IL FARO DEI SOGNI

Stati Uniti d'America

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Cultura: teatro. L'evoluzione del sec. XX

Gli ultimi anni del sec. XIX videro anche la costruzione di nuovi teatri tecnicamente avanzatissimi (a New York ce n'erano 43 nel 1900, che sarebbero divenuti 80 nel 1928) e l'affermarsi di alcune personalità di rilievo come S. MacKaye, inventore di mirabolanti congegni scenici, D. Belasco, regista e drammaturgo che realizzò il tipo di realismo accettabile al pubblico americano, e C. Frohman, che completò il processo di industrializzazione del teatro, eliminando del tutto il concetto di compagnia (e quindi quello di repertorio) per scritturare attori in funzione di una determinata commedia, con criteri principalmente commerciali. Il dominio dei produttori, con gli attori utilizzati come star, cioè come mezzo per rendere più vendibile il prodotto teatrale, sempre in concorrenza con il cinema, rimase elemento caratteristico del teatro di consumo americano, cioè di Broadway, nei due grandi settori della prosa e della commedia musicale. Il resto della storia della scena statunitense è costituito dai tentativi compiuti per spezzare questo regime. I più importanti sono stati: nel 1915 i Washington Square Players, da cui uscì poi il Guild Theatre, per un trentennio circa l'organismo produttivo artisticamente e culturalmente più prestigioso di Broadway; nel 1916 i Provincetown Players, che rivelarono in E. O'Neill il massimo drammaturgo americano e in R. E. Jones lo scenografo più geniale; negli anni Trenta i numerosi gruppi indirizzati verso un teatro di impegno politico: il Group Theatre (1931-41), che introdusse con L. Strasberg, H. Clurman e poi E. Kazan una particolare versione del sistema stanislavskiano divenuta egemonica nella recitazione americana per almeno trenta anni; il Federal Theatre (1935-39), nato con finanziamenti governativi nel quadro della lotta contro la disoccupazione e chiuso quando si pensò che avesse esaurito il suo compito statutario e che rischiasse di diventare uno strumento per la diffusione di idee eversive. Broadway fece propri i fermenti più utilizzabili di queste iniziative e sin verso il 1960 tornò a diventare sinonimo di teatro americano, esportando i suoi copioni più riusciti in tutte le nazioni d'Occidente. La reazione venne dapprima con il movimento di off-Broadway, che si distingueva dal teatro commerciale per un maggiore ardimento nelle scelte e per lo spazio offerto a nuovi talenti, poi con il movimento di off-off-Broadway che contestava radicalmente la concezione prevalente del teatro proponendo spettacoli sostanzialmente eversivi, sia in senso politico sia sul piano estetico, e trovando le sue sedi in luoghi non necessariamente teatrali se non addirittura nelle strade. Altri fenomeni importanti dello stesso periodo sono il moltiplicarsi delle iniziative teatrali autonome fuori New York, con contributi anche cospicui delle municipalità; e i tentativi, generalmente sovvenzionati da qualche fondazione, di reagire alla logica di Broadway istituendo teatri, anche a New York, che per scelta di repertori e livello di allestimenti non cercassero la loro ragione d'essere nel conseguimento di un profitto. Tutto questo ha determinato una situazione del tutto nuova: Broadway ha cessato o quasi di essere terreno di coltura di nuovi testi e di autori nuovi per diventare cassa di risonanza di opere varate altrove, nei teatrini della periferia newyorkese, nelle sale municipali di altre città degli Stati Uniti e persino in Inghilterra. E spazio sempre maggiore hanno gli spettacoli musicali, non più fragili commediole inframmezzate da canzoni, ma complessi eventi teatrali dove ha parte preponderante la danza. Negli ultimi anni del sec. XX si è confermata la tendenza di un passaggio da una situazione monocentrica del teatro a una sorta di policentrismo. Tra gli autori più apprezzati, troviamo S. L. Parks, che propone al pubblico riflessioni sui temi del razzismo e del sessismo, M. Cho e S. Jones che, attraverso la tecnica del freestyle, ha unito l'hip-hop al teatro.



