IL FARO DEI SOGNI

America centrale

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Economia: America Centrale e Meridionale

Nel contesto dell'economia mondiale, l'America Centro-Meridionale occupa tuttora una posizione decisamente marginale: basti osservare, per confronto, che, pur avendo le stesse dimensioni del NAFTA in termini di superficie, e circa 100 milioni di ab. in più, essa pesa sul valore globale delle esportazioni internazionali per il 3,7% (contro il 13,6%). Il subcontinente, pertanto, può definirsi, in prima approssimazione, tuttora sottosviluppato e, comunque, affetto da gravissimi squilibri regionali, anche all'interno delle singole unità statali, a loro volta profondamente difformi per composizione etnico-culturale, estensione territoriale e grado di industrializzazione. Nonostante il tasso medio di disoccupazione risultasse dai dati ufficiali, prima della grande crisi del 2008, inferiore all'8% (con l'eccezione significativa della Colombia, 11,4%, e di alcune isole caraibiche), buona parte della popolazione vive nettamente al di sotto della soglia di povertà, mentre una percentuale considerevole della ricchezza è goduta ancora oggi da una ristretta minoranza (un decimo della popolazione). Le cause di tale situazione vanno ricercate nel periodo coloniale, durante il quale l'America Latina, considerata per lungo tempo unicamente come terra di conquista, è stata sottoposta a un intenso sfruttamento, non accompagnato dalla creazione - come avveniva, al contrario, nelle colonie di popolamento dell'America anglosassone - di solide basi strutturali dell'economia. La storia economica latino-americana risulta significativamente caratterizzata da periodi (ciclos) più o meno strettamente legati al “drenaggio” delle risorse di volta in volta ritenute più convenienti: dapprima l'oro e l'argento dell'epoca dei conquistadores, quindi le colture tropicali (e la conseguente importazione di schiavi africani per i lavori delle piantagioni), a cominciare dalla canna da zucchero; seguì la formazione di grandi allevamenti di bestiame nelle pampas e, in età posteriore, l'interesse posto su nuove colture agricolo-industriali, tra cui il caffè, introdotto in Brasile all'inizio del Settecento. Queste forme di sfruttamento hanno comportato la forte concentrazione della ricchezza e una scarsa vocazione imprenditoriale da parte delle classi dominanti. Ne è conseguita una notevole dipendenza economica dalle ex potenze coloniali e dagli Stati Uniti, che avevano guadagnato rapidamente terreno negli ultimi decenni dell'Ottocento, favoriti dalla dottrina di Monroe, in applicazione della quale si erano andati imponendo come lo Stato-guida dell'intero continente. Sino ai primi decenni del Novecento, la potenza egemone rimase comunque l'Inghilterra che, per prima, aveva saputo approfittare delle possibilità offerte dai Paesi latino-americani come consumatori di prodotti lavorati, oltre che come fornitori di materie prime, mentre Italia e Spagna fornivano manodopera, alimentando la corrente immigratoria. La drastica riduzione dei rapporti commerciali con l'Europa, durante la prima guerra mondiale, accrebbe il peso degli Stati Uniti che, tra il 1913 e il 1929, quintuplicarono i propri investimenti nel subcontinente. Soprattutto nelle piccole repubbliche centro-americane la massiccia presenza del capitale statunitense e la protezione accordata all'oligarchia terriera ostacolarono la maturazione di una borghesia imprenditoriale, contribuendo a perpetuare i mali del sottosviluppo. La ricchezza, sotto forma di rendita, rimase accentrata nelle mani di poche famiglie, i cui interessi si andarono saldando con quelli delle grandi società agricolo-industriali statunitensi (United Fruit Company, Standard Fruit ecc.), proprietarie di immense piantagioni e detentrici del monopolio di interi settori produttivi e commerciali. Queste caratteristiche hanno contribuito a creare forti squilibri economico-sociali, aggravati da un elevato tasso di incremento demografico che, nelle aree più povere, è risultato a lungo superiore all'incremento del reddito pro capite. Un altro notevole freno allo sviluppo è rappresentato dallo stesso carattere "periferico" dell'economia latino-americana, il cui isolamento si è accresciuto nel secondo dopoguerra in seguito alla divisione del mondo in blocchi economico-commerciali, oltre che politici, riducendo il potere contrattuale di economie tra loro scarsamente integrate e spesso concorrenziali. La dipendenza da un mercato internazionale dominato dalle economie più forti ha contribuito sia a frenare lo sviluppo industriale sia a ridurre il potere contrattuale dei singoli Paesi latino-americani come fornitori di materie prime. Da un lato, infatti, Paesi come l'Argentina e il Cile, dotati di manodopera specializzata e di strutture a livello europeo, ma con mercati interni piuttosto ristretti, non sono riusciti a trovare un adeguato sbocco internazionale alle merci prodotte; dall'altro, i Paesi a economia "primaria" hanno incontrato difficoltà a collocare merci spesso eccedenti e soggette a quotazioni instabili. Nonostante le notevoli difficoltà, negli anni Ottanta la situazione generale è andata decisamente migliorando: le produzioni e le esportazioni si sono maggiormente diversificate e i prodotti industriali, soprattutto quelli non tradizionali, hanno assunto un peso crescente. Ciò è dovuto tuttavia, in larga misura, alle politiche di decentramento produttivo attuate dalle grandi imprese degli USA e degli altri Paesi maggiormente industrializzati, sia europei sia asiatici (in particolare il Giappone), mentre le iniziative endogene sono rimaste complessivamente limitate, lasciando il subcontinente in condizioni di marcata dipendenza, soprattutto dal punto di vista finanziario. Dopo l'uscita dalla grande crisi recessiva mondiale, nei primi anni Novanta è iniziata una fase espansiva, nuovamente compromessa dal crollo dei mercati azionari nel 1997 e durante la quale, comunque, i fondamenti dell'economia hanno mostrato segnali contrastanti. Nei primi anni del Duemila, superata la terribile crisi monetaria e finanziaria di uno dei colossi della regione, l'Argentina, costretta a dichiarare l'insolvenza del suo debito pubblico (defoult), la regione ha ripreso a crescere, grazie soprattutto alla dinamicità dell'economia brasiliana (il gigante sudamericano è stato paragonato ai casi di Russia, India e Cina, come attesta l'acronimo BRIC) e alle ingenti esportazioni petrolifere venezuelane. La crisi economica mondiale scatenatasi a partire dal 2008 ha però, anche qui, colpito drasticamente, sia in termini di sviluppo sia in termini di occupazione.A ritmi di crescita annua del PIL, in alcuni casi vertiginosi (come per quanto concerne Perú, Argentina e Uruguay) e negli altri casi generalmente compresi fra il 3 e il 5%, hanno fatto riscontro elevati tassi di inflazione (così, in particolare, nel caso del Venezuela). Devono pertanto consolidarsi, da un lato, le politiche di aggiustamento strutturale (riduzione del debito pubblico e massiccio ricorso alle privatizzazioni) adottate dai governi in seguito alle sollecitazioni del Fondo Monetario Internazionale (anche se la crisi argentina del 2001-02 ha in parte smentito la bontà di politiche economiche ispirate al rispetto integrale dell'ortodossia neoliberista dell'FMI), al fine di continuare ad attirare flussi di investimenti esteri, mentre resta fondamentale, dall'altro lato, il sostegno finanziario degli Stati Uniti, nella cui orbita i Paesi latino-americani continuano inevitabilmente a gravitare. E restano i già ricordati problemi socio-economici derivanti dagli squilibri fra poli di sviluppo (generalmente i nuclei centrali delle grandi agglomerazioni urbane) e aree marginali, pur se il reddito pro capite ha ormai superato, in molti Paesi sudamericani, i 5000 dollari annui a parità di potere d'acquisto (al cambio corrente i valori risultano molto inferiori), fino agli oltre 10.000 dollari di Cile, Uruguay e Venezuela nel 2008. Notevolmente più critica è la situazione dell'America Centrale, sia continentale sia insulare, dove molti dei piccoli Stati che la compongono presentano valori inferiori ai 1500-2000 dollari annui, con il caso grave di Haiti, ferma a 791 dollari per abitante e, per giunta, colpita dal grave sisma (oltre 230.000 vittime) del 2010. In ogni caso, gli incrementi del PIL complessivo – su cui si calcolano i valori medi per abitante – non si sono tradotti in benessere per la parte socialmente più debole della popolazione che, in molti casi, risulta anzi maggiormente impoverita, sia che viva nelle sterminate bidonvilles ai margini dei grandi centri urbani sia che resti aggrappata a piccoli appezzamenti di terra nelle regioni montagnose o che appartenga alla numerosa categoria dei contadini senza terra. Altro problema irrisolto è quello delle attività illegali, soprattutto connesse alla produzione e al commercio di droga: dalle aree “tradizionali” (Colombia, Perú, Bolivia), esse si vanno estendendo all'America Centrale, sia continentale sia insulare, e i tentativi di stroncarle, soprattutto da parte degli USA, incontrano formidabili resistenze, oltre che nei potenti gruppi di trafficanti, nelle masse contadine più povere, che ne traggono i mezzi di sussistenza, e nelle stesse autorità locali, allettate dai proventi del riciclaggio delle enormi quantità di danaro messe in circolazione. § L'agricoltura in media il 15-20% della popolazione latino-americana (con punte massime del 60% ad Haiti e minime, al di sotto dell'1%, in Argentina), in grande maggioranza costituita da una massa di contadini poveri, sottoalimentati e dediti a coltivazioni di pura sussistenza, soprattutto negli altopiani andini e nella regione nordorientale del Brasile (da cui trae la propria base sociale il Movimento dos Trabalhadores Sem Terra). Fatta eccezione per alcune aree e settori produttivi particolarmente evoluti, l'agricoltura latino-americana presenta un quadro generale piuttosto misero, sia per la diffusa precarietà delle condizioni naturali sia per il persistere di condizioni socio-economiche emblematicamente rappresentate dal microfondo e, all'opposto, dal latifondo: nel primo caso, appezzamenti troppo piccoli per garantire un minimo di efficienza produttiva; nel secondo, vaste proprietà sottosfruttate o specializzate in produzioni agricolo-industriali di tipo coloniale. Ne consegue una scarsa diffusione delle colture alimentari, destinate al consumo interno, rendendo necessario il ricorso a massicce importazioni di derrate che gravano pesantemente sulla bilancia commerciale di alcuni Paesi. La situazione va però gradatamente migliorando grazie al migliore sfruttamento delle terre più ricche. Nuove colture, soprattutto cerealicole, sono andate aggiungendosi o sostituendosi a quelle più tradizionali e notevoli possibilità di sviluppo si collegano alle grandi opere idriche di sbarramento e canalizzazione. Le colture dominanti rimangono comunque quelle di piantagione, come la canna da zucchero, che a Cuba e nelle Antille conserva il carattere di monocoltura. La palma da cocco prevale nelle terre istmiche e caraibiche, come anche la coltura delle banane. Gli altopiani a terra roxa del Brasile rappresentano l'area più ricca delle piantagioni di caffè, che hanno un notevole sviluppo anche nelle tierras templadas istmiche e andine. Grandi produttori di caffè sono Colombia, Messico, Guatemala, Perú, oltre naturalmente al Brasile che, con 2,2 milioni di t, fornisce poco meno di un terzo della produzione mondiale ed è anche il massimo produttore latino-americano di cacao (220.000 t ca.). Nelle regioni del Pacifico caratterizzate da clima tropicale e subtropicale si praticano colture irrigue, di piantagione e orticole, altamente specializzate. In netto contrasto con questo settore “evoluto” appare la povera agricoltura india della regione andina, che conserva tradizioni risalenti all'epoca incaica. Quanto all'allevamento, le steppe della Patagonia costituiscono la regione dell'allevamento ovino, che si spinge sino alla Terra del Fuoco. Le grandi aree interne dell'America Meridionale sono invece un unico vasto dominio dell'allevamento bovino, che si estende dai llanos dell'Orinoco al Mato Grosso, sino alle pampas della regione platense, dove ha sempre avuto i suoi territori più produttivi (il Brasile, con oltre 200 milioni di capi, è il più grande Paese allevatore di bovini). Sia nelle regioni settentrionali e centrali sia nelle pampas, l'allevamento estensivo tradizionale tende però a essere sospinto ai margini dalle colture cerealicole (l'Argentina, con oltre 14 milioni di t, è il massimo produttore latino-americano di frumento). Anche la savana brasiliana, considerata in passato una terra povera, adatta solo all'allevamento del bestiame, offre condizioni assai favorevoli allo sviluppo agricolo (specie cerealicolo), grazie ai programmi di irrigazione dell'immenso territorio. § La zona mineraria più caratteristica è quella andina, soprattutto per quanto riguarda i minerali metalliferi. Fatta eccezione per l'argento, di cui Perú, Cile e Bolivia sono tra i maggiori produttori mondiali, e l'oro nel caso del Perú (quinto produttore mondiale), scarsa importanza rivestono ormai i metalli nobili. Rilevante, invece, la produzione di rame (Cile, primo produttore mondiale, e Perú, il terzo), stagno (Perú, Bolivia, Brasile), antimonio (Bolivia), manganese (Brasile), bauxite (di cui Giamaica, Brasile, Venezuela, Suriname, Guyana, Repubblica Dominicana forniscono ca. un terzo della produzione mondiale). Non manca il ferro, che ha i suoi principali giacimenti nei massicci della regione nordorientale (Brasile, Venezuela). L'America Latina è invece povera di carbone e relativamente recente è la valorizzazione del petrolio, cui ha contribuito, oltre alla scoperta di nuovi importanti giacimenti in Venezuela, anche l'entrata in attività di giacimenti, come quelli amazzonici, che in passato, per la loro ubicazione in zone scarsamente accessibili, risultavano antieconomici. Anche le risorse off shore al largo della costa brasiliana stanno assumendo un'importanza crescente. Tra gli altri Paesi produttori figurano Trinidad, che dal petrolio ricava ben più dei due terzi del valore delle merci esportate, l'Ecuador, la Colombia, l'Argentina. Alla relativa povertà di risorse energetiche l'America Meridionale può tuttavia supplire con una enorme potenzialità di energia idroelettrica, solo in minima parte sfruttata e di cui è in corso la valorizzazione: sul fiume Paraná è in funzione la diga di Itaipu, tra le più grandi del mondo. La costruzione di nuove centrali idroelettriche dovrebbe contribuire a dare impulso all'industrializzazione, sinora basata essenzialmente sull'attività di trasformazione dei prodotti agricoli e sull'industria tessile, consentendo di potenziare anche settori di base come il siderurgico e il metallurgico; già rimarchevoli sono stati i progressi realizzati nel settore meccanico, soprattutto per quanto riguarda la produzione di elettrodomestici, autoveicoli e macchine agricole (particolarmente tumultuoso è stato lo sviluppo industriale del Brasile, che produce ed esporta persino aerei e navi), grazie al crescente interesse dimostrato dalle società multinazionali nordamericane, europee e asiatiche, i cui investimenti si sono raddoppiati rispetto agli anni Settanta. Nuovi poli di sviluppo industriale sono sorti nelle regioni dell'interno, il che comporta la creazione di grandi opere infrastrutturali, a cominciare dalle vie di comunicazione; queste vanno, in tal modo, perdendo le caratteristiche coloniali che le contraddistinguevano, in quanto basate sul collegamento delle aree agricole e minerarie ai grandi centri portuali e urbani della costa. Le maggiori carenze si riscontrano ancora nella rete ferroviaria, ancora scarsa e con pochi raccordi continentali (malgrado le ardite ferrovie transandine, in via di dismissione); vertici delle comunicazioni sono San Paolo e Buenos Aires sull'Atlantico, Santiago e Lima sul Pacifico. Tra i progetti ferroviari, un posto di rilievo occupa la linea venezuelana che, lungo un percorso molto impervio di oltre 700 km, collega Caracas a Maracaibo e Ciudad Guayana, nuovo polo di sviluppo industriale sulle rive dell'Orinoco, in prossimità di ricchi giacimenti ferrosi. Progressi maggiori sono stati compiuti nel potenziamento della rete stradale, che nel suo complesso è però tutt'altro che unitaria; tra le nuove arterie di penetrazione verso l'interno spicca la Transamazzonica, la cui realizzazione ha tuttavia generato forti preoccupazioni per il pesante impatto ambientale determinato dall'apertura di un così profondo “taglio” nella foresta pluviale. Importanza fondamentale continua a rivestire la Carretera Panamericana che, attraverso la regione andina, collega l'America Centrale con l'America Meridionale. Discreto sviluppo hanno i trasporti aerei (soprattutto in Brasile), mentre generalmente carenti risultano le strutture portuali, soprattutto in relazione all'aumento degli scambi di Paesi come il Brasile o il Venezuela. Le crescenti esigenze del traffico hanno fatto sentire anche l'insufficienza del Canale di Panama e la necessità di una nuova e più ampia via d'acqua nella regione istmica. Verso l'Atlantico l'America Latina ha ancor oggi i suoi interessi maggiori, sia per quanto riguarda l'esportazione delle materie prime sia per l'importazione dei prodotti industriali richiesti ormai in misura massiccia. § Anche per l'America Latina, in ogni caso, il futuro sviluppo dell'economia sembra legarsi agli accordi di cooperazione: accanto alle organizzazioni già esistenti (SELA, Sistema Economico Latino-Americano; MCCA, Mercato Comune Centro-Americano; CARICOM, Comunità dei Caraibi; Patto Andino, che, dopo una fase di crisi, dal 1996 ha avviato la propria sostanziale ristrutturazione), assume una particolare il MERCOSUR (Mercato Comune dell'America del Sud, entrato effettivamente in vigore dal 1995 con la partecipazione di Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, cui si è aggiunto il Venezuela nel 2006). Il valore strategico del primo di tali accordi risiede nella partecipazione del Messico che, essendo anche membro del NAFTA, potrebbe svolgere una determinante funzione di raccordo economico e politico con l'America Settentrionale. A sua volta il MERCOSUR, con la progressiva armonizzazione dei dazi doganali fra i Paesi membri e di quelli applicati nei confronti di altre comunità economiche, viene a rafforzare una situazione di fatto per cui, già dal 1991, anno di stipula del preliminare, l'interscambio fra i quattro firmatari è notevolmente aumentato. Con l'associazione a esso di Bolivia e Cile (1996), di Perú (2003), Ecuador e Colombia (2004), ma soprattutto con l'integrazione a pieno titolo, ossia in qualità di Paese membro, del Venezuela (2006), l'America Meridionale tende così, finalmente, a quell'integrazione che, limitando contrasti e disuguaglianze, potrà rendere le sue immense risorse finalmente competitive nei confronti non soltanto del Nordamerica, ma dell'intero sistema mondiale.



