IL FARO DEI SOGNI

India

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Cultura: arte. L’India antica prima dei Gupta

Tuttora oscuro, dal punto di vista artistico, è il periodo compreso tra la fine della civiltà dell'Indo e gli inizi della dinastia Maurya (fine sec. IV-inizi II a. C.), sotto la quale nasce l'arte ufficiale e monumentale. In ambito architettonico, le più antiche strutture pre-Maurya sembrano essere rappresentate dalla cinta muraria in pietrame di Rajgir (Rājagṛha, l'antica capitale del Magadha, odierno Bihar) e da quanto rimane delle mura in legno e argilla della successiva capitale, Pāṭaliputra (odierna Patna, Bihar), la quale sotto i Maurya ricevette un'impronta persiana, com'è evidente dalla “sala per le udienze” (pilastrata e sostenuta da 84 colonne monolitiche polite su basi di legno, un tempo ricoperta per mezzo di travi lignee), costruita sul modello di un apadāna. Purtroppo null'altro ci è rimasto dell'architettura, con ogni probabilità quasi interamente lignea, affermatasi nel periodo Maurya, e della quale si può avere idea dai posteriori rilievi dello stūpa di Bharhut (Madhya Pradesh orientale; 100 a. C.): si tratta di edifici a due o tre piani, recintati spesso da una balaustra, con portali ad arco carenato, logge e balconi e copertura a padiglione. All'epoca Maurya risalgono le isolate “colonne di Indra”, simboleggianti la liberazione delle acque da parte di Indra e, allo stesso tempo, il sovrano universale, asse e garante dell'ordine cosmico ed etico-sociale. Altre di queste colonne-pilastri, più tarde, forse simboleggiano il Buddha. Le iscrizioni e i numerosi stūpa tradizionalmente attribuitigli sono testimonianza dell'appoggio dato da Aśoka al buddhismo, che convisse accanto alle altre religioni, come provato dalle grotte fatte costruire per la setta degli Ājīvīka a Barābar (Bihar). È a partire dai sec. II-I a. C., nelle cosiddette epoche Śuṅga (nel Nord) e Sātavāhana (nel Sud), che si assiste alla piena formulazione dell'arte buddhistica, anche se lo stūpa n. 2 di Sanchi presenta una decorazione con temi non necessariamente buddhistici. È sullo stūpa di Bhārhut (100 a. C.), di cui rimangono parte della balaustra e dei portali, che, per la prima volta nell'arte indiana, sono raffigurati gli episodi della vita del Buddha storico e delle sue precedenti incarnazioni (Jātaka); i rilievi di Bhārhut, fondamentali per la ricostruzione della vita quotidiana dell'India antica, dal punto di vista stilistico mostrano i caratteri essenziali della scultura indiana che perdureranno fino all'epoca Gupta e che vedono le figure schiacciate fra due piani paralleli. Di poco posteriori a Sanchi n. 2 e a Bharhut sono gli stūpa di Amaravati, nella decorazione più antica, e di Pauni (Maharashtra). Il monumento buddhistico più celebre è forse lo stūpa n. 1 di Sanchi, sui cui rilievi le figure acquistano un certo spessore pur rimanendo estranee a ogni forma di naturalismo. Al periodo che va dalla fine del sec. II alla metà del sec. I a. C. risalgono i più antichi caitya e vihāra, del Maharashtra, importanti per la ricostruzione “in negativo” degli edifici in scala naturale: Bhaja (vihāra n. 19), Pitalkhora, Bedsā. Alla più antica epoca Sātavahāna risale la più famosa delle grotte di Nānaghāt, la n. 11, dal significato non direttamente religioso, con le immagini dei primi sovrani della dinastia. Sempre nel Maharashtra, e in ambito buddhistico, è ormai accertato che alla metà del sec. I d. C. risale la parte più antica della grotta di Kārlī, mentre al periodo compreso fra il sec. II a. C. e il sec. I d. C. rimontano le più antiche grotte di Ajanta. Più avanti nel tempo sono da collocarsi quelle di Nāsik (sec. II-III d. C.). Intorno alla seconda metà del sec. I a. C. sorgono le prime immagini antropomorfe del Buddha, sino ad allora rappresentato aniconicamente, nel Gandhāra e a Mathura. A partire dal sec. I-II d. C., accanto a quelle del Buddha, troviamo le prime immagini di Bodhisattva, in concomitanza con l'affermarsi del Mahāyāna. Sono tre le scuole che in questo periodo emergono: sotto la dinastia Kuṣāṇa, quelle del Gandhāra e di Mathura. La terza, fiorita sotto gli Sātavāhana, è nota come Scuola di Amaravati; caratterizzata da varie fasi, ha il suo naturale sbocco nella produzione di Nāgārjunakonda, sotto gli Ikṣvāku, e si protrae fino al sec. IV, oltre i limiti cronologici degli Sātavāhana. In questa scuola, dal punto di vista stilistico, la linearità caratteristica della prima fase viene sostituita da una crescente profondità e plasticità, cui subentra il progressivo appiattimento delle figure, che si allungano sempre più, perdendo ogni naturalezza e trasformando la composizione in un nodo di linee concentriche. Queste caratteristiche si accentuano nell'ultima fase, con l'ulteriore assottigliarsi delle figure, ora dagli arti inferiori estremamente allungati e dall'aspetto quasi “ragniforme”.