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Cultura: danza

Le prime notizie relative alla messa in scena di opere danzate negli Stati Uniti riguardano l'allestimento, a Charleston, nel 1735, di due balletti The adventures of Harlequin and Scaramouch e The Burgo'master Trick'd, messi in scena dall'inglese H. Holt. Negli ultimi anni del sec. XVIII New York, New Orleans, Filadelfia e ancora Charleston, ospitarono stagioni o singole rappresentazioni di balletti ispirati alle novità di Noverre e Dauberval, presentati da compagnie di artisti stranieri nelle quali comparivano per la prima volta professionisti americani come J. Durang. Nel periodo romantico, quando stelle del calibro della Taglioni e della Elssler visitarono con grande successo gli Stati Uniti, anche giovani stelle americane quali S. Maywood, M. Lee e G. Washington Smith cominciarono ad affermarsi. Negli anni Venti del sec. XIX lo scaligero C. Labassé e F. Hutin, prima ballerina della sua compagnia, introdussero negli Stati Uniti una forma più rigorosamente virtuosistica di tecnica classica e l'uso delle punte. Nei decenni successivi, numerosi balletti che avevano trionfato sulle scene europee furono introdotti negli Stati Uniti: fra questi La Sylphide (1835) e Giselle (1846), rappresentati a Boston. Sul finire del secolo (1866) The Black Crook, una forma originale di varietà misto di musica, recitazione, canto e piccoli intermezzi danzati di origine folclorica e ballettistica, si affermò con grande successo contribuendo largamente alla diffusione del gusto per gli spettacoli danzati. Oltre al raffinato pubblico di New York, il balletto poteva contare così su un crescente seguito di pubblico in tutto il Paese e questo anche grazie alle continue e numerose tournée di compagnie straniere, in particolare quelle di S. P. Djagilev (che giunse per la prima volta nel 1916) e di A. Pavlova. In forza dell'unicità del suo carisma, la sola Pavlova, nel corso di un quindicennio (1910-25), promosse la formazione di un'immensa platea di devoti appassionati. Anche sulla scia della sua esperienza, nel corso degli anni Trenta si costituirono le prime compagnie professionali. Nel 1929 D. Alexander fondò ad Atlanta la compagnia D. Alexander Concert Dancers; nel 1935, a Filadelfia, C. Littlefield creò il Littlefield Ballet; nel 1938, a Chicago, R. Page e B. Stone diedero vita al Page-Stone Ballet mentre nello stesso periodo i fratelli Christensen gettavano le basi, a San Francisco, per la nascita del San Francisco Ballet. A New York intanto L. E. Kinstein e G. Balanchine collaboravano alla creazione del futuro New York City Ballet e nel 1940 L. Chase dava vita alla compagnia del Ballet Theatre. La danza moderna americana deve a I. Duncan le principali evoluzioni dello stile all'insegna della spontaneità dei movimenti, ispirata alla alla classicità degli antichi greci. Sempre sul versante del modernismo – che ebbe il suo maggior centro a New York fin dall'inizio del Novecento – la California ospitò la prima scuola professionale di danza moderna, la famosa Denishawn, aperta a Los Angeles nel 1915 da Ruth St. Denis e T. Shawn. Dalla compagnia Denishawn cominciò la carriera di M. Graham che, attraverso lo sviluppo di nuove tecniche del linguaggio corporeo, strettamente legato all'espressione e all'emozione dell'individuo, rivoluzionerà l'arte e l'insegnamento della danza moderna. In California, L. Horton aprì una scuola e nel 1948 fondò a Los Angeles il suo Lester Horton's Dance Theatre. Nuove forme di sperimentalismo continuarono a prosperare sulla West Coast fino agli anni Sessanta grazie a personalità come A. Halprin, animatrice di un celebre workshop per artisti a San Francisco. A partire dagli anni Cinquanta, intanto, un deciso movimento di “regionalizzazione” portò alla costituzione di una forte associazione di compagnie di balletto, la National Association for Regional Ballet (fondata ad Atlanta nel 1956) che a partire dal 1973, e per alcuni anni, grazie a un generoso contributo della Fondazione Ford e alla collaborazione con il New York City Ballet di G. Balanchine, poté contare sull'acquisizione di numerosi titoli del repertorio balanchiniano e sui conseguenti notevoli miglioramenti sul piano tecnico e artistico che questa collaborazione introdusse nel balletto in tutto il Paese. Sempre negli anni Cinquanta, si assistette a un rifiuto, da parte dei coreografi, di quelle componenti psicologiche e narrative della danza, al fine di recuperare la tecnica accademica. Appartennero a questa corrente Merce Cunningham, Alwin Nikolais e Carolyn Carlson. Con il tentativo di avvicinare le performances ai movimenti e ai gesti del quotidiano, a partire dagli anni Sessanta si sviluppò la corrente postmoderna con Yvonne Rainer, Trisha Brown e Steve Paxton. Fra le compagnie di qualità, oltre quelle già ricordate, sono da menzionare il Boston Ballet, fondato nel 1958 da V. Williams e il Pennsylvania Ballet, fondato nel 1963 a Filadelfia da B. Weisberger. La danza americana si caratterizzò, negli anni Ottanta, per l'utilizzo di ulteriori mezzi espressivi quali la fotografia e il video. Tra i nomi principali si possono ricordare Mark Morris e il Momix Dance Theatre. Assai larga è anche, negli Stati Uniti, la diffusione della cultura di danza a livello universitario, e molti istituti in tutto il Paese offrono corsi di laurea e di dottorato nelle discipline coreutiche.



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Cultura: cinema. D.W. Griffith e C.B. de Mille