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Esplorazione delle coste

Di contatti presi da europei con terre americane prima della scoperta colombiana si hanno notizie certe soltanto intorno al 900, quando i vichinghi, già stabilitisi in Islanda, nei loro viaggi verso ponente toccarono le coste meridionali di una grande isola, che chiamarono Terra Verde (Groenlandia), e dove il loro capo, Erik il Rosso, fondò una colonia . La certezza di questi sbarchi si è avuta con il ritrovamento in terra canadese dei resti di un antico villaggio vichingo, risalente al X secolo circa. La tradizione attribuisce la scoperta vera e propria dell'America a Cristoforo Colombo, sbarcato il 12 ottobre 1492 in un'isola delle Bahama, la Guanahani degli indigeni, dal navigatore ribattezzata San Salvador. Fecero seguito le scoperte di altre isole delle Bahama, poi di Cuba e di Haiti e, in viaggi successivi, di Dominica, di Guadalupa, Martinica, Portorico, Giamaica, Trinidad. Il continente fu toccato da Colombo nei pressi della foce dell'Orinoco al suo terzo viaggio, nel 1498. L'anno precedente, il veneziano Giovanni Caboto, al servizio dell'Inghilterra, era sbarcato sull'isola di Terranova e nel medesimo 1498 sulle coste del Canada e della Nuova Scozia, giungendo a capo Cod. Si moltiplicarono intanto i viaggi di esplorazione specie lungo le rotte tropicali. Una spedizione spagnola condotta da Alonso de Ojeda, al cui seguito era Amerigo Vespucci, tra il 1499 e il 1500, partendo dall'attuale Guayana Francese costeggiò il Brasile sino alla foce del Rio delle Amazzoni spingendosi poi verso S fino a capo San Rocco; di qui, invertendo la rotta verso N, costeggiò il litorale del Venezuela e della Colombia, fino al golfo di Venezuela e toccò le isole di Curaçao e Aruba. Le scoperte del Vespucci furono perfezionate e allargate dalle spedizioni spagnole di Pedro Alonso Niño (1500), Vicente Yáñez Pinzón, Diego de Lepe. La costa brasiliana fu riconosciuta nello stesso anno dal portoghese Pedro Alvares Cabral, mentre il compatriota Rodrigo de Bastidas costeggiò il golfo del Darién (1500-01). La conoscenza delle coste orientali dell'America Meridionale fu estesa verso S fin oltre Rio de Janeiro e forse fino all'estuario del Río de la Plata, da Amerigo Vespucci nel 1501-02, mentre nel corso della sua quarta spedizione Colombo traversò il Mar delle Antille fino alle coste dell'Honduras (1502-03). La connessione tra le due grandi masse subcontinentali, ormai evidente, doveva tuttavia essere dimostrata solo più tardi, dopo i viaggi di Juan Díaz de Solís e Vicente Y. Pinzón (Honduras, costa orientale dello Yucatán, 1508-09), di Sebastiano Caboto (Labrador e coste nordorientali degli Stati Uniti), di Juan Ponce de León, che scoprì la Florida, di Juan de Grijalva che nel 1519 dallo Yucatán giunse sino alla foce del Río Pánuco, di Alonso Álvarez de Pineda, che nello stesso anno completò l'esplorazione del Golfo del Messico partendo dalla Florida e riconoscendo le foci del Mississippi. Più a N, Giovanni da Verrazzano, nel 1524, costeggiò l'attuale Carolina fin verso la Nuova Scozia, esplorando la foce del fiume Hudson. Iniziavano intanto le ricerche di un passaggio marittimo che, aggirando a S il continente, portasse all'oceano Pacifico. Il primo tentativo di Juan Díaz de Solís, negli anni 1515-16, non andò oltre l'estuario del Río de la Plata. Fu il portoghese Ferdinando Magellano, al servizio della Spagna, che per primo circumnavigò il continente nel 1520, scoprendo lo stretto che porta il suo nome e risalendo lungo la costa pacifica fino all'altezza dell'odierna Valparaíso. Il rilevamento dettagliato della costa sudoccidentale dell'America Meridionale è opera di Alonso de Camargo che, risalendo dallo stretto di Magellano, giunse fino al Perú con una lunga navigazione che si concluse nel 1540. La Terra del Fuoco fu aggirata soltanto nel 1616 dagli olandesi Schouten e Lemaire, alla ricerca di un passaggio meno pericoloso dello stretto di Magellano. Dei contorni della costa occidentale dell'America Settentrionale si venne a conoscenza attraverso il viaggio compiuto lungo la penisola della California da Francisco de Ulloa nel 1539, e attraverso quello che nel 1542 portò Juan Rodriguez Cabrillo dal Messico alla baia di San Francisco, donde Bartolomeo Ferrel proseguì verso N fino in prossimità del capo Mendocino. Le esplorazioni spagnole subirono un periodo di arresto fino al 1592, anno in cui Juan de Fuca scoprì lo stretto che porta il suo nome. Solo nel sec. XVIII navigatori per la maggior parte inglesi compirono ricognizioni lungo le coste comprese tra lo stretto di Juan de Fuca e il Mare Artico, che il danese Bering aveva già in parte visitate tra il 1728 e il 1741: James Cook costeggiò la Columbia Britannica e l'Alaska fino al capo Principe di Galles, spingendosi poi, nel 1778, per un lungo tratto nel Mare Artico; George Vancouver riconobbe minutamente la costa della Columbia Britannica e i vari arcipelaghi che l'accompagnano. L'esplorazione completa del contorno settentrionale dell'America si concluse solo nella prima metà del sec. XIX con gli inglesi Parry (1819-21) e McClure (1850-52) che fecero seguito ai lontani tentativi di Martin Frobisher (1576-78) e John Davis (1585-87). Ma è soltanto nel 1903-06 che Amundsen riuscì a percorrere interamente il passaggio di Nord-Ovest ricercato da oltre tre secoli collegando, attraverso l'arcipelago Artico Americano, l'Atlantico al Pacifico.



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Esplorazione dell’interno

Parallelamente era iniziata la penetrazione nell'interno del continente: Vasco Nuñez de Bálboa, movendo dal golfo del Darién, risalì il Río Atrato e, attraversata la foresta tropicale, raggiunse per primo nel 1513 le acque dell'oceano Pacifico che egli chiamò Mare del Sud. Conquistato il Messico nel 1519, Hernán Cortés intraprese nuove esplorazioni, oltre che nella regione messicana, anche in quella dell'istmo. Due anni più tardi, accompagnato da Diego de Almagro, compì una nuova spedizione lungo le coste della Colombia e dell'Ecuador, giungendo sino al Perú (1525). Francisco de Orellana, partito da Quito, raggiunse attraverso il Napo il Rio delle Amazzoni, che navigò fino alla foce (1540-42). L'esplorazione fluviale del Paraná è opera di Sebastiano Caboto, che risalì il fiume fino alla confluenza con il Pilcomayo (1527- 29); sulle sue tracce, proseguendo lungo il Pilcomayo, tra il 1547 e il 1548 Domingo de Irala raggiunse il Perú, donde nel 1536 Sebastián Belalcázar era partito per incontrare, lungo il bacino del Río Magdalena, la spedizione di Quesada proveniente dalla costa caribica. Anche qui, come per la Nuova Spagna, si arrestano i progressi delle conoscenze geografiche dell'interno, che in seguito solo i missionari percorreranno per la loro opera di evangelizzazione. L'esplorazione scientifica inizia soltanto tra la fine del sec. XVIII e il principio del XIX con gli studi di Humboldt, che visitò Venezuela, Colombia ed Ecuador, sollecitando con il suo esempio parecchie altre missioni scientifiche. Tra i numerosi esploratori che percorsero in tutti i sensi il territorio, dandone un quadro pressoché completo, è da ricordare il francese Francis de Castelnau che, tra il 1843 e il 1847, ne compì la traversata da Rio de Janeiro a Lima, esplorando i bacini del Tocantins e dell'Araguaia e il Mato Grosso, tornando all'Atlantico lungo il Rio delle Amazzoni. All'inglese Musters si deve l'esplorazione della Patagonia (1869-70); una decina di anni più tardi Giacomo Bove si spingerà fino alla Terra del Fuoco, regione che il missionario Alberto De Agostini visitò in seguito minutamente. Per quanto riguarda l'America del Nord, la penetrazione all'interno iniziò per opera di Francisco Vázquez de Coronado, che condusse tra il 1540 e il 1542 una spedizione che dal Messico settentrionale giunse agli altopiani desertici dell'Arizona fino al Gran Canyon del Colorado, ripercorrendo l'itinerario di frate Marco da Nizza, partito nel 1539 verso la leggendaria città di Cibola, che, magnificata come la maggiore delle sette “città dell'oro”, si rivelò un misero villaggio di indiani. Intanto Pánfilo de Narváez nel 1528, partendo dalla baia di Tampa, era giunto fino alla zona deltizia del Mississippi, dove trovò la morte. I superstiti della spedizione, condotti da Cabeza de Vaca, proseguirono, tra il 1528 e il 1534, il viaggio fino al golfo della California. Ritentò più a N la traversata del continente Hernando de Soto che, passato il Mississippi, risalì l'Arkansas, spingendosi fino agli Appalachi. Le difficoltà incontrate e il fallimento delle ricerche dei tesori sperati arrestarono i tentativi spagnoli di penetrazione verso l'interno, la cui iniziativa fu lasciata ai missionari che percorsero le terre tra le Montagne Rocciose e il Pacifico e ai quali si deve la fondazione di San Diego (1769) e di San Francisco (1776). È solo agli albori del sec. XIX che Alexander von Humboldt e la lunga serie di studiosi che ne seguiranno le tracce sveleranno i lineamenti precisi della Nuova Spagna. A NE la penetrazione si iniziò attraverso il golfo e il fiume San Lorenzo, che Jacques Cartier percorse nel 1541 fino a Montréal, emulato da Samuel Champlain che successivamente, tra il 1608 e il 1616, scoprì il lago che da lui prenderà il nome e raggiunse i laghi Ontario e Huron. Nel 1634, Jean Nicolet scoprì il lago Michigan e qualche anno più tardi i gesuiti francesi Chaumont, Brebeuf l'Erie e Raymbault toccarono il Lago Superiore, fondando numerose missioni. Dal lago Michigan, nel 1673, il gesuita Marquette raggiunse, attraverso il fiume Wisconsin, il Mississippi, che discese fino alla confluenza con l'Arkansas, ritornando poi lungo il fiume Illinois fino a Chicago, mentre Robert Cavelier de La Salle, nel 1681, compì, con l'italiano Enrico Tonti, la discesa dell'Ohio e quindi del Mississippi fino alla foce, prendendo possesso in nome della Francia di tutta la regione solcata dal grande fiume, che chiamò Louisiana in onore di Luigi XIV. Alla più dettagliata conoscenza dell'interno del continente portarono valido contributo i viaggi del gesuita Charlevoix, che percorse le rive dei Grandi Laghi e visitò l'alto bacino del Mississippi, e quelli di Pierre Gaultier de la Vérendrye, che toccò i laghi Woods e Winnipeg, scendendo poi lungo l'Assiniboine fino al Missouri (1731-40), mentre nel 1742 i suoi due figli attraversarono il Paese dalla baia di Hudson fino ai piedi delle Montagne Rocciose. Con la fine del sec. XVIII, dopo la formazione degli Stati Uniti, la spinta dei pionieri anglosassoni verso W proseguì con rapidità. Tra il 1804 e il 1806, gli statunitensi Lewis e Clark risalirono il Missouri, valicarono le Montagne Rocciose e raggiunsero il Pacifico. Iniziò così l'esplorazione sistematica degli USA promossa dal governo federale con numerose spedizioni, tra cui sono da ricordare quelle di Pike (1805-07), di Long (1819-23) e di Costantino Beltrami (1823). L'esplorazione delle regioni subartiche venne effettuata prima dai cacciatori di pellicce francesi, più tardi da quelli inglesi che, dalla baia di Hudson, penetrarono, nel corso del sec. XVIII, fin quasi alle Montagne Rocciose, seguendo il fiume Saskatchewan. Nel 1770-71 Hearne, partendo da Churchill sulla baia di Hudson, si portò a NW fino al fiume Coppermine, che discese fino al Mare Artico (golfo Coronation). Alexander Mackenzie, muovendo dal lago Athabasca, ne seguì l'emissario, esplorò il Gran Lago degli Schiavi e discese nel 1789 fino alla foce il fiume al quale sarà dato il suo nome. Qualche anno più tardi (1793), sempre partendo dal lago Athabasca, valicò le Montagne Rocciose giungendo al Pacifico lungo il corso del fiume Fraser. Nella prima metà del sec. XIX si effettuarono le spedizioni di Finlay e Macleod fra i monti della Columbia Britannica, il riconoscimento, da parte di R. Campbell e Bell, dell'alto corso del fiume Yukon e l'esplorazione del suo basso corso a opera del russo Zagorkin (1842-44).