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Cultura: arte. L’età Gupta e post-Gupta

La scuola di Mathura ha la funzione di guida nella successiva produzione Gupta, dove si fissano i canoni estetici e iconografici dell'arte indiana. È ormai accertato che all'epoca bassa (seconda metà del sec. V) risalgono le sculture più “classiche” di questa scuola. Comunemente considerato produzione Gupta, in realtà da attribuirsi a epoca post-Gupta, è il gruppo più tardo delle grotte di Ajanta, alcune delle quali famose soprattutto per le pitture di altissima qualità e la cui eco si riscontra a Ceylon (Sri Lanka) negli “affreschi” di Sigiriya (sec. V). Dal punto di vista architettonico, il conseguimento più importante dell'arte Gupta è il tempio indù, che in epoca post-Gupta si andrà definendo, grosso modo, in tre stili: nāgara o “settentrionale”, con copertura conico-convessa sormontata da un vaso (kalaśa), vesara, derivato dal caitya, con copertura a botte, drāviḍa, o “meridionale”, con copertura formata da una successione di terrazze dall'andamento piramidale. Il tempio in stile “settentrionale” avrà la sua massima espressione in epoca “medievale”, a Khajurāho (Madhya Pradesh) e nell'Orissa (Bhubaneswar e Puri). La tradizione Gupta sembra continuare a Aihole (Karnataka), sotto i Cālukya (sec. VI-VIII), mentre i templi di Paṭṭaḍakal (Karnataka), della metà del sec. VIII, rappresentano una fase di transizione, che vede convivere stile “settentrionale” e “meridionale”. Un esempio dello stile vesara ci è offerto dal Bhīma (uno dei ratha di Mahabalipuram). Fra i più famosi templi indù in stile drāviḍa sono il “Tempio della spiaggia” di Mahabalipuram, il contemporaneo Kailāsanātha di Kanchipuram (Tamil Nadu) e lo splendido Rājarājeśvara di Tanjore (Tamil Nadu), degli inizi del sec. XI. Volendo tracciare un'evoluzione, se sotto i Cola eccelle il vamāna (sacrario) è sotto i Pāṇḍya che si sviluppano i gopura (portali-torri), che, nella produzione di Madurai, in accordo con il fenomeno del gigantismo, assumono dimensioni immense, maggiori del tempio stesso. L'interesse di Vijayanagar è rivolto al mandapa (ambiente antistante il santuario), ricco di figure finemente scolpite. Sempre nel Sud, sotto gli Hoysala (sec. XI-XIV) vengono costruiti i templi a pianta stellare (Belur, Halebid, Somnāthpur), dove la decorazione scultorea, estremamente raffinata, copre interamente le pareti esterne, non lasciando più alcuno spazio libero. Architettura e scultura rupestre raggiungono i massimi livelli in epoca post-Gupta nella grotta śivaita di Elephanta (Maharashtra; metà sec. VI) e, fra il 700 e l'800, nelle grotte indù, buddhistiche e giaina di Ellora (Maharashtra) – famosa per il gigantesco Kailāsanātha, monolito in stile “meridionale” – che segnano la fine di questo particolare tipo di architettura. Nel Sud, al di fuori di quella templare, la produzione scultorea è rappresentata soprattutto da rilievi rupestri (Mahabalipuram) e da una ricchissima produzione in bronzo che raggiunge i massimi livelli artistici sotto i Cola. Fra i centri più importanti del Nord-Est post-Gupta sono Nālandā, Besnagar e Pāhārpur (sec. VII). Le sculture del complesso di Nālandā (noto per l'università buddhistica) segnano la fase di transizione fra arte Gupta e Pāla, rivelando, allo stesso tempo, la presenza di elementi del Nord-Ovest, particolarmente evidenti nella produzione in stucco. L'arte Pāla-Sena (sec. VII-XIII), fiorita nell'India nordorientale, è destinata ad avere una grande diffusione in Nepal, nel Tibet, e nel Sudest asiatico. Caratterizzata da una produzione scultorea in pietra e in bronzo, buddhistica e indù, si distacca dalla tradizione Gupta della quale è erede e che vede le figure, non più compresse fra due piani, ora rese con un certo manierismo meccanico e privo di vita, quasi virtuosistico, spesso accompagnato da una notevole pesantezza dovuta all'abbondanza dei particolari. Nel Nord, sono infine da menzionare le scuole del Kashmir; nella produzione scultorea dei monumenti più antichi si ricorda quella fittile, che una volta ornava la corte del complesso buddhistico di Harwān (fine sec. V), oggi sommerso da una frana. Le sculture di impronta gandharica di Akhnur e Uṣkur (sec. V-VI), originariamente in crudo, sono testimonianza dei legami esistenti con il Nord-Ovest, come anche le numerose immagini buddhistiche in bronzo, del sec. VIII e IX, spesso confuse con quelle dello Swāt (Pakistan). L'influsso gandharico è evidente anche nell'architettura, che vede i templi (a pianta quadrata o quadrangolare con copertura piramidale) con le porte sormontate da un frontone triangolare che iscrive un arco trilobato. Fra i più famosi templi sono quello del Sole di Martand (sec. VIII), quelli di Śiva Avantiśvara e di Viṣṇu Avantisvāmi di Avantipur (sec. XI) e il Purāṇādhiṣṭhāna di Pāndrethan. Da ricordare infine gli avori, fra cui lo stupendo Buddha del Prince of Wales Museum (Bombay) del sec. V. In stretto rapporto con quella del Kashmir è la cultura Hindu-Śāhi (sec. IX), fiorita in Afghanistan, caratterizzata da una produzione in marmo di soggetto prevalentemente śivaita.