I primi esperimenti cinematografici risalgono in USA a T. A. Edison (un suo ingegnere nel 1893 iniziò la realizzazione di alcuni brevi film), ma solo dopo il trionfo dei fratelli Lumière a Parigi le proiezioni incontrarono successo. Edison, inizialmente scettico sulle possibilità del nuovo mezzo, dopo il trionfo sul mercato nazionale dei brevetti francesi, produsse con T. Armat, in concorrenza con il Cinématographe dei Lumière, il Vitascope e cercò di monopolizzare l'invenzione. Tra la fine del sec. XIX e i primi del XX sorgevano la Biograph e la Vitagraph di J. Blackton. E. S. Porter, ex operatore degli studi Edison di New York, produceva i primi film a soggetto e si diffondevano in tutto il Paese i nickelodeons che contribuirono a far affluire al cinema ingenti capitali (così si arricchirono C. Laemmle, A. Zukor, W. Fox, futuri magnati hollywoodiani). Dal punto di vista della produzione il cinema in quegli anni non si era ancora strutturato, era un mondo disorganizzato in cui mancavano o erano molto poche le esperienze acquisite. Ciascuno poteva essere ora attore, ora soggettista o regista; ebbe così modo di affermarsi D. W. Griffith, da molti storici considerato il vero inventore del cinema, sicuramente colui che da impresa finanziaria lo trasformò in fatto d'arte. Assunto dalla Biograph, pochi mesi dopo aver messo piede in uno stabilimento diresse il suo primo film dando inizio a un'attività che, attraverso una produzione ricchissima, doveva portarlo ai suoi capolavori: The Birth of a Nation (1915; Nascita di una nazione) e Intolerance (1916), due capisaldi della storia del cinema, destinati a far scuola fino ai giorni nostri. Nel frattempo il centro operativo del cinema statunitense si era trasferito da New York a Hollywood, grazie ancora a Griffith che per primo intuì le possibilità del nuovo insediamento dove la mitezza del clima si accompagnava a uno splendido scenario naturale, vi costituì nuovi impianti e vi aprì le prime sedi fisse (benché la nascita della città cinematografica si faccia abitualmente risalire al 1913, quando C. B. De Mille vi girò il suo primo film importante). Nel 1915 a Hollywood, ormai centro urbano autonomo in cui confluivano gli ingegni e i finanzieri del mondo cinematografico, si costituì la società Triangle tra Griffith, Th. H. Ince e M. Sennett. Quest'ultimo, specializzato nella produzione di comiche, aveva avuto il merito di intuire le grandi possibilità artistiche di C. S. Chaplin, la rivelazione più clamorosa di un momento in cui pure numerose erano le rivelazioni, il quale sotto la sua direzione interpretò i primi film e giunse poi, come regista e soggettista di se stesso, più volte al capolavoro. Mentre maturava il fenomeno artistico di Chaplin, Hollywood imboccava decisamente la strada dell'industrializzazione; accanto a una minore improvvisazione e a una maggiore preparazione, si affermava il principio dello sfruttamento sistematico degli attori più noti. La produzione studiava veri e propri programmi industriali a lunga scadenza, accaparrava i mercati cittadini, poi quelli nazionali e, in concomitanza con lo scoppio della prima guerra mondiale che aveva eliminato la concorrenza europea, correva alla conquista dei mercati mondiali.



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Cultura: cinema. Il divismo e la nascita dei generi

Nel primo dopoguerra accanto ai nomi di Griffith e De Mille (quest'ultimo, dopo una parentesi in cui approfondì la vena erotico-satirica, tornò al gusto per il colossale e il predicatorio che aveva contraddistinto le sue prime opere, attingendo indifferentemente al Vecchio Testamento o alla storia americana) oppure di Chaplin, che da solo compendiava molti miracoli del cinema, comparvero quelli degli interpreti, dei primi grandi divi (D. Fairbanks, Rodolfo Valentino, T. Mix e più tardi G. Garbo, il mito per eccellenza). Furono anzi questi i nomi e i volti più conosciuti dal grande pubblico, che in essi identificava il cinema con tutto quel bagaglio di fascino, fantasia e passioni da cui era attratto l'uomo comune, condizionato dal fenomeno del divismo che contemporaneamente contribuiva ad alimentare. In contrasto e in rivolta con questo mondo si sviluppò in quello stesso periodo l'attività di registi come R. J. Flaherty ed E. von Stroheim (quest'ultimo, benché ostacolato come regista, fu però integrato come attore nel fenomeno del divismo dal sistema hollywoodiano che per lui aveva creato lo slogan “colui che imparerete a odiare”). Flaherty, considerato il padre del documentario artistico, era legato alla poetica della natura e degli uomini dimenticati, che egli accostò con rispetto e restituì con verismo e semplicità, senza mai cadere nello spettacolare; von Stroheim, anticonformista, indagò e denunciò con crudo realismo gli aspetti più deteriori della società. Pur affrontando temi diversi essi furono accomunati dalla coerenza con cui portavano avanti il loro discorso, dal rifiuto del compromesso, ed entrambi furono emarginati e ostacolati dai produttori. Nelle case di produzione maggiori (Metro Goldwyn Mayer, Paramount, United Artists, First National, Fox Film) era stata frattanto impostata e ampiamente sviluppata una politica dei generi: la produzione, cioè, seguiva un iter predeterminato per assecondare i gusti del pubblico. Si ricordano, di questo periodo, i film dell' “orrore” interpretati da L. Chaney e i film comici nei quali, accanto a Chaplin, si affermavano B. Keaton, L. Semon (in Italia noto come Ridolini), H. Lloyd, H. Langdon. Tra i registi in voga in quegli anni, accanto a K. Vidor, H. King, F. Capra (che si fece notare dirigendo Langdon), si trovano E. Lubitsch, F. W. Murnau, J. von Sternberg, V. Sjöström, allontanatisi dai loro Paesi a causa della crisi del cinema europeo e attratti da Hollywood, dove si cercava di combattere la concorrenza straniera assorbendo dall'estero, con l'aiuto dei registi, anche i migliori attori. A molti di questi nomi è legata l'affermazione, accanto al filone commerciale, del film d'arte del decennio precedente il sonoro. Prima tappa verso il sonoro fu per gli Stati Uniti, nel 1926, Don Juan (Don Giovanni e Lucrezia Borgia), esperimento di A. Crosland, un regista di secondo piano, che nel 1927 diresse The Jazz Singer (Il cantante di jazz) con Al Jolson, che segnò storicamente l'avvento del parlato. Grazie anche alla nuova tecnica Hollywood superò gli anni della grande crisi economica conseguente al crollo di Wall Street: anzi tra il 1929 e il 1932 aprì nuove agenzie europee, produsse film in varie versioni, intervenne in aiuto delle case europee pericolanti, si riorganizzò e ristrutturò rapidamente. D'altronde proprio gli anni più rischiosi lasciarono dei varchi nella produzione per generi e videro uscire film di denuncia come All Quiet on the Western Front di L. Milestone (1930; All'Ovest niente di nuovo), Little Caesar (1930; Piccolo Cesare) e I Am a Fugitive from a Chine Gang (1932; Io sono un evaso) di M. Le Roy, Scarface (1932) di H. Hawks, o film della scoperta della vita quotidiana, film dell'antidivismo come Lonesome (1928; Primo amore) di P. Fejos e alcuni drammi di Vidor. Molti dei divi tradizionali furono emarginati (per la voce sgradevole o per una imperfetta dizione) e nella produzione hollywoodiana commerciale i nuovi attori furono cercati nell'ambiente teatrale, i commediografi vennero scritturati come soggettisti, gli attori-cantanti furono disputati dalle varie case. Nacquero così nuovi generi e registi (l'immaginoso G. Cukor, il pittoresco R. Mamoulian); ebbero più che mai fortuna Lubitsch, uno degli inventori della commedia sofisticata, W. Disney, che già nel 1928 aveva presentato Mickey Mouse (Topolino), De Mille, con le sue ricostruzioni monumentali, i musical di L. Bacon, personaggi esilaranti senza problemi come S. Laurel e O. Hardy, i film biografici della Warner Bros, quelli di avventure in terre esotiche della Metro, soprattutto le commedie di costume, sofisticate e brillanti di F. Capra e il genere western che trovò il suo regista in J. Ford. Quest'ultimo, già affermatosi nel periodo muto, seppe dare ottimi lavori anche quando puntò il suo interesse su problemi sociali come in The Grapes of Wrath (da J. Steinbeck, 1940; Furore). In quegli stessi anni si consumava la sfortunata odissea di ¡Que viva México! (1931-32) di S. M. Ejzenštejn che, deluso, abbandonava l'America, mentre pochi anni dopo la situazione politica europea costringeva all'emigrazione verso gli USA altri registi colpiti dalle persecuzioni razziali. Noto il caso di F. Lang che a Hollywood diresse tra l'altro Fury (1936; Furia) e You Only Live Once (1937; Sono innocente!). Escluse poche eccezioni, tra le quali va citato W. Wyler, che predilesse lavori a sfondo sociale, e tutta l'attività della Frontier Films guidata da P. Strand e L. Hurwitz e culminata nel documentario a soggetto Native Land (1939-42), quella degli anni Trenta fu però nel complesso una produzione di film d'evasione in cui primeggiavano i nuovi divi (M. Dietrich, J. Crawford, C. Gable, G. Cooper per citarne alcuni) e che approdò nel 1939 a Gone with the Wind (Via col vento) prodotto da D. O. Selznick, tipico esempio di colossal. A rompere il clima di convenzionale ottimismo fu ancora una volta Chaplin che nel 1940 con The Great Dictator (Il grande dittatore) uscì dallo schematismo americano per considerare i fatti europei e impostò il primo discorso d'accusa nei confronti del nazifascismo.



