| Territorio: geografia umana. L'immigrazione
Questi, fatti affluire dall'Africa per la prima volta nel 1619, si accrebbero successivamente in modo assai rilevante, sia per le ulteriori massicce immissioni nel Paese sia per il loro alto tasso di natalità (nel 1790 rappresentavano ben il 20% della complessiva popolazione statunitense, in seguito si sono più o meno attestati sul 10-12%): essi costituiscono il principale elemento eterogeneo nell'ambito della popolazione degli USA e l'irrisolto problema della loro effettiva integrazione nella vita del Paese continua a essere di capitale rilievo per gli Stati Uniti. Quanto agli amerindi, che in numero di ca. 1 milione abitavano il Paese all'arrivo degli Europei, essi furono a poco a poco sterminati sia per le stragi spietate sia per l'alcolismo e le malattie contratte dai bianchi, tanto da essere ridotti a ca. 250.000 alla fine dell'Ottocento; successivamente però le migliorate condizioni igieniche e la pace (pagata però con la creazione delle riserve, in genere nelle aree più sfavorite del Centro-Ovest e dell'Ovest, come l'Arizona, l'Oklahoma, il New Mexico) portarono a un aumento della compagine indiana. Il processo di ampliamento del Paese fu stimolato, si potrebbe dire reso necessario, dalle grandi ondate immigratorie, ivi sospinte dal dinamismo economico e sociale che percorreva e percorre gli USA: dal 1820 al 1991 hanno raggiunto stabilmente il Paese oltre 58 milioni di immigrati, tra cui ca. 7 milioni di tedeschi, 5 milioni di italiani, 10 milioni tra abitanti della Gran Bretagna e dell'Irlanda, 4 milioni provenienti dal Canada e oltre 3 milioni dalla Russia. A partire dalla metà del XIX secolo, all'immigrazione essenzialmente inglese e irlandese si aggiunse infatti quella proveniente da altri Paesi europei. Le prime grandi ondate di immigrati d'origine non britannica furono composte specialmente da tedeschi e scandinavi, attratti soprattutto dalle regioni forestali più settentrionali. Rapidamente la popolazione aumentò. Nel 1790 vi erano in tutto il territorio 3,9 milioni di ab.; nel 1850 erano già 23,2 milioni. E proprio a partire dal 1850 il ritmo immigratorio raggiunse valori via via crescenti. Dal 1850 al 1860 gli immigrati furono 2,6 milioni; tra il 1860 e il 1880 ca. 5,2 milioni; tra il 1880 e il 1900 ben 9 milioni. Verso la fine del sec. XIX cominciò l'afflusso dei gruppi slavi e soprattutto degli italiani. Il ritmo subì una nuova accelerazione. Tra il 1900 e il 1910 raggiunsero gli USA 8,8 milioni di immigrati e nei soli quattro anni tra il 1910 e il 1914 oltre 5 milioni. Poi con la guerra in Europa si ebbe un calo fortissimo, benché l'afflusso fosse sempre consistente; finché, con le leggi del 1921, del 1924 e del 1928, l'immigrazione prese a essere controllata con la regola delle aliquote, stabilite sulla base delle nazionalità già presenti nel Paese; ciò favorì gli immigrati britannici, che formavano allora la maggior parte della popolazione, mentre fu praticamente chiusa l'immigrazione agli asiatici, ai cinesi soprattutto, che in numero notevole cominciavano a stabilirsi nell'Ovest. Le varie nazionalità si fissavano preferibilmente nelle aree che offrivano occasioni di lavoro più simili a quelle della madrepatria. La grande massa degli immigrati, sprovvisti di preparazione, di qualifiche, come molti italiani, finiva nei ghetti delle grandi città atlantiche, che erano ricettacolo un po' di tutti coloro che arrivavano nelle nuove terre alla ventura; in seguito a ciò si ebbe la forte crescita dell'urbanesimo in questa parte degli USA, già organizzata industrialmente e proprio per ciò in grado di ospitare masse umane sempre nuove. Era così definitivamente tramontata l'epoca dei coloni anglosassoni