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Cultura: arte. L’epoca musulmana e moghūl

L'arte del periodo musulmano (sec. XII-XV) e di quello successivo Moghūl (sec. XVI-XVIII), caratterizzata dalle costanti tendenze persiane e turche, diede luogo a interessanti incontri con le tradizioni artistiche indù, le quali riuscirono a manifestarsi con nuove possibilità espressive, giungendo spesso ad amalgamarsi in perfetta sintesi con l'estetica islamica (stile indomusulmano). Le manifestazioni più significative dell'arte indomusulmana si hanno non solo a Delhi, che fu capitale del Sultanato dal sec. XII al sec. XV, ma anche nei cosiddetti Stati Provinciali, che, approfittando dell'indebolimento del potere centrale, riuscirono a creare un'indipendenza non solo politica ma anche artistica, finché l'impero moghūl non riassorbì tutto sotto la sua supremazia, imponendo al subcontinente un'unità politica e artistica. Nella regione del Bengala, così lontana geograficamente da Delhi, lo stile architettonico che si venne sviluppando è dovuto all'utilizzazione del mattone, unico materiale reperibile in un terreno alluvionale come quello bengalese, che diede alle costruzioni un aspetto compatto e pesante appropriato alla situazione climatica del Paese. La pietra, importata da lontano, veniva usata con parsimonia sia per scopi strutturali sia per motivi decorativi, affiancata, a volte, da mattonelle smaltate di stile indù. Nelle due capitali bengalesi Gaur e Pandua gli edifici meglio conservati sono le moschee, le quali generalmente sono prive di cortile, fatta eccezione per la Adina Masǧid di Pandua (1374-75), e presentano la sala per la preghiera oblunga, aperta da tante porte e coperta da una serie di cupole, fra cui spicca al centro della facciata il chauchala, un tetto ricurvo a due o quattro spioventi di tradizione indigena. Di questo tipo sono la Chota Sona Masǧid (Piccola Moschea dorata) e la Bara Sona Masǧid (Grande Moschea dorata) entrambe a Gaur. Il piccolo regno di Jaunpur, sotto la dinastia Sharqi (fine sec. XIV-sec. XV) divenne uno dei centri più raffinati di cultura e di arte dell'India. Qui lo stile architettonico, esemplato nelle moschee rimasteci, Àtala Masǧid, Ǧami Masǧid, risente dell'influenza del Sultanato di Delhi. Questo è evidente sia nella pianta delle moschee che seguono modelli tradizionali sia nell'inclinazione delle mura delle torri che incorniciano l'ingresso alla sala della preghiera, enfatizzato quest'ultimo dalla presenza di un grande īwān di stile persiano. La regione del Gujarat (nei sec. XIV-metà sec. XVI) mantenne intatta la tradizione indiana, sia per la raffinata tecnica di lavorazione della pietra sia per i modelli architettonici seguiti, di stile giaina e indù. Nel Malwa, punto di incontro tra le regioni del Nord, il Gujarat e il Deccan, lo stile architettonico risentì di questa pluralità di influssi. Nella capitale Mandu, il paesaggio naturale ricco di acqua e di vegetazione si integra perfettamente con le architetture religiose e civili creando piacevoli effetti scenografici. Realizzati in una bella arenaria locale, gli edifici sono spesso abbelliti da mattonelle smaltate, da ornati di marmo, da pietre di vari colori. Oltre alla Grande Moschea di Mandu ricordiamo il Jahāz Mahal (Palazzo Nave) formato da una serie di padiglioni che spiccano su una terrazza di una costruzione stretta e lunga, e l'Ashraph Mahal (Palazzo delle Monete d'oro). Negli Stati meridionali del Deccan (metà del sec. XIV-fine sec. XVIII), nel lungo periodo di autonomia si sviluppò uno stile che risente da una parte dell'influenza di Delhi, dall'altra della Persia timuride, dovuta alla presenza della classe politica che era di origine persiana. A parte l'insolita Ǧami Masǧid di Gulbarga, priva di corte e di minareto, a Bidar la madrasa di Maḥmūd Gawan, sia per l'impianto architettonico (i quattro īwān e i minareti cilindrici a più piani) sia per il rivestimento a mattonelle smaltate, è un perfetto esempio di architettura timuride. A Bijapur gli influssi più evidenti sono di origine ottomana e si evidenziano nella forma bulbosa delle cupole, nelle torrette cupolate, nella profusione di ornati. Di questo tipo sono il Mithar Mahal, l'Ibrahim Rauza, il Gol Gumbaz. Il Kashmir diede vita a un tipo di architettura del tutto originale che rimase vincolato a metodi costruttivi indù e buddhistici, all'uso del bel legno locale (il cedro deodar) alternato a corsi di mattoni, e all'influenza dell'edilizia persiano-centroasiatica espressa soprattutto nella planimetria a quattro īwān. Interessante a partire dal sec. XII fu la rigogliosa fioritura delle scuole di pittura, come quella del Bengala (sec. XII-XIX), così importante per le conseguenze nell'arte nepalese e tibetana, e quella Rājpūt (sec. XIV-XIX), nella suddivisione dei due filoni pahāri e rājasthānī, le cui radici affondavano nell'antica tradizione giainica della scuola del Gujarat, sviluppatasi sotto la protezione dei Cālukya nel sec. XII e durata fino al sec. XVII.

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Cultura: arte. L’influenza europea

Alla secolare dominazione dell'arte musulmana seguì in India l'influenza dell'arte europea, che si era già insinuata nei sec. XVI-XVII attraverso la presenza di opere occidentali alla corte moghūl. Tale influenza divenne più pressante attraverso il contatto diretto con gli europei, che diffusero nell'India forme dell'architettura barocca portoghese e di quella neogotica inglese, nonché il gusto decorativo degli stili francesi. A loro volta gli europei furono interessati e suggestionati dall'arte indigena, la cui produzione tuttavia era scaduta a carattere artigianale. Verso la fine dell'Ottocento, attraverso iniziative varie, l'India prese coscienza del pericoloso impoverimento della cultura nazionale e iniziò l'opera di tutela e di rivalutazione delle proprie tradizioni.

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Cultura: arte. L’epoca contemporanea

