nazionalistica:


«Nel Puccini la ricerca veramente personale del nuovo è assente: egli applica, non ritrova, lavora cautamente sul già fatto, assimila da francesi e da russi, da tedeschi e da italiani suoi contemporanei. E applicando, non riesce mai ad ampliare ciò che ha imparato dagli altri, ma se ne serve come di un "luogo comune" della musica moderna, consacrato dal successo e avvalorato dalla moda.

[...] Il Puccini è dunque il manipolatore per eccellenza del "melodramma internazionale".

La condizione ideale del melodramma internazionale è certo quella di avere una musica che si adatti a qualunque traduzione, in qualunque lingua del mondo; una musica che non sia né italiana, né russa, né tedesca, né francese.»


È curioso rileggere le parole di Torrefranca alla luce della rivalutazione critica cui la figura di Puccini è andata incontro negli ultimi decenni del Novecento, nonché dell'ammirazione disinteressata che manifestarono per essa i maggiori compositori europei del suo tempo: da Stravinskij a Schönberg, da Ravel a Webern, da Debussy a Mahler.

Nel suo attacco astioso, gravato da pregiudiziali ideologiche, Torrefranca riuscì tuttavia a cogliere alcuni aspetti-chiave della personalità artistica di Puccini; a partire dalla tesi centrale della dimensione «internazionale» del suo teatro musicale.

La rivalutazione critica di Puccini, a sua volta internazionale in quanto avviata da studiosi quali il francese René Leibowitz e l'austriaco Mosco Carner, ha fondato i suoi argomenti più persuasivi proprio sull'ampiezza dell'orizzonte culturale ed estetico del compositore lucchese, indagato in seguito con particolare sottigliezza, in Italia, da Fedele D'Amico nella sua attività di musicologo-giornalista e, più di recente, da Michele Girardi, che non a caso ha voluto sottotitolare il suo ultimo volume dedicato a Puccini L'arte internazionale di un musicista italiano.


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Il grande merito di Puccini fu infatti proprio quello di non essersi lasciato sedurre dai rigurgiti di nazionalismo, assimilando e sintetizzando con abilità e rapidità linguaggi e culture musicali diverse.

Un'inclinazione eclettica che egli stesso riconobbe in tono scherzoso (com'era nel suo carattere) già sui banchi di Conservatorio, tracciando sul quaderno di appunti la seguente autobiografia:


«Giacomo Puccini = Questo grande musicista nacque a Lucca l'anno......... e puossi ben dire il vero successore del celebre Boccherini. – Di bella persona e di intelletto vastissimo portò nel campo dell'arte italiana il soffio di una potenza quasi eco dell'oltralpica wagneriana...»


Giacché alcuni lavori giovanili presentano effettivamente un'inusitata combinazione tra stile galante alla Boccherini (destinato a ripresentarsi, anni dopo, nella cornice settecentesca di Manon Lescaut) e soluzioni timbrico-armoniche di matrice wagneriana, questa goliardica autobiografia (realmente bohèmienne!) contiene almeno una punta di verità.

Per accostarsi alla personalità artistica di Puccini è dunque necessario indagare i rapporti che egli istituì con le diverse culture musicali e teatrali del suo tempo.

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Il grande merito di Puccini fu infatti proprio quello di non essersi lasciato sedurre dai rigurgiti di nazionalismo, assimilando e sintetizzando con abilità e rapidità linguaggi e culture musicali diverse.

Un'inclinazione eclettica che egli stesso riconobbe in tono scherzoso (com'era nel suo carattere) già sui banchi di Conservatorio, tracciando sul quaderno di appunti la seguente autobiografia:


«Giacomo Puccini = Questo grande musicista nacque a Lucca l'anno......... e puossi ben dire il vero successore del celebre Boccherini. – Di bella persona e di intelletto vastissimo portò nel campo dell'arte italiana il soffio di una potenza quasi eco dell'oltralpica wagneriana...»


Giacché alcuni lavori giovanili presentano effettivamente un'inusitata combinazione tra stile galante alla Boccherini (destinato a ripresentarsi, anni dopo, nella cornice settecentesca di Manon Lescaut) e soluzioni timbrico-armoniche di matrice wagneriana, questa goliardica autobiografia (realmente bohèmienne!) contiene almeno una punta di verità.

Per accostarsi alla personalità artistica di Puccini è dunque necessario indagare i rapporti che egli istituì con le diverse culture musicali e teatrali del suo tempo.