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Preistoria

Sui tempi più remoti della preistoria americana si hanno ancora molte incertezze in quanto solo poche località del continente hanno restituito ossa animali bruciacchiate e resti di probabili focolari. Dall'analisi di questi reperti gli studiosi statunitensi hanno calcolato per l'America Settentrionale, col metodo del radiocarbonio, datazioni da 37.000 a 23.000 anni fa; secondo taluni studiosi europei le datazioni sono molto meno arcaiche, ca. da 15.000 a 10.000 anni fa. L'industria venuta in luce è povera e poco caratteristica e mancano il più delle volte resti ossei umani. Tra le sequenze più complete per l'America Meridionale, vi è quella della grotta di Pichimachay nel bacino di Ayacucho (Perú) dove sono state distinte (dalla più antica alla più recente) le tre fasi di: Pacaicasa, con strumenti su ciottolo, schegge, denticolati e percussori, datata tra 20.000 e 14.700 anni; Ayacucho, tra 15.000 e 13.000 anni da oggi; Huanta, mal definita e senza datazioni assolute. Alcuni autori non accettano tuttavia l'industria della fase Pacaicasa come intenzionalmente tagliata dall'uomo. Elementi più attendibili si hanno invece a partire dal XIII millennio, epoca alla quale vien fatta risalire la presenza dei primi popoli cacciatori e raccoglitori. Per l'America Settentrionale la successione delle culture si basa sulla rispettiva posizione stratigrafica (e associazione con fauna estinta) di vari strumenti litici caratteristici: in ordine cronologico, iniziando dalla più antica, vengono distinte così le culture di Sandia, di Clovis e di Folsom. Si giunge, con tale sequenza, fin verso il 7000, epoca nella quale le punte litiche con scanalatura, tipica dei precedenti periodi, sono sostituite da punte triangolari o foliate senza peduncolo, che vengono attribuite alle culture di Eden e Scotsbluff, dal nome delle rispettive località del Wyoming e del Nebraska. Parallelamente a questi ultimi complessi culturali se ne sono manifestati altri che vengono raggruppati col termine di cultura del deserto, attribuita a genti dedite alla caccia della piccola selvaggina nonché alla raccolta di vegetali: una delle facies più conosciute è quella detta di Cochise nell'Arizona. Essa presenta grossi utensili di pietra scheggiata che ricordano quelli europei della pebble culture. Nei tempi successivi, accanto ai prodotti della caccia ai grandi mammiferi, tra cui in primo luogo i bisonti, acquistano importanza sempre maggiore quelli derivanti dall'agricoltura, come è rilevabile dalla presenza di resti di macine, macinelli e vasi di terracotta per la conservazione delle sementi e dei raccolti. Nell'arco di alcuni millenni vediamo così succedersi vari gruppi culturali, che sono nel Messico quelli di El Riego, di Coxcatlan e di Abejas e negli Stati Uniti, con talune sovrapposizioni, quelli di Plainview, di Gypsum Cave, di Chiricahua e Cap Denbigh. Per l'America Meridionale si è tentato di derivare il popolamento continentale attraverso l'Oceano Pacifico, sulla base di analogie con alcuni aspetti culturali dell'area oceanica (propulsore, coltivazioni, clava sferoidale, classi matrimoniali, tipologia delle capanne), tuttavia mancano elementi sicuri a sostegno di questa ipotesi. La località che ha dato i resti più arcaici sembra essere quella di El Jobo in Venezuela, i cui strumenti di quarzite risalirebbero al XIV millennio; recenti ricerche nel sito peruviano di Ayacucho hanno inoltre consentito di individuare progenitori selvatici di piante coltivate nel Nuovo Mondo in livelli del XII millennio. I livelli più antichi della grotta Fell, in Patagonia, si possono attribuire al VII millennio e contengono grattatoi e coltelli di grossa taglia in basalto nonché punte litiche peduncolate assottigliate mediante una scanalatura centrale. Al V millennio risalirebbero invece i resti della stazione preistorica di Ayampitin, nella pampa argentina. Culture come quella di Huaca Prieta in Perú, dove tra il 2500 e il 1200 compaiono agricoltura e tessitura, ebbero lunga durata. Piuttosto singolare è infine il deposito di El Inga, presso Quito, che presenta strumenti di ossidiana di forma e tecnica molto affini a quelle del Gravettiano europeo e la cui attribuzione cronologica è quindi piuttosto controversa. La distinzione fra popolazioni dedite alla caccia e all'agricoltura viene talvolta sostituita da un'altra classificazione che distingue per la preistoria americana cinque periodi: litico, arcaico, formativo, classico e postclassico.



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Storia: da Colombo al primo Stato sovrano

L'America è entrata nel circolo generale della civiltà mondiale dal sec. XVI, attraverso le fasi prima della scoperta, poi della conquista e colonizzazione da parte degli Europei, infine dell'indipendenza dei numerosi Stati sorti dai precedenti domini coloniali . Al momento della scoperta, cominciata col primo viaggio di Colombo nel 1492, l'America contava una popolazione che calcoli recenti stimano dai 40 agli 80 milioni di individui: quelli che vennero impropriamente chiamati Indiani (Indios) dagli Europei. Ma questi Amerindi erano molto inegualmente distribuiti sull'immenso spazio dell'America Settentrionale e Meridionale; solo in poche zone, per favorevoli condizioni ambientali, si ebbero insediamenti stabili e numericamente rilevanti, con il conseguente sviluppo di civiltà relativamente avanzate. Così le civiltà maya e azteca, in quelli che oggi sono il Guatemala e parte del Messico; così, nell'attuale Perú, quella incaica. Nessuna di queste civiltà, tuttavia, era riuscita a superare la fase calcolitica (età della pietra e del rame), pur avendo raggiunto un livello elevato nei campi dell'ordinamento politico e sociale, dei calcoli astronomici, dell'architettura: si erano protese, per così dire, nella dimensione teorica, sino alla religione inclusa, arrestandosi, invece, di fronte a ritrovamenti pratici fondamentali, quale la ruota, che non conobbero. Gli altri Amerindi erano rimasti, in generale, alquanto più indietro nel cammino dell'evoluzione, in una scala che andava da condizioni ancora primitive a condizioni più progredite (i Chibcha della Colombia, i Pueblos stanziati fra Messico settentrionale e Stati Uniti sudoccidentali). Su queste varie popolazioni si abbatté, all'inizio del sec. XVI, l'impeto dei conquistatori europei, che in breve tempo sconquassò l'America india, aprendo la strada all'attuale America sostanzialmente europea. La debolezza intrinseca delle stesse maggiori civiltà amerindie fu rivelata dalla facilità con la quale i conquistadores spagnoli abbatterono il dominio degli Aztechi e l'impero degli Inca. Cortés, con poco più di trecento uomini, sottomise in soli tre anni (1519-22) il vasto impero degli Aztechi nel Messico centrale; Pizarro e Almagro, con un numero inizialmente anche minore di uomini, si impadronirono tra il 1531 ed il 1534 di quell'impero incaico che aveva saputo organizzare in una rigida e complessa struttura sociale 8-10 milioni di Quechua e di Aymará. Le spedizioni di Cortés e di Pizarro erano avvenute quando ormai il progresso delle esplorazioni aveva dimostrato che le Indie erano in realtà un altro continente, separato dall'Asia dall'Oceano Pacifico, visto per primo da Balboa nel 1513; su questo continente, dunque, si impiantarono i domini coloniali degli Europei, anzitutto Spagnoli e Portoghesi. Sin dal 4 maggio 1493, con la bolla di papa Alessandro VI, Spagna e Portogallo si erano divise le nuove terre appena scoperte: una linea ideale N-S da polo a polo, la raya divisoria, passante 100 leghe a W delle Azzorre, assegnava i territori a oriente al Portogallo, quelli a occidente alla Spagna. L'anno seguente, col Trattato di Tordesillas del 7 giugno, le due potenze si accordavano per spostare la linea a 370 leghe, anziché 100, ad W delle Azzorre. Questa prima spartizione coloniale dell'America doveva segnare per sempre il destino della maggior parte del continente: portoghese in quello che sarà il Brasile, spagnolo nel resto dell'America Meridionale, in quasi tutta l'America Centrale e in parte dell'America Settentrionale. Il rimanente dell'America Settentrionale ebbe sorte diversa, diventando in parte inglese e in parte francese, mentre fallirono i tentativi degli Olandesi di insediarsi stabilmente nel Brasile e nella zona dell'odierna New York. I domini spagnoli, organizzati rispettivamente nel 1535 e nel 1542 nei due vicereami della Nuova Spagna (Messico) e del Perú (che poi subiranno diverse suddivisioni amministrative), furono tenuti come colonie di sfruttamento: delle ricchezze naturali e della popolazione india, duramente asservita a estrarre e coltivare tali ricchezze per i padroni europei. Gli Spagnoli si erano appunto gettati sull'America non come colonizzatori, ma come conquistatori, bramosi dell'oro; e questa mentalità conserveranno anche quando l'America, più che oro e argento, fornirà la vasta gamma dei suoi prodotti naturali, agricoli e minerari. Anche la conquista di nuove anime alla fede cristiana fu uno dei moventi dell'espansione spagnola in America, risolvendosi in conversioni forzate ma anche nei primi interventi a tutela degli Indios. Questi furono praticamente ripartiti fra i nuovi padroni, in generale col sistema delle encomiendas, che li asserviva alla prestazione di lavoro come pagamento dei tributi imposti dai conquistatori. La rapacità fiscale e il monopolio dei commerci secondo il più rigido mercantilismo, il centralismo e l'assolutismo caratterizzarono il sistema coloniale spagnolo, che quindi gravava non solo sugli Indios, sui neri importati dall'Africa come schiavi, sui meticci e sui mulatti, che costituivano la grande maggioranza della popolazione, ma anche sui creoli, i bianchi discendenti dagli Spagnoli trasferitisi oltreoceano. L'avversione dei creoli contro gli Spagnoli sarà uno dei moventi delle lotte per l'indipendenza. Non molto diverso fu il regime coloniale portoghese nel Brasile, sviluppatosi più tardi, dalla seconda metà del sec. XVII. D'un secolo ca. posteriore alla scoperta dell'America fu l'inizio della colonizzazione francese e inglese nell'America Settentrionale. I Francesi cominciarono a stanziarsi dall'inizio del Seicento lungo il San Lorenzo, dando origine alla Nuova Francia (ora Canada), retta con i sistemi feudali e assolutistici della madrepatria. Gli Inglesi invece, giunti anch'essi nei primi decenni del Seicento, avendo abbandonato la terra natia per motivi religiosi, portarono ed impiantarono sulle coste della Nuova Inghilterra quei principi di libertà religiosa e politica che dovevano dare un'impronta caratteristica alle tredici colonie sviluppatesi tra l'Atlantico e i monti Appalachi. Al contrario delle spagnole, quelle inglesi furono colonie di popolamento, nelle quali una robusta razza di pionieri, dediti soprattutto all'agricoltura, si creò una nuova patria, legata alla vecchia dalla dipendenza politica e dai vincoli del mercantilismo, ma dotata di ampia autonomia interna. Nelle guerre del Settecento fra Inghilterra e Francia i coloni inglesi diedero il loro apporto, indottivi in primo luogo dall'interesse di impedire che i Francesi, saldando la Nuova Francia con la Louisiana (occupata alla fine del Seicento) lungo l'arco del Mississippi, li chiudessero alle spalle, stringendoli fra l'Atlantico e i monti. Così il sogno d'un grande impero francese in America svanì quando sembrava prendere consistenza; con la Pace di Parigi del 10 febbraio 1763, a conclusione della guerra dei Sette anni, la Francia cedeva il Canada all'Inghilterra e la Louisiana alla Spagna. Subito dopo la comune vittoria, e come sua conseguenza, Londra e le tredici colonie entrarono in conflitto: il 4 luglio 1776 le colonie proclamarono l'indipendenza, col nome di Stati Uniti, conquistandola poi sui campi di battaglia e ottenendola col Trattato di Parigi del 10 settembre 1783. Sorgeva così il primo Stato indipendente in America, esempio e stimolo indiretto all'America spagnola.