Nel sec. XX, negli anni Trenta-Quaranta l'arte indiana ha assistito a un movimento di ritorno alle origini onde individuare una fertile fonte di ispirazione nel proprio patrimonio culturale (si ricordino le creazioni di Amrita Sher Gil, di Jamini Roy, di Sailoz Mukherji); tuttavia in seguito la preoccupazione maggiore è stata quella di integrare creativamente le influenze provenienti dall'Occidente mediante un processo di assimilazione che, mantenendosi aperto agli stimoli esterni, non facesse torto alla mentalità indiana. Nacquero così vari movimenti, come il Delhi Silpi Cakra (Circolo artistico di Delhi), che si proponeva di opporsi all'impreparazione critica di altre società ed ebbe fra i suoi massimi rappresentanti K. S. Kulkarni; o come la Scuola di Bombay, dalla quale si staccò il Gruppo dei Progressisti, le cui figure principali furono Rancis Newton Souza e M. F. Husain. Se i primi artisti, ispirandosi vagamente a pittori occidentali, quali Gauguin e Modigliani (Amrita Sher Gil), incentravano le loro ricerche sul patrimonio culturale indigeno, in particolare bengalese (Jamini Roy), gli altri si proponevano di creare un linguaggio figurativo prettamente indiano, pur non rinnegando le dominanti correnti internazionali. Una tendenza che negli anni Settanta ha attratto l'attenzione internazionale e che, nell'ambito del panorama nazionale, si è posta quale punto di riferimento per i valori autenticamente indiani di cui si fa veicolo, è quella che trae ispirazione dalle radici mistico-simboliche del ricco patrimonio religioso del Paese. Forti di un'identità nazionale e del legame con la propria tradizione, corroborata da una solida impalcatura filosofica, gli artisti hanno prodotto un neoastrattismo che per significatività, qualità formale e sensualità del colore è stato di fascino immediato. Negli anni Ottanta, è stata avvertita l'esigenza di rivedere criticamente l'adozione di valori creativi internazionali per verificare se effettivamente soddisfacessero al genio nativo e se fossero di stimolo per l'inventiva autoctona. Contemporaneamente si è sviluppata una corrente figurativista che si è sforzata di fungere da cerniera tra le correnti ideologicamente più avanzate e il retroterra sociale, che rischiava di rimanere emarginata dal processo evolutivo. L'approccio culturale di tale corrente si è esplicato anche con periodiche mostre collettive che hanno continuato la tradizione iniziata negli anni Sessanta e Settanta. Con tali intenti, si è fatto notare l'eterogeneo gruppo “Saar”, costituitosi a New Delhi. Successivamente si è affermata una corrente che ha fuso l'aspetto fantastico del movimento neoastrattista con le forme più convenzionali del figurativismo; ne è nata una pittura dai toni più intimistici che si è posta come sviluppo espressivo di un orientamento surrealistico con forme allusive che, per sensibilità e adattabilità, non sono nuove all'arte indiana. Tra i nomi emersi nell'ultima parte del XX sec. se ne segnalano alcuni: Riyas Komu (n. 1971), videoartista; Nalini Malani (n. 1946), nata in Pakistan ma che ha scelto Bombay quale sede del proprio lavoro e che unisce arte tradizionale e nuovi media; Sanjay Bhattacharya (n. 1958); N. N. Rimzon (n. 1957); Satish Gupta (n. 1947), pittore, scultore e poeta; Bikash Bhattacharjee (n. 1940), paesaggista e ritrattista; Shilpa Gupta (n. 1976), il cui mezzo prediletto è il web; il collettivo Raqs Media, un gruppo di artisti attivi nel settore dei new media, nella fotografia, oltre che nella critica e nella ricerca d'arte tradizionali. Per quanto riguarda l'architettura, sensibile all'esperienza europea, l'India ha raccolto le stimolanti esperienze e realizzazioni dei maggiori architetti occidentali chiamati a operare nel Paese (Le Corbusier, piano di Chandigarh; E. Lutyens e H. Baker, New Delhi). L'influenza della cultura occidentale si è affermata anche con il diffondersi dell'International Style. A partire dagli anni Ottanta si è formata una classe di architetti indiani promotori di un'architettura moderna attenta alle condizioni climatiche e al linguaggio tradizionale; si ricordano innanzitutto Charles Correa (pianificazione di Bombay, Museo Jawahar Kala Kendra a Jaipur), B. Doshi (villaggio per la Gujarat State Fertilizers) e Satish Grover (n. 1940), autore dell'Indian High Commission a Kuala Lumpur.