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L'influsso di Richard Wagner



Sin dal suo arrivo a Milano, Puccini si schierò apertamente tra gli ammiratori di Wagner: le due composizioni sinfoniche presentate come saggi di Conservatorio – il Preludio Sinfonico in La maggiore (1882) e il Capriccio Sinfonico (1883) – contengono espliciti rimandi tematici e stilistici a Lohengrin e Tannhäuser, opere della prima maturità wagneriana.

All'inizio del 1883 inoltre egli acquistò insieme con Pietro Mascagni, suo compagno di stanza, lo spartito di Parsifal, il cui Abendmahl-Motiv è citato alla lettera nel preludio delle Villi.[88]

Puccini è stato forse il primo musicista italiano a comprendere che la lezione di Wagner andava ben al di là delle sue teorie sul «dramma musicale» e sull'«opera d'arte totale»—che in Italia furono al centro del dibattito—, e riguardava specificamente il linguaggio musicale e le strutture narrative.

Se nei suoi lavori degli anni ottanta l'influsso wagneriano si manifesta soprattutto in alcune scelte armoniche e orchestrali che talvolta rasentano il calco, a partire da Manon Lescaut Puccini comincia a scandagliarne la tecnica compositiva, giungendo non solo a utilizzare in modo sistematico i Leitmotiv ma anche a legarli tra loro attraverso relazioni motiviche trasversali, secondo il sistema che Wagner impiegò in particolar modo in Tristano e Isotta.

Tutte le opere di Puccini, da Manon Lescaut in avanti, si prestano a essere lette e ascoltate anche come partiture sinfoniche.

Réné Leibowitz arrivò addirittura a individuare nel primo atto di Manon Lescaut un'articolazione in quattro tempi di sinfonia, dove il tempo lento coincide con l'incontro tra Manon e Des Grieux e lo scherzo (il termine figura nell'autografo) con la scena della partita a carte.

Soprattutto a partire da Tosca, Puccini ricorre inoltre a una tecnica tipicamente wagneriana, il cui modello canonico può essere identificato nel celebre inno alla notte del secondo atto di Tristano e Isotta.

Si tratta di quello che potremmo definire una sorta di crescendo tematico, ovvero di una forma di proliferazione di un nucleo motivico (soggetto eventualmente a generare idee secondarie), la cui progressione si sviluppa e compie in un climax sonoro, collocato poco prima della conclusione dell'episodio (tecnica che Puccini impiega in modo particolarmente sistematico ed efficace nel Tabarro).

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Rapporti con la Francia




Dall'opera francese, e in particolare da Bizet e Massenet, Puccini ricavò l'estrema attenzione per il colore locale e storico, elemento sostanzialmente estraneo alla tradizione operistica italiana.

La ricostruzione musicale dell'ambiente costituisce un aspetto di assoluto rilievo in tutte le partiture pucciniane: si tratti della Cina di Turandot, del Giappone di Madama Butterfly, del Far West de La fanciulla del West, della Parigi di Manon Lescaut, Bohème, Rondine e Tabarro, della Roma papalina di Tosca, della Firenze duecentesca di Gianni Schicchi, del convento secentesco di Suor Angelica, delle Fiandre trecentesche di Edgar o della Foresta Nera delle Villi.

Anche l'armonia pucciniana, così duttile e incline ai procedimenti modali, sembra echeggiare stilemi propri della musica francese del tempo, soprattutto quella non operistica.

È tuttavia difficile dimostrare la presenza di un influsso concreto e diretto, giacché passaggi di questo genere si incontrano già nel primo Puccini, a partire dalle Villi, quando la musica di Fauré e Debussy era ancora sconosciuta in Italia.

Sembra più verosimile immaginare che a indirizzare Puccini verso un gusto armonico che, a posteriori, si può definire francese sia stata invece l'ultima partitura wagneriana, Parsifal, certamente la più francesizzante, nella quale si trova un largo impiego di combinazioni modali.

All'inizio del Novecento Puccini sembra passare, come altri musicisti italiani della sua generazione, una fase di fascinazione per la musica di Debussy: la scala per toni interi è impiegata in modo massiccio soprattutto nella Fanciulla del West.

Sennonché il compositore toscano rifiuta la prospettiva estetizzante del collega francese e usa tale risorsa armonica in modo funzionale a quel senso di attesa di una rinascita – artistica ed esistenziale – che costituisce il nòcciolo poetico di quest'opera ambientata nel Nuovo mondo.