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Storia: il XIX secolo

Anche l'America spagnola, qualche decennio dopo, dal 1810 al 1825, conquistava la sua indipendenza da una Spagna in piena decadenza e colpita dall'occupazione napoleonica. Ma l'indipendenza politica delle nuove Repubbliche non comporterà, per lungo tempo, modifiche alle strutture sociali, poiché il predominio effettivo resterà all'oligarchia fondiaria. La storia dell'America Latina, in un secolo e mezzo d'indipendenza, compreso anche il Brasile (divenuto impero indipendente nel 1822, passato alla forma repubblicana nel 1889), si può riassumere, come schema generalissimo, nelle tormentate vicende sociali che hanno visto il lento ascendere delle clases medias contro l'oligarchia e poi l'apparizione del proletariato nei Paesi più evoluti e negli altri la crescente insofferenza, sino alla rivoluzione, delle masse diseredate. Il tipico fenomeno del caudillismo è l'espressione di questo processo, così come il peronismo in Argentina e il castrismo a Cuba ne sono esiti diversi, ma sempre prodotti dalle peculiari condizioni d'un continente che si trova in crisi permanente. Ad aggravare questa crisi ha concorso e concorre in maniera decisiva il pesante intervento del capitale straniero, nel sec. XX in forte prevalenza nordamericano. Gli Stati Uniti hanno infatti seguito, dall'indipendenza a oggi, un cammino ben diverso da quello delle Repubbliche latino-americane, attraverso un gigantesco processo di crescita economica, trasformandosi da Paese preminentemente agricolo alla più ricca e avanzata potenza industriale del globo. Di pari passo è andata l'evoluzione politica, con la dilatazione e l'approfondimento della peculiare democrazia americana, egalitaria ancora più che liberale. Sul piano territoriale, gli Stati Uniti, che nel 1783 comprendevano le antiche tredici colonie e i territori a W di esse fino al Mississippi, nella prima metà dell'Ottocento si sono estesi fino al Pacifico, su quello che è ancora oggi il loro territorio, tra Canada a N e Messico a S. L'America anglosassone si è così appropriata di quel poco che ancora restava dell'America francese nella Louisiana (retrocessa dalla Spagna alla Francia) e di non piccola parte dell'America spagnola e poi messicana, dalla Florida al Texas alla California. Anche l'abbozzo di America russa, nell'Alaska, fu nel 1867 incorporato, mediante acquisto, negli Stati Uniti, che così per la prima volta si ampliavano al di là della continuità territoriale. Nell'ultimo decennio del sec. XIX, infine, l'espansione degli Stati Uniti si diresse anche fuori del continente americano, con l'annessione delle isole Hawaii, di parte delle Samoa e di Guam, mentre, in seguito alla vittoria sulla Spagna (1898), passavano sotto il loro dominio le Filippine (che diverranno indipendenti nel 1946) e Puerto Rico. Questa partecipazione alle imprese tipiche dell'età dell'imperialismo era tuttavia considerata negli Stati Uniti un'eccezione rispetto all'indirizzo fondamentale della politica estera, che restava sempre l'isolazionismo.



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Storia: dagli inizi del Novecento ai giorni nostri

Occorse che la prima guerra mondiale prendesse durata e proporzioni inattese perché gli Stati Uniti vi partecipassero, dal 2 aprile 1917, schierandosi a fianco dell'Intesa, alla cui vittoria dettero un contributo capitale con le loro inesauribili riserve di uomini, armi e materiali. Benché l'isolazionismo fosse stato inesorabilmente colpito da questo intervento nel conflitto mondiale, l'opinione pubblica e i dirigenti americani si illusero di poterlo ancora tenere in vita nel ventennio successivo, con gravi conseguenze per l'equilibrio internazionale, al quale venne a mancare l'apporto di quella che di fatto era ormai una delle maggiori potenze. Rimasti formalmente estranei alla fase europea della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti vi si inserirono attivamente dopo l'attacco giapponese a Pearl Harbor (7 dicembre 1941); da quel giorno, sino alla vittoria finale (1945) prima sulla Germania e poi sul Giappone, assunsero la guida della grande alleanza contro le potenze totalitarie. Il loro contributo alla vittoria fu, sotto tutti gli aspetti, assai più decisivo che nella prima guerra mondiale. Nel dopoguerra, abbandonato definitivamente l'isolazionismo, la politica estera di Washington fu elemento determinante dell'intera politica internazionale: in particolare, per i rapporti con gli altri Paesi del continente americano, gli USA, che fin dalla proclamazione della dottrina Monroe (1823) avevano mostrato speciale interesse per l'America Latina, tesero sempre più a includerla nella propria sfera d'influenza economica e politica. Nell'ultimo ventennio del sec. XX l'America Latina era interessata da un ampio movimento che in modo progressivo, anche se a volte contraddittorio, consentiva che nel subcontinente, dopo lunghi periodi di dittature, si riaffermassero i valori democratici alla base delle costituzioni dei vari Stati. Anno cruciale di questa ripresa era il 1983, quando l'Argentina tornava con Raúl Alfonsín alla vita democratica dopo lunghi periodi di dittature sanguinarie. L'anno successivo era l'Uruguay a liberarsi di oltre un decennio di dominio militare e all'inizio del 1985 toccava al Brasile inaugurare una nuova stagione democratica lasciandosi alle spalle 21 anni di dispotismo dell'esercito. Fermenti positivi si avevano anche fra gli Stati dell'America Centrale, dove tornavano alla democrazia il Guatemala (1985) e Panamá (1989). Dal 1986, debellata la sanguinosa dittatura dei Duvalier, anche a Haiti si ponevano le condizioni per un ripristino della sovranità popolare: un processo con fasi alterne e che per affermarsi definitivamente doveva contare sulla decisione del presidente statunitense Bill Clinton che nel 1994 rompeva gli indugi e imponeva il reintegro del presidente Aristide, eletto nel 1990 e defenestrato l'anno successivo. La lotta contro il dispotismo, che in America Latina ha spesso coinciso con la lotta per la sopravvivenza dei ceti popolari contro le oligarchie fondiarie, assumeva un esito peculiare in Nicaragua. Qui, dopo la vittoria sandinista contro il regime di Somoza (1979), si era messa mano a un programma di trasformazione della società in senso socialista. Il timore che si ripetesse una vicenda analoga a quella cubana induceva l'amministrazione Reagan ad avviare un piano di destabilizzazione del Paese basato sui massicci aiuti al movimento guerrigliero antisandinista dei contras. Ciò determinava anche seri rischi di una internazionalizzazione del conflitto; ma, anche per l'attiva partecipazione dei Paesi dell'area, si poteva scongiurare il pericolo grazie a un accordo sottoscritto tra le parti (1990) che consentiva elezioni democratiche e il successivo mantenimento di uno Stato di diritto. Alla fine degli anni Ottanta un altro grande Paese latino-americano, il Cile, metteva la parola fine al lungo dispotismo del generale Pinochet attraverso un pacifico processo di transizione e la restaurazione del sistema democratico. Mentre nel 1992 anche nel Salvador prendeva il via un processo di pacificazione interna, una grande instabilità permaneva, invece, nella vita della Colombia, stretta tra le alterne iniziative di gruppi guerriglieri e il vero e proprio contropotere rappresentato dalla mafia del narcotraffico. Le tentazioni autoritarie, d'altro canto, erano sempre all'ordine del giorno in un'area dove continuavano a proliferare, in virtù di un retaggio storico e delle grandi contraddizioni attuali, numerosi gruppi guerriglieri di varia formazione ideologica. Il bilancio complessivamente positivo per il ripristino della democrazia in molti Paesi latino-americani non significa, comunque, che nell'area si possa considerare compiuto un processo di stabilizzazione politica. La maggioranza di questi Stati, infatti, doveva fare i conti con crisi economiche e dissesti finanziari di proporzioni gigantesche (un debito estero complessivo di oltre 430 miliardi di dollari). E tutte le politiche di risanamento si scontravano con un inasprimento delle tensioni sociali che determinavano anche l'esplosione di vere e proprie rivolte da parte di una popolazione che vedeva abbassarsi sempre più un tenore di vita già a livelli minimi. Al problema si tentava di rispondere con il Piano Brady che prevedeva l'azzeramento del debito attraverso un massiccio incremento dei crediti da parte dei Paesi industrializzati e con l'avvio di decise politiche liberiste. Una modernizzazione emblematizzata dall'esperienza del Messico che nel 1990 sembrava avviarsi verso un impetuoso sviluppo. Ma il sistema si dimostrava ancora fragile ed esposto a tutti i rischi di un mercato selvaggio, come si evidenziava nella catastrofe finanziaria del 1994, che non aveva conseguenze più gravi solo per il massiccio intervento finanziario degli USA, preoccupati che la crisi messicana potesse trascinare con sé anche l'insieme del sistema nordamericano. Un discorso a parte merita la situazione di Cuba, un'anomalia non solo rispetto al continente, ma allo stesso panorama mondiale. Il Paese, una volta cessati gli aiuti sovietici con il crollo dell'URSS, si era venuto a trovare in una grave crisi economica che coinvolgeva l'isola caribica anche sul piano politico. La fine della divisione del mondo in due blocchi contrapposti, determinatasi nell'ultimo decennio del sec. XX, aveva importanti conseguenze anche per gli Stati Uniti. La potenza nordamericana si trovava ad assumere sulla scena mondiale un ruolo enormemente dilatato che la portava a impegni più diretti, come nella grave crisi regionale aperta dall'invasione irachena del Kuwait e sfociata nella guerra del Golfo (1991), nell'invio dei marines in Somalia nel tentativo di porre fine alla guerra civile (1992), o ancora negli attacchi all'Afghanistan (ottobre 2001) volti a destabilizzare il governo dei Taliban, accusati di proteggere i responsabili degli attentati del settembre 2001 contro il World Trade Center di New York e il Pentagono (Washington). La conclusione di un certo tipo di confronto con il blocco comunista, che aveva caratterizzato le amministrazioni repubblicane di Reagan e Bush, consentiva nel Paese la riapertura di un dibattito serrato sui problemi interni, in particolare sulle difficoltà economiche e sociali evidenziate dagli effetti della deregulation reaganiana. Ciò favoriva il forte recupero dei democratici, che riuscivano a interrompere 12 anni di predominio repubblicano con l'elezione alle presidenziali di Bill Clinton (1992), riconfermato nel 1996. Il Partito repubblicano riconquistava la presidenza con l'elezione di G. Bush nel 2001. Sempre vive, ancora nello scorcio del secondo millennio, le tensioni separatiste in Canada, alimentate dalla decisa volontà secessionista della componente francofona del Québec. Il Bloc québécois, forte della vittoria elettorale del 1994, rilanciava un referendum (1995) che si concludeva, però, con la respinta dell'ipotesi separatista (50,6% contrari).Al di là di questi contrasti, l'elemento caratterizzante la storia dell'ultimo scorcio del Novecento di entrambe le Americhe è stato lo sviluppo dei processi d'integrazione economica. Nel 1989 infatti entrava in vigore l'accordo di libero scambio tra Canada e Stati Uniti (FTA, Free Trade Association), mentre nell'America centro-meridionale la nascita del Mercato Comune Sudamericano (MERCOSUR, 1991) si sommava al rilancio delle organizzazioni regionali già esistenti (il Mercato Comune Centroamericano del 1960, la Comunità andina del 1969, la Comunità dei Caraibi del 1973, il Gruppo di Rio del 1986). Intanto il FTA si ampliava al Messico (trasformandosi in NAFTA, North American Free Trade Agreement) nel 1994, anno in cui il primo summit delle Americhe tenuto a Miami faceva decollare il progetto di una zona di libero scambio fra tutti i Paesi del continente a esclusione di Cuba. La spinta unitaria impressa da queste politiche e da questi organismi, favorendo una crescita economica complessiva, ha accentuato la sensazione di un destino comune del continente e facilitato in America centrale e meridionale la cicatrizzazione di vecchi conflitti e controversie territoriali (come quelle tra Cile, Bolivia e Perú, risalenti a una guerra e a contestazioni territoriali di più di cent'anni or sono, o quelle tra Ecuador e Perú e tra Cile e Argentina), anche se permangono nell'area dispute per il controllo delle acque fluviali e marine tra Honduras, Nicaragua e Costa Rica e contese tra Venezuela e Guyana per il territorio di Essequibo. Tuttavia l'integrazione economica, e i connessi progressi ottenuti nella lotta alla corruzione e al narcotraffico, non ha implicato in Sudamerica né un progresso della cooperazione politica sovranazionale né, all'interno dei singoli Stati, un automatico miglioramento delle condizioni di vita e di quelle sociali e un omogeneo avanzamento della democrazia. Benché nell'ultimo decennio del XX secolo si sia riscontrata una maggiore stabilità dei regimi democratici e una generale diminuzione della povertà, si è altresì verificato un aumento della forbice tra ricchi e poveri (questi ultimi stimati tra i 150 e 200 milioni su un totale di 446 milioni di abitanti) e della criminalità, che sovente è espressione di individuali sentimenti di rivolta. Alcuni Paesi hanno registrato storiche alternanze di governo: in particolare la Costa Rica, con la sconfitta elettorale del partito del presidente uscente (1998), e il Messico, dove il Partito Rivoluzionario Istituzionale, da settant'anni al potere, ha subito una disfatta alle elezioni (1997) e perduto la presidenza della Repubblica (2000) a vantaggio del Partito d'Azione Nazionale, consacrando così la democratizzazione del Paese. Altrove però – in Brasile, Honduras e Salvador – le consultazioni politiche tenute tra il 1997 e il 1999 hanno contraddetto la tendenza all'alternanza di governo, oppure hanno fatto emergere situazioni d'instabilità e forti tensioni sociali, espresse mediante scioperi e manifestazioni violente, come in Ecuador, Bolivia, Venezuela, Paraguay; in Argentina il presidente Fernando De la Rua, eletto nel 1999, era costretto a dimettersi (dicembre 2001) in seguito agli scontri di piazza scoppiati per la grave crisi economica che affliggeva il Paese, vedendo succedergli, incaricato dal Congresso, il peronista Eduardo Duhalde. Diverso il caso della regione messicana del Chiapas: qui infatti la resistenza armata delle popolazioni indigene organizzate dall'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, iniziata nel 1994, ha trovato nel 2000 un primo momento di pacificazione e di trattativa con il governo. È su questo contraddittorio sfondo che l'America centro-meridionale ha assistito alla vigilia del terzo millennio al delinearsi di due aree geopolitiche: l'una, comprensiva del Brasile, dell'Argentina e dell'Uruguay, meno soggetta all'influenza degli USA e in grado di sviluppare rapporti autonomi con l'Europa e l'Asia, e l'altra, grosso modo comprendente la zona che dal Messico va alla Bolivia e al Paraguay, meno sviluppata e più dipendente dagli Stati Uniti, che da parte loro hanno proseguito nella tradizionale strategia di controllo del Sudamerica, fondandola non più sulla lotta al comunismo (residualmente rimasta solo nei confronti di Cuba, sottoposta a un soffocante embargo), ma sulla difesa delle democrazie e sulla lotta al traffico della droga. Pur avendo restituito alle autorità di Panamá la piena sovranità dell'omonimo canale (1999), gli USA si sono in questo modo riproposti come naturale Stato leader dei processi di integrazione economico-politica continentali imposti dalla globalizzazione liberista, scontando tuttavia anche essi al loro interno risultati insoddisfacenti: accanto alle crescenti tensioni commerciali con l'Europa, infatti, si è verificato un sostanziale fallimento delle politiche sociali dirette a livellare le ineguaglianze e ad abbassare la povertà, mentre la riforma dell'assistenza ha finito per decurtare le prestazioni, e quindi il reddito effettivo, del 10% delle famiglie statunitensi. Per maggiori informazioni, si vedano i paragrafi di storia alle voci dei singoli Paesi.