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Cultura: cinema. Il tema della guerra e l'impegno sociale

Fin dall'inizio della secondo guerra mondiale molti registi erano stati incaricati di seguire le fasi del conflitto, ma dopo Pearl Harbor il cinema statunitense fu praticamente mobilitato e la guerra divenne tema fondamentale di numerosissime produzioni. Riprese vita il documentario che era stato trascurato da Hollywood e abbandonato ai fotografi d'avanguardia (come Strand appunto) e ai ribelli (il cinegiornale March of Time, fondato nel 1934 dal produttore L. DeRochemont che si era specializzato anche nelle cronache ricostruite negli studios, aveva costituito un'altra delle poche eccezioni); Flaherty tornò con poca fortuna negli USA per dirigere nel 1942 The Land (che fu poi rifiutato dal ministero committente), Capra, Ford, gli stessi operatori di Disney furono inviati al fronte. Erano intanto arrivati in America numerosi registi europei. Se il contributo del documentarista olandese J. Ivens alla serie Perché combattiamo di F. Capra fu rifiutato dalla produzione, maggior successo ebbero J. Renoir, R. Clair e A. Hitchcock. Benché i due francesi non raggiungessero più il livello artistico delle loro opere nazionali, e l'ultimo si sia abbandonato talvolta a una produzione meramente commerciale, essi furono autori di film significativi tra il 1940 e il dopoguerra. Attraverso registi di origine europea (Hitchcock, R. Siodmak, C. Bernhardt) si affermò a Hollywood un cinema imperniato sulla violenza e sul crimine, pessimistico, crudele e polemico. Vi fu un graduale passaggio dal thriller al film nero, perfettamente illustrato da The Maltese Falcon (1941; Il mistero del falco) di J. Huston, un regista che, servendosi del filone poliziesco, contribuì a introdurre un anticonformismo anticipatore di un cinema più impegnato. L'esperienza di Huston fu variamente seguita da registi come B. Wilder con Double indemnity (1944; La fiamma del peccato), E. Dmytryk con Murder, my Sweet (1944; L'ombra del passato), mentre W. Wellman con The Ox-Bow Incident (1943; Alba fatale) si servì del western per un tema di violenza sociale come il linciaggio. Nel 1941 aveva frattanto esordito O. Welles, che presentatosi con Citizen Kane (Quarto potere), un film di denuncia di strabiliante aggressività, riuscì immediatamente e irrimediabilmente scomodo agli ambienti conservatori di Hollywood e ne fu emarginato, come più tardi (nel dopoguerra) fu osteggiato Chaplin per Monsieur Verdoux (1947), accusato di faziosità, immoralità e antiamericanismo.