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L'eredità italiana



La fama di compositore internazionale ha spesso messo in ombra il legame di Puccini con la tradizione italiana e, in particolare, col teatro di Verdi.

I due operisti italiani più popolari sono accomunati dalla ricerca della massima sintesi drammatica e dell'esatto dosaggio dei tempi teatrali sul metro del percorso emotivo dello spettatore. Di là dalla venatura scherzosa – volta d'altronde più ad alleggerire che a negare gli argomenti – le parole con cui Puccini dichiarò in un'occasione la propria totale dedizione al teatro sarebbero potute uscire anche dalla penna di Verdi:

«La musica? cosa inutile. Non avendo libretto come faccio della musica? Ho quel gran difetto di scriverla solamente quando i miei carnefici burattini si muovono sulla scena. Potessi essere un sinfonico puro (?).

Ingannerei il mio tempo e il mio pubblico. Ma io? Nacqui tanti anni fa, tanti, troppi, quasi un secolo… e il Dio santo mi toccò col dito mignolo e mi disse: "Scrivi per il teatro: bada bene – solo per il teatro" e ho seguito il supremo consiglio.»



Italiana è anche la presenza di quella dialettica tra tempo reale e tempo psicologico che anticamente si manifestava nella contrapposizione tra recitativo (momento in cui si sviluppa l'azione) e aria (espressione di uno stato d'animo dilatata nel tempo) e che assume ora forme più varie e sfumate.

Le opere di Puccini contengono numerosi episodi chiusi nei quali il tempo dell'azione appare rallentato se non addirittura sospeso: come nella scena dell'ingresso di Butterfly, con il canto irreale da fuori scena della geisha intenta a salire la collina di Nagasaki per raggiungere il nido nuziale.

Più in generale la funzione-tempo è trattata da Puccini con un'elasticità degna di un grande romanziere.

Criticamente più controverso è il ruolo assegnato alla melodia, da sempre asse portante dell'opera italiana.

A lungo Puccini è stato considerato un melodista generoso e persino facile.

Oggi molti studiosi tendono piuttosto a porre l'accento sugli aspetti armonici e timbrici della sua musica.

Occorre d'altronde – specie a partire da Tosca – intendere la melodia pucciniana in funzione della struttura leitmotivica, che riduce inevitabilmente lo spazio della cantabilità (il motivo conduttore dev'essere innanzitutto duttile, e dunque la sua gittata dev'essere breve). Non è dunque un caso se le melodie di più ampio respiro si concentrano nelle prime tre opere.

Su questo argomento può essere utile rileggere ciò che scrisse nel 1925 uno dei massimi compositori del Novecento – Edgard Varèse – contestualizzando storicamente il problema della melodia:

«Sono passati più o meno dieci mesi da quando Giacomo Puccini ci ha lasciato, combattendo contro il destino per portare a compimento la sua Turandot.

Così come allora non appariva all'orizzonte nessuna figura che desse segni di essere altrettanto dotata come melodista, non è una sorpresa che oggi nessun altro sia emerso in grado di prendere il pubblico mondiale per le orecchie.[93]»

Ed è ancora lo stesso Puccini – con il suo consueto linguaggio aforistico – ad annotare su un abbozzo di Tosca:

«Contro tutto e contro tutti fare opera di melodia.»


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L'uomo Puccini
Di Puccini in Puccini




I primi quattro nomi con cui fu registrato nell'atto di nascita (Giacomo, Antonio, Domenico, Michele) sono i nomi dei suoi antenati, in ordine cronologico dal trisnonno al padre.


***
Puccini e i motori


Appassionato di motori, il maestro cominciò la sua carriera automobilistica acquistando, nel 1900, una De Dion-Bouton 5 CV, vista all'Esposizione di Milano di quell'anno e presto sostituita (1903) con una Clément-Bayard.

Con quelle vetture, percorrendo l'Aurelia, dal suo "rifugio" di Torre del Lago raggiungeva velocemente Viareggio o Forte dei Marmi e Lucca.

Forse troppo velocemente secondo la pretura di Livorno, che multò Puccini per eccesso di velocità, nel dicembre del 1902. Una sera di due mesi più tardi, nei pressi di Vignola, alla periferia di Lucca, sulla Statale Sarzanese-Valdera, la Clement usciva di strada, rovesciandosi nel canale "la Contésora", con a bordo anche la futura moglie, il figlio e il meccanico; il meccanico si ferì ad una gamba e il musicista si fratturò una tibia.