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Le religioni dei popoli autoctoni

Risalendo alle origini della civiltà dei popoli amerindi con il soccorso dei reperti archeologici e, per le civiltà superiori, dei monumenti architettonici e delle opere di scultura, oreficeria e ceramica, troviamo che le prime manifestazioni religiose hanno come denominatore comune l'animismo: gli Inca veneravano i sepolcri dei loro morti sulle montagne, sui piccoli corsi d'acqua e talora anche nei focolari domestici e in questo non differivano dalle popolazioni stanziate nel bacino amazzonico, del Río della Plata e della Pampa; gli Aymará veneravano divinità terrestri, progenitori della loro razza; sulle Ande boliviane gli abitanti avevano una ricca mitologia cosmogonica, che identificava l'uomo con l'ambiente che lo circondava; Maya e Aztechi riconoscevano come dei Quetzalcoatl e Huitzilopochti; nel Nord vivevano tribù che possedevano un proprio totem, identificato in un animale mitico e alla sua immagine dedicavano un culto ancestrale; altre popolazioni invece erano rimaste all'animismo. Oggetto di culto erano però anche le forze della natura e gli astri: tra gli Indiani della Costa nordoccidentale del Pacifico una divinità centrale era rappresentata dal cielo luminoso o Thait, mentre presso gli Indiani delle Praterie, dove era sviluppata la credenza in un misterioso potere vitale (“Wakan”) che permea tutte le forme e forze naturali, tra le realtà assunte ad oggetto dell'esperienza religiosa grande rilievo avevano il Sole, la Luna, il tuono, il fulmine, il vento; i popoli andini veneravano le cime innevate; presso gli Inca la divinità principale era il Sole (Inti) e i monarchi erano detti figli del Sole e governavano in suo nome; nelle altre maggiori civiltà (maya, azteca), il culto del Sole non era predominante ma si accompagnava a quello della Luna, di Venere, dei quattro punti cardinali, di specifiche costellazioni. Un posto particolare occupava anche il culto dei morti, che erano venerati come divinità familiari, come testimoniano i tempietti funebri; gli Inca dedicavano ai morti feste speciali. Presso i popoli più evoluti si era costituito un sacerdozio ben organizzato, che curava la liturgia dei sacrifici, dei canti, dei balli e delle preghiere. Ai sacerdoti spettava anche l'incarico di fissare il calendario, di distribuire le feste, di curare l'orientamento dei templi. Presso gli Inca esisteva anche il collegio delle sacerdotesse (acllacuna, “donne scelte”, le “elette”), che avevano la cura del fuoco sacro, delle vesti sacerdotali, del servizio religioso presso il monarca e dell'istruzione delle giovinette; i sacerdoti godevano di grande autorità e i massimi, come il sommo sacerdote (villac umu), erano sempre scelti fra i parenti prossimi del monarca. I sacrifici agli dei andavano da una semplice libagione di chicha fino all'offerta di cuori umani (Toltechi, Chichimechi, Aztechi). Credevano infatti che la forza vitale del cuore umano fosse l'unica capace di alimentare le energie del Sole e degli altri astri per splendere e percorrere le vie del cielo. Le vittime erano ragazzi, destinati dai loro genitori a vivere con gli dei, o prigionieri di guerra. I templi dovevano essere sempre in posizione elevata e perciò, fra gli Inca, erano costruiti su piccoli rialzi naturali, mentre i Maya e gli Aztechi eressero piramidi tronche, in cima alle quali costruivano il tempietto dove erano collocate le immagini degli dei. I resti più monumentali si possono ammirare a Tenochtitlán, Tlaxcala, Tlacopán, Tula e Oaxaca, nel Messico; a Izamal, Chichén Itzá, Uxmal e Mayapán nella regione maya; a Yaxchilán, Uaxactún, Copán e Quiriguá nel Guatemala e nell'Honduras; a Cuzco e a Machu Picchu nel Perú. La violenza con cui i conquistatori vollero imporre la fede cristiana agli Amerindi non ebbe un esito positivo. Ancor oggi le antiche credenze persistono nello spirito e nelle tradizioni di questi popoli. Anche dove le popolazioni si sono convertite al cristianesimo, si opera nel culto un'evidente contaminazione tra religione antica e nuova: nella mentalità popolare le immagini dei santi sostituiscono gli idoli, le feste cattoliche coincidono nella maggior parte dei casi con le grandi festività inca, maya e azteche; nelle località lontane dai centri operano ancora sacerdoti pagani, stregoni e indovini.



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Il cristianesimo

L'introduzione del cristianesimo in America era stata affidata al Patronato delle Indie, che agiva sotto la direzione dei re spagnoli, ai quali il papa aveva concesso pieni poteri in materia religiosa. Il Patronato agì con aggressiva violenza contro tutto ciò che era in contrasto con la sua intransigenza dogmatica, usando gli stessi sistemi della conquista armata. I primi che si alzarono a condannare questa evangelizzazione forzata furono i domenicani Antonio da Montesinos e Bartolomé de las Casas, che difesero come principio elementare dell'evangelizzazione il rispetto per i diritti dei nativi. Le loro rimostranze trovarono eco nella Junta de Valladolid (1542), che promulgò le Leyes nuevas in difesa degli Amerindi. Grandi discussioni e scontri di grave durezza avvennero fra i difensori dell'evangelizzazione-conquista e i partigiani di un'azione esclusivamente apostolica e influenzarono tutto il periodo di evangelizzazione del Messico e del Perú, operata da francescani, domenicani, agostiniani e religiosi della Mercede. Numerosi furono i battesimi, ma affatto superficiale il fondamento della fede. Di questo stato di cose dovette prendere atto il Concilio di Lima (1567), che raccomandò di approfondire l'insegnamento della dottrina prima di dare il battesimo. Le difficoltà però non diminuirono, perché all'obiettività di alcune di esse (enorme diversità fra lingua spagnola e lingue indigene, grandi distanze, differenze di mentalità e di cultura) si aggiungeva la stretta unione Chiesa-Stato, per cui il nativo vedeva sempre il missionario alleato degli invasori. Alcuni fattori positivi favorirono invece l'evangelizzazione nei sec. XVI e XVII: l'arrivo di vescovi e sacerdoti secolari, l'azione dei gesuiti e la creazione della congregazione De Propaganda Fide (1622), che riuscì a limitare lo strapotere del Patronato. Particolarmente efficace fu l'opera dei gesuiti con la fondazione di reducciones in Paraguay, Bolivia, Brasile, Perú, Ecuador, Colombia e Venezuela. Ma la loro espulsione nel 1767 segnò la decadenza di questa istituzione e la fine di un interessante esperimento socio-religioso. Né l'altro clero era stato nel frattempo all'altezza della situazione, perché, preoccupato d'innalzare chiese fastose, trascurava di curare la fede dei nuovi fedeli. Da parte sua il potere politico non aveva rinunciato ai privilegi acquisiti con il Patronato e combatteva un'aspra lotta con la Propaganda Fide per mantenerli. La fine del colonialismo spagnolo nella prima metà del sec. XIX e l'avvento di governi nazionali videro questi impegnati a conservare in fatto di religione i privilegi del precedente governo coloniale, mentre la penuria di vocazioni missionarie creava paurosi vuoti tra gli evangelizzatori. L'appoggio dato da Pio VII e Leone XII al re spagnolo Ferdinando VII, che reclamava diritti sulle ex colonie, e la ventata di liberalismo anticlericale, che dall'Europa investì anche l'America, aggravarono ulteriormente la posizione dei cattolici d'America: Bolívar chiuse conventi e seminari ed espropriò i beni ecclesiastici; i governi che gli succedettero cercarono di tenere la Chiesa a essi soggetta. Casi di persecuzione scoppiarono nell'Ecuador, in Colombia, nel Cile e nel Messico, specialmente con l'avvento delle idee liberali e positiviste; nelle masse popolari il processo d'industrializzazione ha intiepidito, ma non estirpato, il sentimento religioso, che però soggiace ancora ai richiami degli antichi riti ancestrali. Le statistiche sulla situazione attuale del cattolicesimo nei Paesi dell'America Latina danno più del 90% di battezzati sulla popolazione totale, con punte massime per taluni Paesi sudamericani (98% in Bolivia, 97% in Perú e 92,4% nel Venezuela) e con la percentuale più bassa a Cuba (41,9%). In America Latina la Chiesa cattolica è particolarmente impegnata nel fare fronte ai gravi problemi sociali posti dalle condizioni di vita dei popoli della regione: le attività delle comunità latino-americane sono coordinate dal Consiglio Episcopale Latino Americano (CELAM), che riunisce i rappresentanti delle Conferenze Episcopali dei diversi Paesi e le cui linee programmatiche sono state tracciate soprattutto nelle due Conferenze generali di Medellin (1968) e di Puebla (1979). Nel quadro dell'azione sociale svolta dalla Chiesa riveste particolare importanza la cura dedicata all'istruzione, per cui l'America Latina conta il più alto numero di istituti scolastici cattolici del mondo. § Nell'America Settentrionale, nel territorio che verrà poi identificandosi con gli attuali Stati Uniti, la confessione religiosa dei colonizzatori fu quella protestante, nella varietà delle sue denominazioni, che rispecchiavano l'eterogeneità della popolazione e che, in un contesto di piena libertà religiosa, conobbero un caratteristico processo di frantumazione. Maggiore espansione ebbero naturalmente quei gruppi che, con la loro duttilità organizzativa e la loro capacità di penetrazione sociale, poterono più facilmente adattarsi alle condizioni della “frontiera” (in particolare, battisti e metodisti), mentre alle Chiese protestanti vere e proprie venivano aggiungendosi comunità rimaste ai margini del cristianesimo “ufficiale”, come per esempio quella dei mormoni o la Christian Science. Attualmente, i protestanti sono negli Stati Uniti il 58% della popolazione e le Chiese che contano il maggior numero di aderenti sono quelle battiste, metodiste, luterane, presbiteriane, pentecostali, la Chiesa di Cristo e la Chiesa Episcopale. Rilevante è altresì la presenza delle Chiese orientali (principali sono la Chiesa ortodossa d'America, l'Archidiocesi greco-ortodossa del Nord e Sud America, la Chiesa armena d'America), che contano poco meno di 4 milioni di aderenti. Fino all'epoca della guerra d'indipendenza i cattolici nelle tredici colonie ammontavano solo a 25.000, concentrati specialmente nel Maryland e in Pennsylvania. Solo dopo la guerra d'indipendenza essi poterono godere di parità di diritti con i protestanti e da allora la Chiesa cattolica conobbe una continua espansione: i 100.000 credenti del 1800 erano già 1,6 milioni nel 1850 e 4,5 milioni nel 1880 (a seguito di massicce immigrazioni d'Irlandesi); altro forte aumento si ebbe con l'immigrazione, tra il 1830 e la I guerra mondiale, di 5 milioni di Tedeschi, di cui un terzo cattolici. Altri folti gruppi di cattolici provennero dall'Europa orientale e meridionale (5 milioni negli ultimi due decenni dell'Ottocento). Aggiungendo al fattore dell'immigrazione l'alto tasso di prolificità e le numerose conversioni, la percentuale dei cattolici è oggi del 21%. § Nel Canada la religione cattolica fu importata dai primi coloni francesi, ma poté svilupparsi solo con l'arrivo dei gesuiti (1625) e dei sulpiziani (1657). Lo sviluppo del cattolicesimo subì una battuta d'arresto con la definitiva cessione del Canada all'Inghilterra nel 1763. Da allora vi fu una compresenza di cattolici e protestanti, i quali ultimi si diffusero soprattutto nell'Ontario e nelle province marittime. Le statistiche dei primi anni del 2000 indicano la presenza del 45,7% di cattolici contro il 36,2% di protestanti, le cui principali Chiese sono quella unita, l'anglicana, la presbiteriana, la battista, la luterana. § A differenza di quanto avvenne nelle colonie spagnole dell'America Meridionale e Centrale, i colonizzatori dell'America Settentrionale preferirono non esercitare alcuna pressione per far accettare la loro religione agli indigeni. D'altra parte, vennero molto presto aperte e rese operanti delle missioni, tenute dai francescani e dai gesuiti, che diedero i loro primi frutti un secolo dopo con ca. 30.000 convertiti (1634). Dal Nuovo Messico i francescani si spinsero, dal 1628, in direzione dell'Arizona e, alla fine del secolo, sino al Texas, mentre i gesuiti andarono a nord, nel Canada. A partire dal 1648 furono impiantate missioni negli Stati settentrionali ed evangelizzati gli Abnaki e gli Irochesi. Con la costituzione delle riserve (1870), la cura spirituale degli Indiani venne affidata in gran parte ai protestanti, ma i cattolici poterono ottenere il riconoscimento del Bureau of Catholic Indian Missions (1880). Oggi esistono missioni cattoliche in 80 riserve e più del 25% degli Indiani è di religione cattolica. Molto scarso è stato il risultato del cattolicesimo fra i neri d'America, fra i quali è stata invece predominante la diffusione del protestantesimo.



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Lingue

Lo studio delle lingue indigene americane (dette anche amerindie) iniziò con la stessa scoperta del Nuovo Mondo e fu dapprima compiuto specialmente da missionari che per le esigenze dell'evangelizzazione si trovarono nella necessità di tradurre negli idiomi locali vangelo, preghiere, catechismi e altri testi religiosi (la Doctrina christiana... en lengua mexicana del 1546 è tra i più antichi libri stampati dedicati a una lingua amerindia) e conseguentemente di comporre anche grammatiche e dizionari . Solo in epoca più recente però si poté procedere a una più accurata raccolta di materiali e a un'analisi scientifica degli stessi, cui diede particolare impulso in primo luogo la celebre Smithsonian Institution (fondata nel 1846) che creò un apposito Bureau of American Ethnology. Degne di speciale menzione sono le ricerche condotte dall'americano Edward Sapir, redattore dell'Handbook of American Indian Languages pubblicato dalla Smithsonian Institution a partire dal 1911. I tentativi di procedere a una rigorosa classificazione delle numerose lingue indigene americane (alcune purtroppo già estinte, altre in via di estinzione) e a un loro raggruppamento in famiglie linguistiche, incontrano notevoli difficoltà. In generale si può dire che le lingue indigene dell'America Settentrionale sono state meglio studiate di quelle dell'America Meridionale. Fra le lingue o le famiglie linguistiche più importanti si possono menzionare: nell'America Settentrionale l'eskimo-aleuto o eschimese (parlato sulle coste settentrionali dell'Alaska), che sembra presentare singolari affinità con le lingue dell'estremità nordorientale della Siberia; le famiglie na-dene, algonchina, penuti, hoka-sioux, uto-azteca; nell'America Centrale la famiglia maya; nell'America Meridionale il quechua o quichua (l'antica lingua degli Inca, nota anche col nome di runa-simi), e le famiglie aymará, arawak, caribica, tupi-guaraní, guaycurú, araucana, alakaluf. Su queste lingue indigene si sono sovrapposti: l'inglese (Stati Uniti, Canada, Giamaica), il francese (Canada, Guayana Francese, Haiti, Guadalupa, Martinica), lo spagnolo nell'America Centrale e Meridionale tranne il Brasile in cui si parla il portoghese.