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Cultura: cinema. Il maccartismo e il sorgere di nuovi miti

Dopo il conflitto Hollywood ritornò ai vecchi sperimentati filoni come in Duel in the Sun (1946; Duello al sole) di K. Vidor, Gilda (1946) di Ch. Vidor o The Big Sleep (1946; Il grande sonno) di Hawks, dai quali si staccarono alcuni lavori rispondenti a un maggiore impegno sociale come The Lost Week-end (1945; Giorni perduti), studio sull'alcolismo di B. Wilder, The Best Years of Our Lives (1946; I migliori anni della nostra vita), realizzato da W. Wyler sul tema del difficile reinserimento del reduce, o film di protesta e di denuncia come Brute Force (1947; Forza bruta), sul tema carcerario, di J. Dassin e il già citato Monsieur Verdoux di Chaplin. Lo stesso neorealismo italiano, accolto con grande interesse negli Stati Uniti (sempre attenti a cogliere le proposte europee), influenzò i registi di quegli anni, anche se nella maggior parte dei casi si può parlare di un legame ideale, più che di una chiara derivazione. Crossfire (1947; Odio implacabile) di Dmytryk e Boomerang (1946) di E. Kazan, robuste inchieste girate prima che arrivassero i film italiani, indicano che il terreno era predisposto ad accogliere nuove idee. Naked City (1948; La città nuda) di Dassin, The Set-Up (1949; Stasera ho vinto anch'io) di R. Wise, Act of Violence (1949; Atto di violenza) e Teresa (1951) di F. Zinnemann, The lawless (1950; Linciaggio) di J. Losey, The Brave Bulls (1951; Fiesta d'amore e di sangue) di R. Rossen, o i soggetti di P. Chayefsky (da Marty, 1955, a The Bachelor Party, 1957; La notte dello scapolo), dimostrarono l'impegno, non soltanto descrittivo, di avvicinarsi ai fatti comuni degli uomini con un atteggiamento che risentiva della lezione del neorealismo. Gli esempi più completi di questo fenomeno sono però pochi e si ritrovano solo in alcuni film di scarsa circolazione, come The Quiet One (1948; L'escluso) di S. Meyers, On the Bowery (1956) di L. Rogosin, Salt of the Earth (1953, Sfida a Silver City) di H. J. Biberman. Nonostante questa vitalità culturale, Hollywood subì in quegli anni una crisi di proporzioni allarmanti che portò alla chiusura delle case minori, mentre la produzione diminuiva progressivamente. Se da un lato la depressione era causata dal ridimensionamento dello star system, per decenni elemento trainante del cinema americano, certamente molto fu da ascrivere all'inaridimento di soggettisti e sceneggiatori, tanto più che essi furono vittime delle campagne di censura ideologica scatenate dal senatore Mac Carthy. Numerosi cineasti furono costretti alla disoccupazione, molti emigrarono, mentre altri ex ribelli accettarono il compromesso e si adeguarono alla nuova realtà (nel 1954, per esempio, Dmytryk diresse The Caine mutiny, L'ammutinamento del Caine, che, sotto l'apparente polemica, nascondeva una resa incondizionata). Il cinema ufficiale tentò di arginare la crisi ricorrendo ai vecchi temi, ai colossal, allo sfruttamento di nuove tecniche (cinemascope e cinerama), e lanciando nuovi idoli, tra cui M. Brando, P. Newman, J. Dean, come antidoto alla crisi. Tormentati, nevrotici, disincantati, bravissimi e scontenti furono gli interpreti dei film pervasi dal senso di angoscia e di violenza di Kazan, di Wyler, di Huston, di N. Ray. La stessa M. Monroe, lanciata come simbolo del sesso, era ben lontana dall'immagine stereotipata pretesa da Hollywood e mostrava chiaramente il disagio di recitare parti esclusivamente convenzionali superando la costrizione con un impegno fuori schema. Una ripresa di Hollywood si ebbe solo quando, allentata la pressione della censura, ripresero a circolare le idee (del 1958 è Paths of Glory, Orizzonti di gloria, di S. Kubrick, uno dei migliori risultati sul tema dell'antimilitarismo). La città comunque non riuscì più a riacquistare l'autonomia e il potere che aveva prima, né fu più l'unico volto noto del cinema americano.