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Culura: teatro

Il teatro indiano, secondo la leggenda, avrebbe origini divine. Allo stesso Brahmā sarebbero infatti dovute le regole di un Veda dell'arte drammatica che tocca recitazione, canto, musica, sentimenti. Per ragioni estetiche ed etiche il teatro viene a essere privato della tragedia e resta essenzialmente lirico, vi manca o quasi l'azione e si ricorre a linguaggi diversi secondo l'importanza dei personaggi: dei, sovrani, asceti, ministri parlano sanscrito; regine, ancelle, personaggi di grado e caste inferiori parlano in pracrito. I personaggi sono fissi e i modelli di rappresentazione sono ventotto: dieci principali (rūpaka) e diciotto secondari (uparūpaka). Eccelle la commedia eroica e diffuse sono la commedia borghese e la farsa. Tra i primi autori drammatici il più noto è Bhāsa (sec. III-IV), autore fra l'altro del Povero Cārudatta, considerato fonte di un altro capolavoro: Il carrettino d’argilla di Śudraka (sec. IV-V), primo esempio di studio dei caratteri. Un'opera di particolare interesse e validità è stata scritta nel sec. VI-VII da Viśākhadeva e si tratta del Rāksasa del sigillo, che mette in scena il re Candragupta e il suo ministro e consigliere Cāṇakya, identificato con Kauṭilya, il più famoso maestro dell'arte di governo dell'India antica. Ma il capolavoro in senso assoluto del teatro indiano è Śakuntalā di Kālidāsa (sec. IV-V), delicata storia d'amore del re Dusyanta per Śakuntalā, figlia adottiva dell'asceta Kanva. Dopo di lui, l'autore più noto è certamente Bhavabhūti (sec. VIII) cui si devono tre drammi ancora oggi rappresentati: Mālati e Mādhava, Le gesta del grande eroe, Le ultime gesta di Rāma. Sono queste le opere maggiori dell'antichità classica, mentre tutte le letterature moderne dell'India trovano le loro massime espressioni drammatiche a contatto con la cultura occidentale. Abbiamo le opere a sfondo sociale del bengalese Dinabandru Mitra (1829-1873), su un filone ormai generalmente seguito, e quelle altamente liriche di Tagore: La vendetta della natura, Raja, Oleandri rossi e Citrā, il suo capolavoro, tenera storia d'amore, ispirata al ciclo mahābhāratiano. L'affermarsi di una coscienza nazionale, fatto nuovo per una nazione da sempre politicamente frazionata, ha favorito il diffondersi di una vasta, se non sempre valida, letteratura patriottica, affiancata o sostituita poi da ideologie marxiste dei giovani antitradizionalisti. Tutto ciò ha portato a sperimentare nuove tecniche che vanno dalla prosa, alla poesia, al teatro, e ha promosso l'ascesa e il declino di un numero incredibile di scuole e correnti letterarie, che pur avendo vita breve e generalmente poco fortunata, contribuiscono a rendere la scena artistica assai vivace con nomi di risonanza mondiale. Nella seconda metà del XX sec. il movimento principale è stato il Theatre of Roots (Teatro delle radici), il cui sforzo si è indirizzato nel cercare una sintesi fra il teatro moderno europeo e quello indiano tradizionale: The Fire and the Rain di Girish Karnad (n. 1938) e Aramba Chekkan di Kavalam Narayana Panikkar (n. 1928) sono due fra le opere più rappresentative di questa corrente. Negli anni più recenti Routes and Escape Routes (1994) di Datta Bhagat si inserisce nella tradizione nota come Dalit Sahitya (letteratura degli oppressi), relativa alla condizione dei fuoricasta. Figura di rilievo è stata Usha Ganguli, con il suo ensemble Rangakarmee, il più attivo nel teatro hindī e promotore di una serie di spettacoli impostati sulla fisicità e sulla danza, come Rudali (1992), Himmat Mai (1998), Shobhayatra (2000), e Kashinama (2003).