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Letteratura latino-americana

L'America precolombiana ebbe tre epicentri culturali: il Messico (civiltà nahuatl), l'America Centrale (civiltà maya) e il Perú (civiltà quechua o incaica). Più primitive e marginali altre culture: quelle dei Cuna del Panamá, dei Chocó, Kágaba e Chami della Colombia, dei Guarauno del Venezuela, degli Araucani del Cile, dei Guaraní rioplatensi e di varie tribù del Brasile (Manao, Caduveo, Nheengatu, Uanana, Zaparo). Tutte ebbero (e in parte conservano) complesse mitologie e pertanto poemi religiosi, cosmogonie, inni, leggende e racconti; ma solo le più evolute li elaborarono in opere coscientemente artistiche arrivando anche alla lirica personale, come le elegie del re-poeta Netzahualcóyotl, il delicato canzoniere Otomí e i finissimi yaraví peruviani. Eruditi moderni, come Garibay, González Casanova e Soustelle per il Messico, Recinos e Barrera Vázquez per i Maya, Lara, Basadre e Arguedas per il Perú, hanno riportato in luce una ricca e varia letteratura: poemi epico-religiosi, leggende narrative, favole gnomiche e satiriche, poemetti sentimentali e persino resti di composizioni drammatiche, come il Rabinal Achí dei Maya. § La conquista europea decapitò letteralmente le culture dell'indio americano, distruggendone le forme superiori: non si salvò neppure l'arte di leggere e di scrivere i geroglifici aztechi. Non riuscì, fortunatamente, a distruggere tutte le espressioni letterarie delle civiltà vinte, né tanto meno lo spirito indigeno e il ricordo delle tradizioni native vivo presso gli Indios e i meticci; per cui, quasi subito dopo la conquista, missionari europei cominciarono a raccogliere dalla voce stessa dei vinti orazioni, poemi, narrazioni, leggende e notizie d'ogni genere, di cui nutrirono i loro preziosi scritti. I nomi di B. de las Casas, l'ardente difensore degli Indios, di B. Sahagún, etnologo avanti lettera, e di Francisco Ximénez (che trascrisse e tradusse, nel 1722, il Popol Vuh dei Maya) sono i più noti, ma non certo gli unici. Nello stesso secolo della conquista, dalle scuole subito istituite dai vincitori (Città di Messico ebbe la prima università del Nuovo Mondo fondata nel 1551 e Lima la seconda, fondata nel 1553) uscivano anche meticci e Indios puri che, sebbene formati nella cultura europea, avevano chiara coscienza della propria “americanità”. Tale è il caso di Fernando de Alva Ixtlilxóchitl, che scrisse la sua cronaca in lingua nahuatl, e di Hernando Alvarado Tezozómoc, nel Messico; nel Perú, di Felipe Guamán Poma de Ayala, fervido esaltatore del passato incaico e soprattutto di Garcilaso de la Vega el Inca. Per la cultura el Inca è un europeo del Rinascimento, un umanista cristiano; ma l'argomento del suo capolavoro (i Commentari reali degli Inca) e, quel che più importa, lo spirito che lo rende unico ed esemplare, fanno di lui il primo grande scrittore latino-americano. Su un piano artisticamente meno elevato, ma praticamente più efficace, la Chiesa contribuì al meticciato culturale non solo impiegando artigiani indigeni nella costruzione dei suoi edifici, nella pittura e nelle arti decorative (per cui il barocco latino-americano acquistò caratteri suoi inconfondibili), ma anche con la formazione del clero locale, che nei sec. XVIII e XIX si metterà più volte alla testa delle rivendicazioni indipendentiste, e con l'uso, sia pure a scopo edificante e didattico, di rappresentazioni, danze e “invenzioni” legate alle tradizioni indigene. Il teatro in lingua indigena ed europea fiorì per tutta l'epoca coloniale (la prima rappresentazione di cui si abbia notizia risale addirittura al 1526, ed ebbe luogo a Città di Messico) come elemento consueto di feste religiose (Corpus Domini soprattutto) e profane; gli ordini religiosi, particolarmente i gesuiti, lo usarono abitualmente nelle loro missioni, seminari e collegi. Così si spiega come l'America coloniale abbia potuto dare alla Spagna un drammaturgo quale Juan Ruiz de Alarcón e come nel sec. XVIII sia stato ritrovato in un villaggio andino, per iniziativa di un parroco, il dramma Ollantay, di indubbia sostanza indigena anche se con influenze formali della drammaturgia ispanica. Ma il fenomeno forse più interessante è l'affermarsi di una coscienza americana presso scrittori creoli. Già nel 1596 nasce nel Cile il primo poema epico americano: El arauco domado (L'araucano domato), di Pedro de Oña; e nel sec. XVII possono considerarsi meticci alcuni poeti e scrittori di rilievo quali Juana Inés de la Cruz, Francisco Pineda Bascuñán, Diego de Hojeda, Hernando Domínguez Camargo, Juan de Espinosa Medrano, il satirico Juan del Valle Caviedes, il poligrafo Carlos Sigüenza y Góngora, la mistica Madre Castillo e altri ancora. Nel sec. XVIII, l'Europa apporta nuove idee e nuovi generi letterari (il saggio critico e storico, la poesia arcadica, il trattato scientifico, qualche tentativo di narrativa di viaggio e di costumi, il sainete o farsa con sottofondi satirici, la pubblicistica), ma la coscienza americana affiora nei testi più originali, colorendosi di progressismo illuminista. I gesuiti, prima e dopo la loro espulsione (1767), operano nella poesia e nel saggio storico con singolare modernità (R. Landívar, F. Clavijero, E. Molina); enciclopedisti accesi, come P. de Olavide, E. Santa Cruz Espejo, F. Miranda, F. J. Caldas, A. Nariño, S. Mier e altri ancora, cominciano a diffondere le idee che porteranno all'indipendenza; strani libri di viaggio, come il Lazarillo de ciegos caminantes (Guida dei viandanti ciechi) di A. Carrió de la Vandera, iniziano finalmente una vera scoperta dell'America da parte degli Americani; si moltiplicano i teatri e in essi i sainetes criollos, gremiti di tipi e costumi locali; gli stessi poeti neoclassici e arcaici, apparentemente disimpegnati, non perdono di vista la loro America: i lirici dell'Escola mineira, prima manifestazione di una letteratura brasiliana, e il preromantico peruviano M. Melgar cospirano addirittura per l'indipendenza. Proprio alla vigilia di questa nasce, infine, il romanzo ispano-americano con El periquillo sarniento (Pappagallino rognoso, 1816) del messicano Fernández de Lizardi. Col distacco politico dalla rispettiva madrepatria europea, nascono anche le varie letterature nazionali (vedi Messico, Argentina, Perú, Brasile, ecc.), sempre comunque aperte verso l'Europa, i cui successivi movimenti letterari (romanticismo, realismo, naturalismo, simbolismo e avanguardie) puntualmente accolgono e rielaborano. Se le capitali culturali ibero-americane erano state fino a tutto il sec. XVIII Madrid e Lisbona, dal sec. XIX lo sono Londra, New York e soprattutto Parigi. Ma, a parte le tecniche adottate, la sostanza delle migliori opere resta americana. Così il romanticismo reca con sé l'esaltazione della natura americana, dalle Ande alla pampa alle foreste amazzoniche, l'idealizzazione dell'indio (Cumandá, di J. L. Mera, Tabaré, di J. Zorrilla de San Martín, O Guarany, di J. de Alencár, ecc.), il popolarismo (culminante nella letteratura gauchesca rioplatense, che ha nel Martín Fierro un capolavoro assoluto), l'uso di voci indigene e vernacolari. Il realismo e il naturalismo, vivi soprattutto nella narrativa, introducono una problematica tipicamente locale (conflitti fra le diverse razze, miseria e ricchezza, sfruttamento di peones, di neri, di Indios, conseguenze dell'immigrazione, rivolte sociali e rivoluzioni politiche) e portano anche alla nascita del teatro moderno, col rioplatense Florencio Sánchez, e della saggistica, tuttora fiorente (F. D. Sarmiento, J. Montalvo, M. González Prada, E. M. Hostos, J. Sierra O'Reilly, J. E. Rodó, ecc.). Il simbolismo e le avanguardie stesse, pur avendo dato risultati prevalentemente lirici, con una fioritura imponente fino ai nostri giorni (da R. Darío a P. Neruda, da L. Lugones a G. Mistral, da C. Vallejo a V. Huidobro, da J. C. de Melo Neto a O. Paz, ecc.), non rappresentano certo una pura imitazione di mode straniere, bensì modi espressivi di una coscienza latino-americana ormai pienamente partecipe del travaglio del mondo contemporaneo. E ben se ne accorse, infatti, la cultura europeooccidentale, che nel trentennio Sessanta-Ottanta “scoperse” e accolse con entusiasmo molti nuovi narratori e poeti latino-americani, prima ignoti ai non specialisti o visti tutt'al più come frutti estemporanei di un continente esotico e quasi astorico. Nel 1945, il premio Nobel per la Letteratura concesso per la prima volta a uno scrittore sudamericano (la poetessa cilena Gabriela Mistral) poté sembrare ancora una rondine che non faceva primavera; ma altri tre Nobel che premiarono rispettivamente nel 1967, 1971 e 1982 il romanziere guatemalteco Miguel Ángel Asturias, il poeta cileno Pablo Neruda e il romanziere colombiano Gabriel García Márquez, furono altrettanti attestati di riconoscimento di una vasta e rigogliosa letteratura del tutto contemporanea che, oltre ai premiati, poteva annoverare molti altri scrittori validissimi (e persino, in qualche caso, maggiori di essi), come gli argentini J. L. Borges, J. Cortázar, E. Sábato, E. Mallea, A. Bioy Casares; i messicani A. Reyes, O. Paz, J. Rulfo, C. Fuentes, M. Azuela, M. L. Guzmán, C. Pellicer; i cubani J. Lezama Lima, A. Carpentier y Valmont, N. Guillén; i peruviani C. Vallejo, M. Vargas Llosa, J. M. Arguedas, C. Alegría, Westphalen; i cileni J. Donoso, N. Parra, G. Rojas, E. Lihn; gli ecuadoriani J. Icaza, Adoum, D. Aguilera Malta; i colombiani Á. Mutis, Caballero Calderón, R. Herazo; i venezolani A. Uslar Pietri, I. Gramcko, M. Otero Silva, Liscano, R. Gallegos, R. Blanco Fombona; l'uruguayano J. C. Onetti; il paraguayano A. Roa Bastos; i portoricani L. Palés Matos e R. Marqués, oltre alla folta pattuglia dei brasiliani: C. Drummond de Andrade, V. de Moraes, M. Bandeira, gli Andrade, J. Amado, E. Verissimo, J. Guimarães Rosa, M. Mendes, la C. Meireles, J. Lins do Rêgo, G. Ramos, J. Cabral de Melo Neto, la C. Lispector. Da un capo all'altro del continente, e specialmente nei fervidi centri culturali ed editoriali che erano Buenos Aires e Città di Messico, Bogotà e Rio de Janeiro, Caracas e Santiago del Cile, sorsero poeti e narratori di forte rilievo, movimenti d'avanguardia dai pittoreschi nomi, libri e riviste che presto valicarono l'Atlantico: autentico “ritorno dei galeoni” alle antiche patrie europee, che a un certo punto, soprattutto negli anni Settanta, determinò quello che fu chiamato, non a torto, “il boom del romanzo latino-americano” e di riflesso, oltre a un sempre più vasto consenso dei lettori di ogni lingua, il moltiplicarsi di antologie, traduzioni e studi critici in misura mai registrata prima. Avviatosi a conclusione il boom del romanzo latino-americano nella cultura europea e occidentale, la letteratura americana di lingua spagnola ha visto attivi, accanto a figure il cui valore appare ormai indiscutibile (G. García Márquez, C. Fuentes, M. Vargas Llosa, J. Amado), numerosi altri interessanti autori, quali gli argentini Liliana Heer (La tercera mitad, 1989) e J. P. Feinmann (La astucia de la razón, 1991), la brasiliana Ana Miranda (Boca do inferno, 1990), il colombiano G. Espinosa (Sinfonía desde el Nuevo Mundo, 1990), la messicana Laura Esquivel (Como agua para el chocolate, 1989), la cilena I. Allende e l'ecuadoriano J. Ponce. Alla generazione del boom è così seguita quella del cosiddetto boom junior, con, insieme ad alcuni degli autori precedentemente citati, scrittori come Fernando del Paso (n. 1935), Gustavo Sáinz (n. 1940) in Messico, Severo Sarduy (n. 1937), Reynaldo Arenas (n. 1943) e Zoé Valdés (n. 1959) a Cuba, Alfredo Bryce Echenique (n. 1939) in Perú, Nestor Sánchez (n. 1935) e Osvaldo Soriano (1943-1997) in Argentina, Álvaro Mutis (n. 1923) in Colombia, Antonio Skármeta (n. 1940) in Cile. Questi autori difendono un certo concetto di realtà, non univoca né lineare, ma ambigua, misteriosa. E alla letteratura affidano il compito di rappresentarne la complessità, di sondarne la sostanza molteplice. Realisti puri o realisti magici, rinviano tutti allo stesso mito, quello dell'origine misteriosa e unitaria del vario e discorde mondo delle apparenze. Va registrata inoltre la forte influenza dei linguaggi cinematografici sul nuovo romanzo e il verificarsi di frequenti e reciproci travasi tra narrativa e cinema, con romanzi che si trasformano in svelte sceneggiature cinematografiche e modelli cinematografici che si convertono in utili schemi di struttura compositiva. Fiorente può definirsi la produzione della poesia, che oltre al riconoscimento rappresentato dal Nobel per la letteratura vinto da O. Paz nel 1990, ha visto aggiungersi all'opera di poeti già noti a livello internazionale il promettente risultato del lavoro di nuovi autori (tra cui si segnalano i brasiliani S. Antunes e L. Coronel, il costaricense L. Albán, il salvadoregno I. López Vallecillos, la guatemalteca C. Matute, il panamense E. Jaramillo Levi e i nicaraguensi F. de Asís Fernández e J. Chow), i quali non mettono più al centro della propria attenzione esclusivamente l'elemento politico o di denuncia sociale: l'attenuarsi di alcune delle tensioni che perturbavano il subcontinente sembra infatti aver reso possibili una diversificazione degli orientamenti e l'esplorazione di una più vasta gamma di tematiche. Tra i principali autori vanno ricordati anche: i cubani G. Cabrera Infante, S. Sarduy, H. Padilla e J. Kozer; gli argentini R. Juarroz, J. Gelman, M. Puig, H. Bianciotti (naturalizzato francese), J. C. Onetti (argentino di adozione), H. Vázquez Rial, Aguirre, Alonso, Arias, E. Gudino Kieffer, E. R. Larreta; F. Madariaga, D. Moyano, Nuñez, A. Posse, N. Sánchez, D. Viñas; i messicani Arudjis, J. E. Pacheco, J. García Ponce, J. J. Arreola, G. Zaid, Sabines, Carballido, S. Elizondo, M. A. Montes de Oca, A. Azuela; i peruviani Bryce Echenique, J. R. Ribeyro, J. Sologuren, Reynoso, S. Cisneros; i venezolani G. Sucre, S. Garmendia, J. Balza, Medina, G. Meneses, Crespo; i cileni J. Edwards Bello, M. Arteche, I. Allende; i colombiani G. Espinosa, P. A. Mendoza, M. Mejía Vallejo, J. G. Cobo Borda; il guatemalteco A. Monterroso; i brasiliani A. e H. de Campos, A. Dourado, D. Trevisan, Moreira de Fonseca. Tra i poeti della generazione successiva si distinguono, in Cile, José María Memet, Carmen Berenguer, Federico Schops, Heddy Navarro, Juan Camerón, Teresa Calderón, nati tra gli anni Quaranta e Cinquanta. In Argentina godono di un certo prestigio Santiago Sylvester, Mario Romero, Angel Lleiva, Osvaldo Ballina, Eduardo d'Anna, Ricardo Herrera. In Uruguay spiccano le voci femminili, dalla ormai apprezzatissima Cristina Peri Rossi (n. 1941) ad Amanda Berenguer, Ida Vitale, Inés Silva Vila, Circe Maia, Marosa di Giorgio, Clara Silva e altre. Più variegato il panorama della lirica peruviana, le cui voci più giovani si caratterizzano per i toni personali e l'originalità del dettato. È questo il caso di Mario Montalbetti, José Morales Saravia, Eduardo Chirinós, Carmen Ollé. La poesia colombiana conta ancora sulla fervida vena creativa di Álvaro Mutis, cui si aggiunge quella di una nuova interessante promozione poetica rappresentata da Mario Rovero, Juan Gustavo Cobo Borda, Elkin Restrepo, Jaime García Maffla. A Cuba la poesia della seconda metà del Novecento è rappresentata da Miguel Barnet (n. 1940), Belkis Cuza Malé (n. 1942), Nancy Morejón (n. 1944), Luis Rogelio Nogueras (1946-1985), cui si aggiungono voci di espatriati come Roberto Cazorla, Pío Serrano, Felipe Lázaro. Nell'America Centrale spiccano le voci di Alfonso Quijada Urías e David Escobar Galindo (Salvador), di Beltrán Morales, Jorge Eduardo Aurellano e Gioconda Belli (Nicaragua). In Messico, O. Paz continua a esercitare il suo alto magistero poetico, mentre acquistano sempre maggior prestigio la lirica di Homero Aridjis e quella dei più giovani Carlos Montemayor, Marco Antonio Campos, José Joaquín Blanco. Quanto al teatro nomi di spicco sono soprattutto Gámbaro, O. Dragún, Cuzzani, R. Cossa, R. Halac, Somigliana (argentini), R. Usigli e C. Fuentes (messicani), E. Buenaventura (colombiano), J. Díaz (cileno), Rengifo (venezuelano), i chicanos (ispanofoni degli Stati Uniti) L. M. Valdez e Chávez. Sul fronte teatrale, le aree privilegiate restano comunque Argentina, Cile, Colombia, Cuba e Messico, ma i prodotti sono diseguali e variegati. Si va dall'attivissimo mondo teatrale cileno, che ancora risente della forte spinta propositiva impressa dai grandi gruppi d'avanguardia degli anni Settanta (Ictus, Teatro Imagen, Taller de Investigación Teatral) ai prodotti più personali e soggettivi, legati alla creatività del singolo (soprattutto Cossa e Badillo), proposti dalla drammaturgia argentina; dalla gestione collettiva e movimentista del piano di sviluppo teatrale tentata in Colombia (dal Teatro Experimental de Cali al Teatro La Candelaria) ai più regolari e solidi successi (in particolare quelli di Liera e di Tovar) maturati negli ambienti teatrali messicani.