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Cultura: cinema. L'affermarsi del cinema underground e le altre fortune di Hollywood

La nuova realtà lasciò spazio ad altre esperienze: si moltiplicarono le iniziative di coproduzione e di produttori indipendenti, furono girati film sperimentali e, dopo le imposizioni del maccartismo, fu il momento dei film sulla libertà di pensiero. Hollywood comunque insisteva ancora sullo spettacolo, benché dagli anni Sessanta avesse aggiunto ai suoi obiettivi la politica della buona qualità, mentre il cinema americano indipendente seguiva altre strade e nel 1960 un gruppo di registi d'avanguardia costituì, in polemica con la produzione corrente, il New American Cinema. Tale tendenza, nella quale confluì l'underground, si concentrò a New York auspicando un cinema “non roseo, ma del color del sangue”, un cinema sperimentale, di poesia e di rinnovamento formale, non integrato nella prosa dell'industria e del sistema; ma come movimento di “terza avanguardia” esaurì in pochi anni (fino al 1967) la sua funzione di rottura, lasciando i nomi dei film-makers di punta (da K. Anger a J. e A. Mekas, da S. Brakhage a G. Markopoulos), mentre il caposcuola della pop art, A. Warhol, era a sua volta assorbito dal commercio, specie attraverso i film del suo mediatore P. Morrissey. Da Shadows (1960; Ombre) a A Woman Under the Influence (1974; Una moglie) J. Cassavetes proseguì invece un suo personale cammino, specchio di un'America diversa. Negli anni Sessanta si proclamò troppo spesso la morte di Hollywood, la quale seppe invece rinascere, ridimensionandosi di fronte alla nuova situazione. Spettatori, incassi, numero di film, tutto diminuiva o addirittura si dimezzava, l'impero delle major companies si dissolveva travolto dal crack dei colossal (Cleopatra, 1962), la televisione come nuova “fabbrica dei sogni” si era accaparrata l'America “omogenea”, mentre i giovani (il 70% del pubblico) reclamavano un altro tipo di cinema. Il “sogno americano”, già scaduto, si sarebbe poi frantumato in Vietnam e con il Watergate. A tutto ciò l'industria del cinema reagì contenendo le spese e ristrutturando gli impianti: con freddezza l'alta finanza e le multinazionali subentrarono ai produttori di un tempo, impadronendosi del nuovo cinema ma lasciandogli maggiore libertà di movimento. Si affermò così, anticipata a suo tempo da un produttore-cineasta quale S. Kramer (Judgement at Nuremberg 1961; Vincitori e vinti), una folta generazione di registi-produttori e di attori, sceneggiatori, operatori più o meno autonomi, dotati di enorme e perfino esasperato professionismo, e che negli anni Settanta si caratterizzò anche per l'origine italiana di parecchi suoi esponenti (F. Ford Coppola, M. Scorsese, B. De Palma, R. De Niro, V. Storaro, C. Rambaldi ecc.). Stando lontano da Hollywood si riscoprì il continente in film di viaggio a basso costo ma di forte successo, il cui capostipite fu, nel 1969, Easy Rider. Alle costrizioni ideologiche del passato si rispose con un inedito impegno di pensiero, anche se Kubrick si allontanò dall'America per esprimerlo (Doctor Strangelove, 1964; Il dottor Stranamore, 2001 A Space Odissey, 1968; 2001 Odissea nello spazio).



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Cultura: cinema. Dalla contestazione degli anni Settanta ai nuovi kolossal

Attorno al 1970 molte istanze protestatarie emersero nel cinema della contestazione giovanile (più tardi, però, sarebbe subentrato il riflusso). Ma anche nel cinema tradizionale si operò un rivolgimento: tutti i generi, dal western con S. Peckinpah al film-gangster con A. Penn, dal rétro con P. Bogdanovich al comico con W. Allen, trovarono nuovi echi nell'angoscia o nella nostalgia, nella violenza o nell'eros; oppure vennero svuotati dall'interno come nell'opera di R. Altman, il cui capolavoro Nashville (1975) risultò una grande metafora critica dell'America sulla soglia del bicentenario. Perfino il cinema puramente spettacolare apparve legato alle inquietudini e ai traumi della società, traendone anzi, quasi per paradosso, il suo eccellente stato di salute economica attraverso il ritorno ai generi tipici dei periodi di disagio come il filone nero, quello poliziesco-politico, quello catastrofico, la fantascienza irrazionale o mistica ecc. Nei film miliardari di Coppola, da The Godfather (1972; Padrino) ad Apocalypse Now (1979), divennero spettacolo anche la mafia e il Vietnam. In quelli di G. Lucas (da Star Wars, Guerre stellari, 1976, a Return of the Jedi, Il ritorno dello Jedi, 1983) e di S. Spielberg (da Jaws, Lo squalo, 1975, a ET, 1982) sono stati travolti i primati d'incasso facendo ricorso al cinema degli effetti speciali, cui è seguito negli anni Ottanta quello elettronico. Ma quasi sempre ai nuovi ritrovati tecnologici è corrisposta la banalità dei contenuti narrativi (fa eccezione ET dove il rapporto tra il bambino e l'extraterrestre ha il fascino della favola classica in un contesto avveniristico). D'altronde la trasformazione dei giovani talenti in gigantesche macchine da soldi è stata una delle vittorie della nuova Hollywood. Alla quale tende, in larghissima misura, anche il cinema che si autodefinisce “indipendente” e che tra il Settanta e l'Ottanta si presenta con uno spirito e con ambizioni esattamente agli antipodi dell'underground degli anni Sessanta. Curiosamente lo stesso planetario successo del cinema di Hollywood ne ha determinato una crisi artistica ed economica nel corso degli anni Ottanta. La necessità di mantenere inalterata l'egemonia economico-commerciale su tutti i mercati internazionali, ha portato il grande cinema americano a impoverire l'aspetto narrativo a favore degli effetti speciali e di formule di intrattenimento il più possibile ecumeniche. Inoltre l'esagerata levitazione dei costi ha spesso prodotto clamorose crisi industriali, come quelle della Columbia, rilevata nel 1989 da capitali giapponesi, o le difficoltà della MGM, i fallimenti della Cannon e di Dino De Laurentiis.