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Cultura: musica

La musica indiana ha origini antichissime, essendo sempre stata considerata una componente essenziale del rituale mistico-religioso. Testimonianze indirette possono essere individuate nei primi libri vedici; nel Nāṭyaśāstra, vero e proprio manuale di drammaturgia risalente, forse, al sec. II d. C. e attribuito a un mitico Bhārata, sei capitoli dedicati alla musica offrono un primo documento diretto. La fonte principale della teoria musicale indiana resta tuttavia il Saṃgītaratnākara (sec. XIII; Oceano della musica), ricchissimo di implicazioni cosmogoniche e metafisiche, al quale ci si riferisce per intendere quasi tutti i linguaggi musicali indiani, rimasti sostanzialmente immutati anche se diversificati secondo la regione e il ceto sociale di diffusione. In pratica, soltanto verso il sec. XIV iniziò una distinzione significativa fra la tradizione musicale dell'India settentrionale, condizionata dall'Islam e dalla musica persiana, e quella dell'India meridionale, fedele alla tradizione antica. La teoria armonica indiana è assai complessa e denota singolari similitudini con quella dell'antica Grecia. Nella teoria classica indiana, l'ottava risulta suddivisa in 22 śruti, approssimativamente uguali fra loro. Sovrapponendo gli śruti secondo precise norme, si ricavano tre scale fondamentali eptafoniche e da queste, con opportune alterazioni e trasposizioni, 56 modi derivati, a loro volta trasformabili per ottenere scale pentatoniche ed esatoniche. I modi (jāti) di uso comune furono però solo sette; in epoche successive tuttavia fu conferito a ogni modo (detto ora rāga) un significato simbolico particolare, fu stabilita una rigida gerarchia fra le note e il sistema acquisì possibilità di variazioni e combinazioni praticamente infinite. Le esecuzioni non seguono tuttavia schemi formali rigidi e sono di solito liberamente improvvisate su temi noti. Il ritmo si sviluppa secondo modelli molto elaborati, in larga misura improvvisati. Gli strumenti utilizzati sono assai differenziati: idiofoni vari, tamburi (il tablā e il pakhawāj), fiati (il sānai e lo sṛnga), a corda (la vīṇā e numerosi derivati tra cui il kinnarī, il sārod e il sitār). La musica indiana sviluppatasi successivamente, in età contemporanea, ha seguito tre linee principali di sviluppo: le forme tradizionali, la musica cosiddetta classica e la musica leggera. Nel primo ambito grande popolarità ha avuto il bhangra, una sorta di musica folk, accompagnata da danze, originaria del Punjab. Di ascendenza più colta, la corrente musicale chiamata rabindra sangeet, diffusa soprattutto nell'ovest del Bengala, che interpreta le oltre 2000 canzoni scritte da Rabindranāth Tagore. La massima personalità musicale dell'India contemporanea è senza dubbio Zubin Mehta (n. 1936), direttore d'orchestra di fama mondiale (Orchestre filarmoniche di Vienna, Berlino, New York, Israele e altre); di rilievo anche il contributo di Anil Biswas (1914-2003) e Ali Naushad (1919-2006), la cui opera di compositori ha permesso una prolifica commistione di elementi classici, tradizionali e popolari, confluita prevalentemente nella musica per film. A questa si collega infine la maggiore produzione pop indiana, il filmi, genere che si identifica con le colonne sonore dei film musicali.

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Cultura: danza