che conquistavano con fatica, quasi sempre ben ripagata, il loro posto, in ciò favoriti dall'Homestead Act, in base al quale ognuno diventava padrone del terreno dissodato e messo a coltura. Gli immigrati che si ammassavano nelle grandi città, cioè in un contesto sociale e umano estremamente diverso, erano ormai di stampo nuovo e cercavano forse fortune più facili. Si determinarono o si acuirono perciò tensioni tra nazionalità che erano il riflesso di mentalità diverse e che ebbero come conseguenza quella di aggregare le varie comunità, soprattutto nei grandi centri urbani, dove si crearono quartieri distinti, abitati da gruppi omogenei, più o meno integrati nella vita sociale e nell'economia globale del Paese. Alcuni Stati del Nord (Connecticut, Delaware, Maryland, Massachusetts ecc.) sono stati relativamente immuni dalla mescolanza etnica propria delle metropoli della regione atlantica centrale (New York, Pennsylvania ecc.), che sono il vero sfondo di quel melting pot, quel “crogiuolo” così caratteristico del tessuto umano statunitense. Anche il Sud (South Carolina, Georgia, Alabama, Mississippi ecc.) ha conservato una certa purezza etnica, con le famiglie della vecchia aristocrazia coloniale e le masse di neri le quali però a poco a poco, anche per sfuggire alla miseria e alla politica segregazionista, abbandonarono in gran numero le campagne depauperate cercando il proprio posto nelle grandi città del Centro-Est, capaci di assorbire un po' tutti, seppure al prezzo di quelle discriminazioni sociali che sono all'origine dei grandi ghetti urbani dei centri maggiori. L'Ovest, dal Texas alla California, è anch'esso multietnico: i richiami di questa regione sono stati infatti assai vari, a eccezione di alcune zone, come la Valle della California, che con il suo clima mediterraneo si prospettò come luogo adatto per i coloni italiani specializzati nella viticoltura e nell'orticoltura. Il Nord-Ovest (Washington, Idaho, Oregon ecc.) ha attratto soprattutto slavi, scandinavi e tedeschi. Successivamente l'importanza di questi richiami, data la grande mobilità sociale degli USA, si è ridotta e le specifiche aree etniche hanno seguito la tendenza a sparire per riformarsi nelle città, però molto degradate là dove le etnie rappresentano le classi sociali inferiori ed emarginate. L'immigrazione del resto si è, dalla metà del Novecento, relativamente ridotta, anche se la seconda metà del secolo scorso, specie subito dopo la seconda guerra mondiale, ha portato un flusso notevole (tra il 1950 e il 1970 ca. 6,4 milioni), per lo più proveniente dall'Europa e dal Canada, Paese che serviva di base agli emigranti europei per raggiungere in un secondo tempo gli Stati Uniti. Nei primi anni del sec. XXI il saldo migratorio è stato positivo grazie all'afflusso di latino-americani e asiatici. In particolare l'immigrazione legale, che conta circa 1 milione di nuovi ingressi l'anno, proviene per parti quasi uguali dall'America Latina (principalmente Messico e Caraibi) e dall'Asia mentre quella clandestina pressoché esclusivamente dall'America Latina e riguarda in primo luogo gli Stati meridionali del Paese (California, Texas, New Mexico ecc). Gli Stati Uniti sono inoltre tra le maggiori destinazioni per i rifugiati e richiedenti asilo politico; costituiscono inoltre il più importante tra i Paesi donatori dell'UNHCR. Il Paese ha accolto, nel periodo tra il 1996 e il 2005, una cifra che si aggira intorno ai 500.000-1.000.000 individui tra rifugiati, giunti da Bosnia Erzegovina –specie nel periodo 1998-2002 –, Somalia, Liberia, Cina, Ucraina (dal 1999), e richiedenti asilo, arrivati per lo più da Messico, Haiti, Colombia e Cina.
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