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view post Posted on 19/2/2020, 17:34     Top   Dislike
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Cultura: cinema. I film di maggior successo e la contemporaneità

Nella seconda metà degli anni Ottanta si sono affermati cineasti dal linguaggio oltraggioso ma consapevolmente raffinato, spesso specializzati nel cinema fantastico o di genere. Ci riferiamo alle invenzioni di D. Lynch (Blue Velvet, 1986; Velluto Blu, Wild at Heart, 1989, Cuore selvaggio), di M. Scorsese (Taxi Driver, 1976; Raging Bull, 1980, Toro scatenato; The Last Temptation of Christ, 1988, L'ultima tentazione di Cristo). Se sempre di grandissimo mestiere è l'attività di Spielberg (la trilogia di Indiana Jones; Jurassic Park, 1993; Schindler’s List, 1994; Amistad, 1997) e di alcuni suoi protetti cresciuti alla scuola di R. Corman, come J. Dante, di assoluto interesse culturale sembrano piuttosto le esperienze appartate ma non clandestine dei cineasti di New York, con W. Allen (Crimes and Misdemeanors, 1989; Crimini e misfatti, Manhattan murder mistery, Misterioso omicidio a Manhattan, 1993; Bullets over Brodway, 1994; Pallottole su Broadway, Deconstructing Harry, 1997; Henry a pezzi, Celebrity, 1998) e l'afroamericano S. Lee (Do the right thing, 1987; Fa' la cosa giusta, Malcolm X, 1992; Clockers, 1995; Girl 6, 1996; Get on the bus, 1996; He got game, 1998; Summer of Sam, 1999; L'estate di Sam), punte di diamante di un cinema che non rinuncia a interrogarsi sulle proprie ossessioni culturali, sociali e personali. Nel 1980 inoltre Kubrick dirige Shining, un horror destinato a riscuotere un notevole successo di pubblico e a diventare film di culto così come i successivi Full Metal Jacket (1987) e Eyes Wide Shut (1999). Nei primi anni Novanta il cinema di Hollywood vive un nuovo successo uscendo così dalla crisi in cui era caduto nel decennio precedente. Da un lato l'industria prosegue lungo la strada del puro intrattenimento e nella diversificazione del prodotto cinematografico: film sempre più costosi e colossali (Waterworld, 1995, raggiunge i 170 milioni di dollari di budget, Titanic di J. Cameron, 1997, sfiora i 190 milioni), rinascita o rivitalizzazione di generi consolidati e spettacolari (la fantascienza con Independence Day, 1996, e Armageddon, 1997), sfruttamento sistematico di nuovi filoni (serial killer o psicho thriller, con personalità disturbate quasi ai confini dell'horror come The silence of the lambs di J. Demme, 1991; Il silenzio degli innocenti), compreso, fatto inconsueto nell'America puritana, un genere soft-erotico (Basic Instinct, 1992; Body of Evidence, 1992; Striptease, 1996), uso del sequel e del remake (A perfect murder, 1998, Delitto perfetto, di A. Dawis, con M. Douglas, e City of Angels, 1998, di B. Silberling). Dall'altro lascia spazio al cinema d'autore, capace di affrontare anche tematiche scomode come la tossicodipendenza (Drugstore Cowboy di G. van Sant, 1989) o l'AIDS. Oltre alla conferma di attori già noti (S. Stone, S. Sarandon), si assiste all'affermarsi di T. Hanks, vincitore di due premi Oscar come miglior attore protagonista in due anni successivi (1993 con Philadelphia e 1994 con Forrest Gump). Numerosi poi sono i film di questi anni che hanno suscitato un notevole consenso di pubblico e di critica come Mac (1992) e Illuminata (1998) di J. Turturro, Mrs Doubtfire (1993) di C. Columbus, Casualites of War (1989; Vittime di guerra), The Bonfire of the Vanities (1990; Il falò delle vanità), Carlito’s Way (1995) e Mission: Impossibile (1997) di B. De Palma, Aladdin (1993) di J. Musker e R. Clements, The Firm (1993; Il socio) di S. Pollack e Wolf (1994) di M. Nichols. A partire dagli anni Novanta anche il mondo dell'animazione statunitense si propone come alternativa al cinema tradizionale anche per un pubblico adulto, grazie al tono dissacrante delle sceneggiature e alle nuove tecniche digitali. Si assiste così al trionfo dei Pixar Studios con Toy Story (1995), A Bug’s Life (1998), Monster &Co (2001), Alla ricerca di Nemo (2003), Gli incredibili (2004), Cars - motori ruggenti (2006) e Ratatouille (2007). Nel 1992 rientra a Hollywood R. Altman con la pungente satira di The Player, una riflessione sugli spietati meccanismi delle produzioni cinematografiche, per poi tornare al successo con Short Cuts (1993; America oggi), uno sguardo pessimista sulla società americana contemporanea, con Gosford Park (2001), The Company (2003) e A Prairie Home Companion (2006; Radio America). Accolti dalla critica con grande attenzione, molto prolifici e originali si sono dimostrati i fratelli E. e J. Coen che, con uno sguardo innovativo, hanno cambiato le regole dei generi, dal gangster movie Miller’s Crossing (1990; Crocevia della morte) alla commedia The Ladykillers (2004), senza dimenticare Fargo (1996), The Man Who Wasn’t There (2001; L'uomo che non c'era), No Country for Old Men (2007; Non