Di origine divina secondo i suoi cultori, la danza indiana è legata agli antichissimi riti e alle cerimonie religiose: l'evoluzione dell'universo viene espressa in India sotto forma di danza eterna eseguita da Śiva (detto Natarāja, cioè maestro e signore dei danzatori e degli attori), “che crea l'orbe carolando”. Allo stesso Brahmā si attribuisce la creazione del Nātyaveda che codifica per la danza e la musica due tipi (Mārgi per gli dei, Desi per i mortali) e due generi (l'aggraziato e femminile Lasya e il forte e virile Taṇḍava). Nella teogonia vedica la danza è quindi parte del pensiero divino e tale appare nell'antico trattato indiano sulla danza e l'arte drammatica, il Nāṭyaśāstra (forse sec. II d. C.), la cui tradizione è ancor oggi viva in alcune aree (Ceylon, Bali) e in cui sono descritte le 108 Karana, le unità-base della danza classica (illustrate dai bassorilievi dei portali del tempio di Śiva a Chidambaram). Tre sono le forme o stili fondamentali della danza indiana e discendono da una radice nṛṭ che esprime il danzare (donde il teatro, l'attore, il danzatore): nāṭya, la danza usata nel dramma, una specie di pantomima; nṛtta, la pura danza in musica; nṛṭya, la danza mimica nella sua forma più eletta. Quest'ultima è espressione di un sentimento (bhāva) attraverso gesti e mimica (ankur) e linguaggio delle mani (mudrā) e, quindi, estrinsecazione estetica (rasa) dello stato d'animo. L'interpretazione di bhāva e rasa è chiamata abhinaya e si realizza con la fusione di quattro differenti modi d'espressione: angikā, riguardante i movimenti del corpo (espressione figurativa); āhārya, concernente scene, costumi, trucco, illuminazione (interpretazione coreografica); vacīka, espressione verbale, e sāttvika o rappresentazione delle otto condizioni psichiche originarie (calma o equilibrio, fissità, orrore, vergogna, dolore, orgoglio, stanchezza, gioia sfrenata). Tra le danze classiche indiane si possono distinguere, operando secondo criteri di provenienza geografica, quattro stili e tipi: il bhārata nāṭyam della costa sudorientale, antica e solenne danza cultuale delle devadāsi (ancelle di dio), forma religiosa e rituale della vita contemplativa nella quale il linguaggio delle mani è rigidamente codificato; il kathakali, proveniente dalla costa sudoccidentale (Malabar), e come il bhārata nāṭyam, danza nazionale, fusione di dramma, pantomima e danza, con impiego della mimica facciale e accentuazione drammatica del linguaggio delle mani, eseguita all'aperto durante una notte e con tema la storia della vita, con intervento di dei e di demoni; il manipuri, che prende nome dallo Stato nordoccidentale del Manipur di cui è originario, danza anch'essa eseguita all'aperto e nottetempo e che racconta l'amore divino di Kṛṣṇa e Rādhā con uno stile caratterizzato dall'estrema delicatezza dei movimenti di tutto il corpo, frutto di una tecnica assai difficile e complessa e il più pittoresco – anche per la ricchezza dei costumi – fra gli stili classici indiani; infine, il kathak, sensuale e dinamica danza di corte dell'India settentrionale. La danza classica indiana, dopo una parentesi di oscuramento (sec. XVIII e XIX) coincisa con la decadenza dello śivaismo, ha ripreso il suo significato e la sua potenza, sostenuta da interpreti divenuti nuovamente numerosi dopo l'operazione di recupero culturale condotta in India nel sec. XX e ampiamente divulgata anche all'estero al punto di influire sulla danza occidentale contemporanea, dal danzatore e coreografo Uday Shankar(1900-1977), ritenuto il “padre” della danza moderna in India, dalla danzatrice Yamini Krishnamurti e, nella scuola di Santiniketan, dal poeta Tagore. Nella danza contemporanea Manjushree Chaki-Sarkar si è rivelata quale autrice di un nuovo linguaggio corporeo, definito Nava Nrityam, mentre figura di spicco è oggi Jayachandran Palazhy.