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Arte precolombiana

L'arte dell'intero continente americano non si presenta in modo omogeneo, poiché ogni area culturale possiede stili peculiari e materiali di elezione che la differenziano dalle altre. Inoltre nell'America “indigena” occorre distinguere la produzione archeologica, di gran lunga superiore, da quella recente. Nell'America Settentrionale gli Eschimesi hanno mantenuto ancora oggi una raffinata produzione di sculture rappresentanti animali o scene di genere su osso e avorio, unici materiali facilmente reperibili nel loro ambiente, mentre il legno di deriva era usato per maschere di tipo fantastico. Sulla Costa del Nord-Ovest, gli Indiani del salmone hanno prodotto un'arte caratteristica, di tipo surreale, con elaboratissime maschere e grandi pali totemici dipinti a vivaci colori in uno stile drammatico ed efficace. L'area subartica delle foreste, con la sola eccezione degli Ingalik, che scolpirono maschere a imitazione di quelle degli Eschimesi d'Alaska (che a loro volta derivarono questo genere d'arte dal Nord-Ovest), è artisticamente sterile, salvo la decorazione delle pelli con aculei di porcospino e i disegni incisi sulla superficie dei recipienti di corteccia. Gli Indiani delle Praterie furono maestri nella decorazione delle pelli, dipinte o ricamate con aculei di porcospino, più tardi con perline d'importazione, artigianato che continua ancora nelle riserve. Negli Stati Uniti sudorientali la civiltà archeologica dei mounds ha lasciato come principali testimonianze grandi tumuli artificiali di terra, talora in forma zoomorfa, e un tipo di ceramica e di scultura in pietra che denota influssi messicani. Epigoni in epoca storica di questa cultura furono forse gli estinti Natchez del basso Mississippi. Prima e dopo la conquista, gli Irochesi produssero una ceramica dipinta a motivi geometrici e una modesta scultura di genere, mentre sono notevoli le maschere di legno, collegate alle società segrete. Altra loro forma artistica originale sono i wampum, collane di conchiglie, usate come moneta e per messaggi. La California e il Gran Bacino si distinsero solo per i recipienti a intreccio, raffinati sia dal punto di vista tecnico sia artistico. L'area pueblo ebbe un'elevata produzione fittile, dipinta con motivi geometrici o naturalistici, che risente di influenze messicane. La Mesoamerica è caratterizzata, specie in area maya, da un'arte archeologica raffinatissima, con elementi costanti in tutta la zona di diffusione. La splendida architettura in pietra presenta tre tipi di edifici: le piramidi , i palazzi e gli sferisteri, cui vanno aggiunti gli osservatori astronomici maya, e livelli artistici altrettanto elevati raggiunsero la pittura parietale, la scultura, la ceramica e le arti minori. Le culture circumcaribiche eccelsero precocemente nella lavorazione dei metalli preziosi, inventata in quest'area. La zona andina, come quella mesoamericana, si presenta omogenea all'interno e oltre all'architettura in adobe sulla costa e in pietra sull'altopiano e alla scultura, si svilupparono la ceramica modellata e dipinta e la tessitura. In Amazzonia si è avuta una notevole produzione fittile di età archeologica (Marajó, Santarém), che presenta tratti talora simili a quella di Chavín e appare già matura fin dalle fasi più antiche. In epoca recente le produzioni più interessanti sono quelle di arte plumaria e la ceramica del gruppo dei Pano, dei Carajá e dei Caduveo. Nell'estremo sud del continente le culture fuegine sono state artisticamente sterili. § Dopo la scoperta dell'America e la susseguente colonizzazione, l'arte indigena decadde ovunque e oggi essa è per lo più volta a soddisfare il mercato turistico. Gli Haida, per esempio, hanno prodotto tutta una serie di suppellettili (piatti, cucchiai, truogoli, ecc.) in argillite, riprendendo in maniera schematica i temi totemici, ma usando strumenti di acciaio, per cui il disegno appare rigido e convenzionale. I Navaho tessono coperte policrome di lana di pecora con motivi geometrici, fra cui prevale il rombo, eseguono le loro antiche e originali pitture con sabbie colorate e producono oggetti di argenteria con turchesi. Nell'area pueblo si confezionano kachina (bambole che rappresentano divinità) di legno policromo, per il mercato turistico. In Messico, subito dopo la conquista, molti disegnatori aztechi collaborarono all'illustrazione delle cronache redatte dagli Spagnoli. I circumcaribici Cuna producono bamboline, battellini sciamanici e bellissimi tessuti policromi in applique. Inoltre, sempre in area circumcaribica, si riproducono antiche forme di oreficeria nei vecchi stampi. In Perú, ad Ayacucho, si possono trovare deliziose ceramiche che rappresentano chiesette, animali di vivace naturalismo e retablos in struttura lignea dipinta, in cui sono contenute figurine illustranti presepi, mercati o il culto dei santi; a Pucará si producono bellissimi tori di ceramica con un lustro brillante. Infine in Brasile, gli unici oggetti interessanti sono le bamboline in argilla dei Carajá, dipinte in rosso e nero, e vari paraphernalia dei culti sincretistici afro-brasiliani (candomblé, macumba, ecc.).



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Arte coloniale

La colonizzazione europea, imponendo una società estranea nel Nuovo Mondo, vi trapiantò anche la sua cultura, ma mentre nell'America Settentrionale l'arte coloniale fu espressione esclusiva dei gruppi di Europei che vi emigrarono, nell'area di conquista spagnola e portoghese si ebbe, fin dal sec. XVI, una fusione fra la tradizione artigiana indigena e l'architettura iberica coeva tramite l'attività missionaria degli ordini religiosi, che vi organizzavano la vita civile. Gli schemi architettonici e urbanistici erano quelli europei con l'aggiunta di elementi indigeni (il patio, il cortile) e di una decorazione vistosa eseguita da maestranze locali. Nel Seicento si sviluppò un'autonoma corrente barocca che ebbe il suo centro più splendido in Messico e si espresse soprattutto nelle grandi cattedrali di gusto plateresco (Puebla), abbondantemente ornate con sculture, intagli, dorature e violenti contrasti di colore che testimoniano il perdurare delle caratteristiche locali. L'abbondanza decorativa praticamente nascondeva la struttura architettonica (ed è una diretta discendenza del gusto incaico) nelle regioni delle Sierre sudamericane (Ecuador, Bolivia, Perú) che ebbero i loro centri più vivi sulle rive del lago Titicaca e a Cuzco, vecchia città degli Inca che incorporò le forme europee nella sua precedente struttura. Nel Settecento si diffuse facilmente il churriguerismo (santuario di Nostra Signora di Ocotlán, Tlaxcala), con intonazioni più sobrie, dovute alla mancanza di una forte tradizione indigena, nell'area portoghese (vedi Brasile), dove la classe dirigente dei grandi proprietari elaborò intorno a Recife lo slanciato “barocco della costa” e nelle regioni minerarie un'arte leggera ed elegante, vicina al rococò europeo. In quest'ambiente si inserisce l'opera di Anton Francisco Lisboa detto O Aleijadinho. In tutta l'America Latina la pittura si uniformò, senza originalità, ai modelli di Spagna e Portogallo, resi con sovrabbondanza decorativa e aspri contrasti di colore. § Nell'America Settentrionale la situazione è differente: gli Europei che vi emigrarono non trovarono una civiltà alla quale contrapporsi e inoltre avevano scopi diversi dalle colonie latine, essendo coltivatori e commercianti. I loro centri sorsero dal nulla, con funzioni di difesa dall'ambiente naturale. Svilupparono quindi un'edilizia in legno che si espresse nelle case contadine, simili a quelle inglesi del sec. XV, e nelle chiese anglicane a struttura semplicissima. Dalla fine del Seicento, con l'evolversi della società verso forme economiche e politiche più avanzate, si ebbero le prime costruzioni in pietra o mattoni, generalmente meeting houses per una collettività che tendeva all'autogoverno e case d'abitazione nelle città, dove si andava differenziando un ricco ceto di commercianti. Le forme architettoniche erano però quelle europee, a imitazione del palladianesimo settecentesco inglese, che venne però rivissuto originalmente nelle plantation houses, le case dei proprietari terrieri del Sud, fino alla metà dell'Ottocento. Nel periodo rivoluzionario, l'evocazione di un parallelismo che legava la nuova Repubblica con quella di Roma, e poi con la democrazia greca, portò in arte, specialmente negli Stati settentrionali, al classicismo “romano” di Th. Jefferson (campidoglio di Richmond, Virginia) e a quello “ellenico” di B. H. Latrobe (cattedrale cattolica di Baltimora), che perdurò fino al 1850. Non hanno valore artistico, ma di testimonianza, le pitture dei primi colonizzatori (sec. XVI e XVII), che consistevano in ritratti e documentazioni della vita e della natura dell'America selvaggia. Fra il sec. XVIII e il XIX furono attivi i primi pittori nordamericani di una certa importanza: J. S. Copley e B. West, autori di quadri di storia, legati per educazione artistica alla cultura inglese.