è un paese per vecchi) e Burn After Reading (2008). Tra i più influenti registi degli anni Novanta troviamo Q. Tarantino e la sua consacrazione con Pulp Fiction (2004), vincitore di un Oscar per la miglior sceneggiatura e della Palma d'oro al Festival di Cannes, e poi con Jackie Brown (1997), Kill Bill vol. 1 (2003), Kill Bill vol. 2 (2004) e Death Proof (2007). Tra gli autori che hanno ormai da anni raggiunto la notorietà, contribuendo ad arricchire la cinematografia degli anni Novanta e che continuano ancora oggi a produrre grandi classici, ricordiamo O. Stone (Natural Born Killer, 1994, Assassini nati; Any Given Sunday, 1999, Ogni maledetta domenica) che si distingue nel panorama hollywoodiano per l'impronta politica dei suoi film (JFK, 1991; Comandante, 2003; Word Trade Center, 2006). Interessante è anche il lavoro di F. Ford Coppola (Dracula di Bram Stoker, 1992; The rainmaker, 1997, L'uomo della pioggia), e di C. Eastwood (Unforgiven 1992, Gli spietati; A Perfect World, 1993, Un mondo perfetto; The Bridges of Madison County, 1995, I Ponti di Madison County) che negli anni Duemila arriva all'apice della sua eleganza e intelligenza emotiva con Mystic River (2003), Million Dollar Baby (2004) vincitore di due premi Oscar, Flags of Our Father (2006) e Letters from Iwo Jima (2006; Lettere da Iwo Jima), due film complementari, due punti di vista sulla stessa guerra, il primo americano e il secondo giapponese e Gran Torino (2009). W. Allen nel Duemila dirige gli ironici Anything Else (2003) e Scoop (2006) oltre a Match Point (2005) e Cassandra’s Dream (2007; Sogni e delitti), film dal registro noir. Dopo aver diretto l'inquietante Cape Fear (1992) e la riflessione sul mondo religioso d'Oriente con Kundun (1997), M. Scorsese torna negli anni Duemila a raccontare le contraddizioni e la violenza insita nella società americana (Gangs of New York, 2002; The Departed, 2006) mentre T. Burton prosegue il suo percorso nel fantasy e nel fiabesco con Edward Scissorhands (1990; Edward mani di forbice) e nelle atmosfere gotiche di Sleepy Hollow (1990; Il mistero di Sleepy Hollow), declinate anche nell'animazione (Corpse Bride, 2005; La sposa cadavere) e nel musical Sweeney Todd: the Demon Barber of Fleet Street (Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street, 2007). Oltre a quest'ultimo lavoro di Burton, altri tentativi di rielaborare il genere del musical, adattandolo ai gusti postmoderni, sono stati quelli di B. Luhrmann (Moulin Rouge, 2001) e di B. Marshall (Chicago, premio Oscar 2002). La crescente notorietà del Sundance Film Festival, Festival del cinema indipendente, ha portato alla scoperta di registi come J. Sayles (Lone star, 1997, Stella solitaria; Limbo, 1999), J. Jarmush (Dead man, 1996; Broken Flowers, 2005), A. Anders (Grace of My Heart, Grazia del mio cuore, 1997), T. Di Cillo (Living in Oblivion, 1997; Si gira a Manhattan), R. Linklater (Before Sunrise, 1996; Prima dell'alba), S. Mendes (American Beauty, 1999, vincitore di 5 premi Oscar nel 2000) e permette la nascita di cult movie anticonvenzionali, come Clerks (Commessi, 1996) o il dittico di W. Wang e P. Auster Smoke/Blue in the face (1995). Tra i nuovi talenti, provenienti dal cinema indipendente ma ormai riconosciuti dal pubblico e inseriti a pieno titolo tra gli autori contemporanei, ricordiamo S. Coppola (The Virgin Suicides, 1999, Il giardino delle vergini suicide; Lost in Translation, 2003; Marie Antoinette, 2006), M. July (Me and You and Everyone We Know, 2005), D. Gordon Green (George Washington, 2000; All the Real Girls, 2003). Anche il documentario, soprattutto quello a sfondo sociale, a partire dai primi anni del nuovo millennio, comincia a coinvolgere fasce di pubblico sempre più vaste, come dimostra il successo di Fahrenheit 9/11 di M. Moore, un'indagine politica sulla vendita di armi da fuoco nel corso della storia americana, fino al crollo delle Twin Towers nell'attentato terroristico del 2001. Scorre nuova linfa anche nel cinema di S. Soderbergh che dopo Sex, Lies and Videotape (1989; Sesso, bugie e videotape, Palma d'oro al Festival di Cannes) è passato a pellicole più commerciali come Ocean’s Thirteen (2007) passando per Traffic (2000), opera corale di denuncia sul narcotraffico tra gli USA e il Messico. Tra i più interessanti protagonisti della settima arte, G. Van Sant continua a raccontare, con uno stile rarefatto e destrutturato, la criticità delle giovani generazioni (Elephant, 2003, Palma d'oro per il miglior film e premio per la miglior regia al Festival di Cannes; Last Days, 2005; Paranoid Park, 2007). Film che indagano sulle conseguenze delle recenti campagne militari americane sono quelli di K. Bigelow, tra cui The Hurt Locker (Premio Oscar alla regia 2008, assegnato per la prima volta a una donna) e Zero Dark Thirty (2012).



fonte www.sapere.it/enciclopedia/Stati+Uniti+d%27America.html

 
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