Nel 1905, acquistò una Sizaire-Naudin, cui seguì una Isotta Fraschini del tipo "AN 20/30 HP" e alcune FIAT, tra cui una "40/60 HP" nel 1909 e una "501" nel 1919.

Nel 1914 Puccini acquistò una motocicletta Indian 1000 Big Twin con sidecar, che utilizzava spesso durante la villeggiatura estiva a Viareggio, condotta dallo chauffeur.

Erano tutti veicoli che ben si prestavano alle gite e alla locomozione veloce, ma inadatte da utilizzare nelle sue amate battute di caccia.

Per questo motivo, Puccini chiese a Vincenzo Lancia la realizzazione di vettura capace di muoversi anche su terreni difficili.

Dopo pochi mesi, gli venne consegnata quella che possiamo considerare la prima "fuoristrada" costruita in Italia, con tanto di telaio rinforzato e ruote artigliate.

Il prezzo della vettura era, per il tempo, astronomico: 35 000 lire.

Ma Puccini ne fu talmente soddisfatto da acquistare, successivamente, anche una "Trikappa" e una "Lambda".

Con la prima, nell'agosto del 1922, il maestro organizzò un lunghissimo viaggio in automobile attraverso l'Europa.

La "comitiva" di amici prese posto su due vetture, la Lancia Trikappa di Puccini e la FIAT 501 di un suo amico, tale Angelo Magrini. Questo l'itinerario: Cutigliano, Verona, Trento, Bolzano, Innsbruck, Monaco di Baviera, Ingolstadt, Norimberga, Francoforte, Bonn, Colonia, Amsterdam, L'Aia, Costanza (e poi il ritorno in Italia).

La "Lambda", consegnatagli nella primavera del 1924, fu l'ultima vettura posseduta da Puccini; quella con la quale compì il suo ultimo viaggio, il 4 novembre 1924, fino alla stazione di Pisa e, da lì, in treno per Bruxelles, dove subì la fatale operazione alla gola.

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Puccini e le donne



Si è discusso molto sul rapporto tra Puccini e l'universo femminile, sia con riferimento ai personaggi delle sue opere, sia in rapporto alle donne incontrate nella sua vita.

Frequente e ormai leggendaria è l'immagine di Puccini come impenitente donnaiolo, alimentata da diverse vicende biografiche e dalle stesse sue parole con cui amò definirsi "un potente cacciatore di uccelli selvatici, libretti d'opera e belle donne". In realtà Puccini non fu il classico dongiovanni: il suo temperamento era cordiale ma timido, solitario e la sua natura ipersensibile lo portava a non vivere con troppa leggerezza i rapporti con le donne.

Era stato d'altronde circondato da figure femminili sin da bambino, cresciuto dalla madre e con cinque sorelle (senza contare Macrina, morta piccolissima) e un solo fratello più piccolo.

Il suo primo grande amore fu Elvira Bonturi (Lucca, 13 giugno 1860 - Milano, 9 luglio 1930), moglie del commerciante lucchese Narciso Gemignani, dal quale aveva avuto due figli, Fosca e Renato.

La fuga d'amore di Giacomo ed Elvira, nel 1886, fece scandalo a Lucca.

I due si trasferirono al Nord insieme con Fosca ed ebbero un figlio, Antonio (Monza, 23 dicembre 1886 - Viareggio, 21 febbraio 1946).

Si sposarono solo il 3 febbraio 1904, dopo la morte di Gemignani.

Secondo Giampaolo Rugarli (autore del volume La divina Elvira, edito da Marsilio) tutte le protagoniste delle opere pucciniane si riassumono e si rispecchiano sempre e solo nella moglie, Elvira Bonturi, che sarebbe stata l'unica figura femminile capace di dargli ispirazione, nonostante il suo difficile carattere e l'incomprensione che portava verso l'estro del compositore ("Tu metti dello scherno quando si pronuncia la parola arte.

È questo che mi ha sempre offeso e che mi offende", da una lettera scritta alla moglie nel 1915). Comunque sia, Puccini ebbe verso Elvira un rapporto ambivalente: da una parte la tradì ben presto, cercando relazioni con donne di diverso temperamento, dall'altro rimase legato a lei, nonostante le crisi violente e il suo carattere drammatico e possessivo, fino alla fine. Tra le nobildonne italiane merita una osservazione il rapporto tra il maestro e la contessa Laurentina Castracane degli Antelminelii, ultima discendente di Castruccio che a Lucca fondò la prima signoria italiana.