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Arte contemporanea

Dopo i diversi richiami agli stili di ogni epoca e di varia origine, la formazione di un linguaggio autonomo dell'architettura nordamericana matura tra il 1870 e il 1893. Dopo il tempo di Jefferson, alla pianta neoclassica si sostituisce (specie per gli edifici residenziali) quella aperta e viene adottato il metallo per le strutture di edifici alti. In questa nuova stagione appare la vigorosa personalità di H. H. Richardson, che pur reagendo al revival gotico con un altro stile originario dell'Europa, il romanico, riesce a sviluppare, attraverso un'energia costruttiva di essenziale funzionalità, un discorso architettonico nuovo. Grande influenza sui successivi edifici di Chicago ebbero i suoi raggiungimenti nello Shingle Style, divenuto molto popolare dopo il 1850 (e portato alle più immaginose soluzioni da B. Price, W. Eyre, W. R. Emerson), e le esperienze perseguite sullo sfruttamento delle qualità dei materiali impiegati. Impegnata nella ricerca di una nuova sintesi di visione spaziale è la Scuola di Chicago. Tra i molti esponenti di questo movimento (J. W. Root, M. Roche, Burnham), che collauda le esperienze più diverse all'insegna del binomio arte-tecnica, domina dal 1880 L. H. Sullivan, che aveva appreso alcune preziose lezioni come assistente del fantasioso Furness. A continuare le tendenze della Scuola di Chicago dopo il 1893 sono (oltre a G. G. Elmslie) i fratelli Greene, assieme all'originale Maybech, che svolgono la loro attività nell'ambiente di provincia. Essi si pongono agli inizi di quello stile californiano sorto nell'ultimo decennio dell'Ottocento (di cui la sintesi più rilevante è da ricercarsi nel Bay Region Style) e sviluppatasi mediante l'opera di Dinwiddie, W. W. Wurster e, più tardi, dei viennesi R. M. Schindler e R. Neutra. In quest'ambiente si colloca anche F. L.Wright, la cui attività copre un arco di tempo che va dal cosiddetto primo periodo delle prairie houses (1900-1909) alla sorprendente e rigogliosa stagione del secondo dopoguerra, con la progettazione del Museo Guggenheim di New York. La validità della sua opera, tesa alla conquista di uno spazio organico, costituisce il presupposto che caratterizzerà poi spazi, planimetrie, uso di materiali e funzionalità di tutta l'architettura futura. A segnare una tappa fondamentale nella progettazione dei grattacieli sono da ricordare, tra gli altri, W. Le Baron Jenney, W. B. Mundie e la coppia Burnham-Root. In questo nuovo discorso s'inserisce da par suo anche Sullivan con il palazzo Wainwright a Saint Louis (1890-91). Con C. Gilbert si giunge al Woolworth Building di New York (1911-13). Un'interessante esperienza per gli sviluppi futuri dell'impiego di materiali inconsueti è offerta dall'opera di W. J. Polk. Con l'accentuarsi progressivo dell'industrializzazione della città e l'irrefrenabile spinta produttiva, già agli inizi del Novecento gli USA avevano preso coscienza di tutta la problematica urbanistica. Una nuova ondata di influenze europee sottolinea negli anni 1920-40 il razionalismo dell'International Style in cui operano dal 1936 i maestri del Bauhaus (Gropius, Mendelsohn, Mies van der Rohe), che erano stati preceduti da Neutra, Aalto, Saarinen, senza peraltro modificare le direttrici dell'architettura americana, portata alla creazione di moduli trasformabili nel tempo, in costante adesione alle esigenze nuove. Nel processo industriale, qui più che altrove, si sviluppa l'importanza del design, sensibile alle sollecitazioni del continuo mutare delle forme. § Negli Stati dell'America Latina l'evoluzione dell'architettura appare condizionata dagli avvenimenti politici, caratterizzati nel corso dell'Ottocento dalle lotte per l'indipendenza. Soltanto verso il 1930, dopo un frenetico sviluppo delle città e sulla spinta di nuove esigenze sociali, inizia la fase dell'architettura nuova, la cui evoluzione non segna sostanziali differenziazioni di fondo, tranne che per il Messico. Qui operano, con sguardo coerente al passato, J. Villagran García, J. O'Gorman e Villagran Legarreta; mentre tra gli esponenti delle generazioni successive si impongono M. Pani, S. Ortega, F. Candela, R. Salinas, M. Cetto e L. Barragan. Nel Brasile, dopo la proclamazione della Repubblica (1889) e l'intenso ampliamento delle città (che porta tracce dell'Art Nouveau introdotta dal francese Dubugras), domina la figura di L. Costa che con la successiva collaborazione di Le Corbusier dà una radicale impostazione nuova all'architettura, alimentata dall'ingegno di O. Niemeyer. Gli architetti che verranno poi (J. Moreira, A. E. Reidy, i fratelli Milton) sono più o meno riconducibili alle esperienze dei tre maggiori. Diversa la situazione in Colombia, dove determinate condizioni ambientali favoriscono, nell'affinità di certi problemi, l'afflusso di apporti degli Stati Uniti. Nell'architettura del Venezuela grandeggia l'opera di C. R. Villanueva; in quella del Cile domina la figura di S. Larrain e nell'Uruguay quella del caposcuola J. Villamajo. Tra gli esponenti dell'architettura moderna in Argentina (dove il forte carattere coloniale di fondo ha persistenze insopprimibili) sono da ricordare, dopo J. Kalnay, i Graziani e altri ancora capeggiati da H. Caminos. Esempi validi per soluzioni tecniche e impostazioni architettoniche sono ancora nei Caribi. § La storia delle arti figurative durante l'Ottocento si svolge su direttrici comuni sia negli Stati Uniti sia nell'America Latina, specie per la pittura di paesaggio, i cui moventi di ispirazione sono dettati dall'immediato contatto con la natura vista minuziosamente nei suoi precisi riferimenti reali o trasfigurata. Alcuni ideali e certe esperienze recano l'impronta di apporti europei. Importante fu l'attività realistico-romantica della Hudson River School, mentre tra i paesaggisti dell'America Meridionale risalta l'opera del messicano J. M. Velasco. Nel Nord la pittura della seconda metà dell'Ottocento guarda alla Francia di Corot e alla Scuola di Barbizon (nella scultura svincolata da ogni ricordo canoviano emerge l'opera di A. Saint-Gaudens). Tra gli artisti che precedettero il vasto movimento di esperienze impressioniste (M. Cassat e T. Robinson, assieme a quegli artisti che emergono dal Gruppo dei Dieci, come J. H. Twachtman e A. Weir) sono da ricordare W. Morris Hunt, W. Page e Th. Eakins, oltre a W. Homer. Interessante per le conseguenze posteriori è la pittura di A. P. Ryder, al cui senso visionario si richiamerà più tardi il surrealismo. Dopo la formazione nel 1908 del Gruppo degli Otto (cui si avvicinò anche Stuart Davis, uno dei pionieri dell'arte astratta), dei quali il più fedele agli effetti della luce impressionista fu M. Prendergast, una nuova coscienza artistica prende forma nel Novecento e stimolanti furono i contributi del fotografo e gallerista A. Stieglitz e la fondamentale Armory Show (1913). È il periodo in cui appaiono con tutto il loro peso le due diverse figure di J. Marin e di L. Feininger. Tutti proiettati verso tendenze d'avanguardia sono M. Weber, G. W. Bellows, Man Ray e lo stesso Th. H. Benton, che diverrà poi uno dei fautori della pittura regionale (American Scene). Tra astrazione e ritorno al figurativo si pone il movimento dei precisionisti (o immacolati). Tra il 1930 e il 1940 vi fu un grande ritorno al realismo, con punte espressionistiche (talvolta anche di ispirazione romantica) in cui si pone la visione di Ben Shahn, poi evolutasi in direzione del tutto personale. L'arte sviluppatasi nel Messico dopo la rivoluzione del 1910, alimentata dalla tradizione delle tecniche popolari dell'incisione e dell'affresco, si svolge in un realismo intenso, la cui violenza riesce a superare il carattere illustrativo e altre implicazioni di spirito nazionalistico. Note sono le pitture sulle ampie superfici degli edifici pubblici eseguite da D. Rivera, D. A. Siqueiros e J. C. Orozco, che non poca influenza hanno recato negli altri Stati dell'America Meridionale (per il Brasile basterebbe citare l'opera di C. Portinari, per l'Argentina quella di E. Pettoruti). Una posizione a sé occupa l'arte di R. Tamayo, le cui radici affondano nell'arte precolombiana, ma con una visione che partecipa degli stili d'oltreoceano. Tutte le avventure dell'arte non figurativa sono state vissute anche nell'America Meridionale, specie attraverso quel veicolo di contatti e di diffusione che è la Biennale di San Paolo del Brasile. Negli Stati Uniti l'arte astratta ebbe una sua continuità anche negli anni del realismo. Nel 1937 due fatti importanti suggellano questa tendenza: la costituzione della American Abstract Artist e il Museum of Non-Objective Painting fondato da Solomon R. Guggenheim. Alle fortune dell'arte astratta contribuirono artisti di provenienza europea, come Mondrian, Gorky, De Kooning. Dopo la II guerra mondiale l'action painting di Pollock porta l'astrattismo a una nuova visione espressionistica (determinando anche un nuovo rapporto tra l'artista e il quadro). L'importanza e la lezione di Pollock agiscono profondamente sulle correnti della pittura europea d'avanguardia. Protagonista di una lunga e inesauribile stagione della scultura americana è A. Calder. Attraverso le poetiche dell'informale e le nuove significazioni materiche del New Dada (J. Johns e R. Rauschenberg), la varietà e il susseguirsi di nuove tendenze dell'arte americana in particolare (e di quella europea in genere) hanno portato la ricerca a sperimentazioni nuove e impreviste. Dalle tematiche della pop art,op art e land art a tutte quelle esperienze dell'arte programmata, cinetica e ottica, fino all'“arte della luce”, in cui laser e cervelli elettronici sperimentano variazioni di effetti luminosi. Dalle applicazioni decorative dell'arte psichedelica si è approdati alla trasformazione dinamica o visualizzazione multipla. A esaltazione della civiltà industriale e sulle premesse dei fantasiosi “stabili” di Calder si pongono le ricerche della minimal art e delle “Strutture primarie” per un nuovo discorso di interferenze estetiche e dialettiche col panorama urbano (T. Smith e B. Newman, tra gli altri). Per reazione sorge quindi l'environmental art quale partecipazione ai problemi ecologici. Altre conseguenze del dadaismo sono espresse dalla corrente della conceptual art.



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Musica

Il patrimonio musicale dell'America è ricchissimo e si configura in una multiforme varietà di espressioni e di fenomeni collegati alla parallela eterogeneità dei gruppi etnici sparsi su un'immensa area geografica. Le prime testimonianze sulla musica degli Indiani dell'America Settentrionale (un complesso imponente di popolazioni che comprende, senza contare gli Eschimesi e gli Indiani canadesi, più di 350 gruppi tribali primari), risalgono al sec. XVII; ma solo dagli inizi del Novecento la ricerca etnomusicologica ha assunto carattere sistematico. Al di là delle differenze legate alle accennate distinzioni etniche, è possibile isolare alcuni tratti fondamentali comuni all'area dell'America Settentrionale. Il patrimonio musicale, generalmente concepito in funzione di precisi momenti della vita sociale (civile, religiosa, familiare), presenta spesso una triplice sovrapposizione di elementi; a fianco di canti tradizionali di più antica origine, tramandati di generazione in generazione, si pongono canti cerimoniali affidati a portatori privilegiati (sacerdoti, stregoni) e canti più recenti, nei quali è possibile riconoscere l'influenza di culture più evolute. Sul piano della struttura musicale, si nota un netto predominio di andamenti melodici discendenti, di schemi modali pentatonici e sovrapposizioni ritmiche assai complesse. Agli strumenti sono in genere conferite significazioni magiche, religiose, terapeutiche: tra i più diffusi sono flauti, fischietti, sonagli, di diverse forme e dimensioni. Il patrimonio etnomusicale dell'America Settentrionale è stato variamente sfruttato da parte di musicisti americani del Novecento (E. MacDowell, C. S. Skilton, C. T. Griffes) e di musicisti europei (A. Dvořák, Sinfonia dal Nuovo Mondo; F. Busoni, Indianisches Tagebuch). Nell'America Centrale e Meridionale le aree più progredite della cultura musicale precolombiana sono identificabili nel Messico e nel Perú da una parte, nell'Argentina dall'altra, e fanno capo rispettivamente ai popoli azteco e inca. Non essendo sopravvissuto alcun monumento musicale, la ricostruzione di questo patrimonio si basa sull'analisi comparata dei reperti archeologici (strumenti musicali, documenti iconografici, ecc.) e degli scritti dei primi colonizzatori del sec. XVI. I caratteri essenziali della musica azteca si riassumono nella funzione religiosa e cerimoniale del canto (non è documentata l'esistenza di una musica strumentale autonoma); nella presenza di una casta professionale specializzata di alto prestigio sociale, cui era devoluta ogni manifestazione musicale; nell'anonimato dei singoli compositori, sempre interpreti di sentimenti e di esigenze collettive; nella tradizione orale, che suppliva alla mancanza di qualsiasi notazione. Tra gli strumenti, che comprendevano una vasta gamma di aerofoni, di membranofoni e di idiofoni, spicca l'assenza di strumenti a corde. Aspetti analoghi presenta la musica incaica, che disponendo di una maggior varietà di strumenti, offriva più ampie possibilità melodiche. Ulteriori elementi sulla musica azteca e incaica sono ricavabili dallo studio del patrimonio musicale delle tribù indie più primitive che ancor oggi, sia pure attraverso deformazioni abbastanza agevolmente rilevabili, tramandano un ricco patrimonio di canti e di danze che affonda le sue origini nel più antico sostrato culturale del continente. § Dopo il 1492 il massiccio e progressivo insediamento europeo, oltre a determinare un rapido declino delle tradizioni musicali autoctone, non offrì per secoli nulla di musicalmente rilevante. I coloni europei portarono con sé le caratteristiche musicali dei loro Paesi d'origine e le condizioni socioeconomiche del Nuovo Mondo, di tipo prettamente pionieristico e contadino, non favorirono lo svilupparsi di tendenze artistiche autonome e originali. Fino agli inizi del sec. XIX in tutta l'America Settentrionale la pratica musicale era limitata al canto religioso e a elementari canzoni narrative, tipicamente popolaresche (ballads). Solo in alcuni centri della costa atlantica esisteva un'attività musicale, animata da esecutori e compositori d'oltreoceano e quindi direttamente collegata alle contemporanee esperienze europee, di volta in volta inglesi, olandesi, francesi, italiane e tedesche. L'interesse per la musica colta cominciò a diffondersi dopo la metà del sec. XIX: furono fondate orchestre, istituzioni musicali, conservatori e molti Americani si recarono in Germania prima e in Francia poi per studiare e perfezionarsi presso i maggiori maestri europei. Tuttavia solo con G. Gershwin (1898-1937) la musica nordamericana riuscì a sganciarsi, sia pur parzialmente, dal modello europeo e, rivolgendosi anche alla tradizione musicale dello strato etnico nero-americano (blues,gospel, jazz), allora in piena espansione, pervenne a una propria originalità. Prima e durante la II guerra mondiale il soggiorno americano di importanti compositori europei (Schönberg, Stravinskij, Bartók, Hindemith) e l'opera eversiva di John Cage e della sua scuola in tempi più recenti hanno contribuito in maniera determinante a superare definitivamente il tradizionale provincialismo della vita musicale americana, stimolando, attraverso gli apporti di compositori come Aaron Copland, Charles Ives, Leo David Diamond, nuove esperienze di linguaggio. § Come già nel Nord, anche nell'America Latina i coloni europei importarono le tradizioni musicali dei Paesi originari, in questo caso Spagna e Portogallo soprattutto. Lo sviluppo della musica colta fu comunque assai limitato e di portata ancor minore rispetto al Nord, se si eccettuano brevi fioriture vocali (villancicos) in Messico e in Perú, fra tardo Cinquecento e primo Settecento. Per tutto il sec. XIX l'unica forma musicale seguita con attenzione fu l'opera italiana, originale o imitata da modesti compositori locali. A livello più vasto l'interesse per la musica si è diffuso solo nel sec. XX. Sono sorti importanti centri musicali in Argentina, Brasile, Cile e Messico e, nell'ambito delle varie scuole nazional-folcloristiche, sono emerse alcune personalità di forte rilievo internazionale (Ginastera, Chávez, Villa-Lobos).



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