La contessa Laurentina, affascinante nobildonna, assecondò il carattere passionale ma schivo di Puccini, e li fu vicino quando venne ricoverato in ospedale dopo un incidente in macchina nel 1902.

Questa liason è da considerarsi una delle più importanti della sua vita.

Entrambi curarono che la cosa fosse la più segreta possibile, data la posizione sociale di entrambi e perché da questo traevano ulteriore reciproca passione.

Una delle sue prime amanti fu una giovane torinese nota come Corinna, conosciuta nel 1900, pare sul treno Milano-Torino, che Puccini aveva preso per assistere alla prima rappresentazione di Tosca al Regio di Torino, dopo l'esordio romano.

Per un caso Elvira venne a sapere degli incontri di Giacomo con questa donna.

Dello scandalo che nacque si lamentò anche il suo editore-padre, Giulio Ricordi, che scrisse a Puccini una lettera di fuoco invitandolo a concentrarsi sull'attività artistica. La relazione con «Cori» - come la chiamava il musicista - durò fino all'incidente automobilistico che coinvolse il maestro il 25 febbraio 1903, la cui lunga convalescenza gli impedì di incontrare l'amante.

L'identità di questa ragazza è stata svelata nel 2007 dallo scrittore tedesco Helmut Krausser: si trattava della sarta torinese Maria Anna Coriasco (1882-1961) e "Corinna" era l'anagramma di parte del suo nome: Maria Anna Coriasco.

In precedenza Massimo Mila l'aveva identificata con una compagna di scuola di sua madre, una studentessa di magistero a Torino.



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All'ottobre 1904 risale l'incontro con Sybil Beddington, sposata Seligman (23 febbraio 1868 - 9 gennaio 1936), una signora londinese, ebrea, allieva di musica e canto di Francesco Paolo Tosti, con la quale sembra che ebbe inizialmente una storia d'amore che si convertì poi in una solida e profonda amicizia, cementata dal britannico equilibrio della signora.

Tant'è che nell'estate 1906 e 1907 i coniugi Seligman furono ospitati a Boscolungo Abetone da Giacomo ed Elvira.

Comunque, l'esatta natura della relazione tra i due, almeno nei primi tempi, è stato oggetto di dibattito.[98]

Nell'estate del 1911, a Viareggio, Puccini conobbe la baronessa Josephine von Stengel (nome riportato spesso, erroneamente, con la grafia Stängel), di Monaco di Baviera, allora trentaduenne e madre di due bambine.


L'amore per la baronessa - che nelle lettere Giacomo chiamava «Josy» o «Busci», e dalla quale era chiamato «Giacomucci» - accompagnò in particolare la composizione della Rondine, nella quale Giorgio Magri vede il riflesso di questa relazione mitteleuropea e aristocratica. La loro storia durò fino al 1915.

L'ultimo amore di Puccini fu Rose Ader, soprano di Odenberg.

Un collezionista austriaco possiede 163 lettere inedite che testimoniano questa relazione, della quale sappiamo ben poco.

La storia ebbe inizio nella primavera del 1921, quando la Ader cantò Suor Angelica all'Opera di Amburgo, e terminò nell'autunno del 1923. Pensando alla sua voce, Puccini scrisse la parte di Liù, in Turandot.


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view post Posted on 21/10/2020, 20:06     Top   Dislike
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I discendenti



Antonio (1886-1946), nato a Monza in corso Milano n. 18, unico figlio di Giacomo ed Elvira Bonturi; non ebbe figli dalla moglie Rita Dell'Anna (1904-1979), sposata nel 1933.

Ebbe però una figlia naturale, Simonetta Giurumello, nata nel 1929 e morta nel 2017, riconosciuta dal Tribunale e autorizzata quindi a chiamarsi Simonetta Puccini: l'unica erede del Maestro prima che sorgesse la querelle dei discendenti di Giulia Manfredi.


Fosca Gemignani, sposata Leonardi (1880-1969), amatissima figliastra del Maestro. Fu la madre della famosa stilista Biki (Elvira Leonardi sposata Bouyeure: 1909-1999).

Biki prese questo nome d'arte proprio in memoria di Puccini, che da bambina la chiamava Bicchi ("birichina").

In seguito Fosca, rimasta vedova, sposò Mario Crespi (1879-1962), uno degli allora comproprietari del Corriere della Sera.

 
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