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Cultura: cinema

Sedici anni dopo l'introduzione a Bombay del Cinématographe dei Lumière (1896) il pioniere D. G. Phalke realizzò il primo lungometraggio indiano, Raya Harischandra (1913), ottenendo un successo che favorì la produzione di pellicole storiche e mitologiche e anche di commedie durante l'intero periodo muto per un totale di ca. 1500 film. Padre del sonoro e del colore fu invece Ardeshir M. Irani, rispettivamente con Alam Ara (1931), parlato e cantato in hindī, e con Kisan Kanya (1937). All'avvento del sonoro il primato culturale e artistico passò a Calcutta e al cinema drammatico in lingua bengālī della “New Theatres” di P. C. Barua e D. K. Bose, legato alla tradizione degli antichi vati nazionali e all'insegnamento di Tagore; mentre nasceva al Sud la produzione tamil (a Chennai dal 1934) e telegu, particolarmente versata nei film musicali con gran copia di canzoni. Tale consuetudine, del resto, dominò sempre anche il cinema di Bombay, in prevalenza commerciale e basato su commedie e leggende, tra i cui registi si affermò V. Shantaram, presente negli anni Trenta e Quaranta alla Mostra di Venezia e attivo anche a Puna per la “Prabhat” più incline al film sociale. Quindici produzioni nazionali, 14 lingue-madri, 300-350 film all'anno di alta durata media (428 lungometraggi nel 1972) costituirono lo standard quantitativo del cinema indiano, che a partire dagli anni Cinquanta fu secondo solo a quello giapponese. Ma nel 1952 un festival internazionale a New Delhi rivelò che le altre cinematografie erano andate ben più avanti nella qualità e che dai melodrammi teatrali, operistici e letterari fino a quel tempo imperanti era assente la vita del Paese e del popolo. Soprattutto il neorealismo italiano provocò un effetto di schock. E fu allora, sulla traccia già indicata da K. A. Abbas con I figli della terra (1943-44) sulla carestia nel Bengala, che nacquero film assai apprezzati ai festival europei, come Due ettari di terra (1953) di Bimal Roy, Sciuscià (1954) di P. Arora, Munna (1954) di Abbas, Il signor 420 (1955) e All’erta o Sotto il manto della notte (primo premio a Karlovy Vary, 1957) di Raj R. Kapoor, Due occhi e dodici mani (1957) di Shantaram; mentre sorgeva il cinema pakistano con Quando nascerà il mondo (1959) di A. Kardar e il grande Satyajit Ray portava a termine la trilogia bengalese (Pather Panchali, 1955; Aparajito o L’invitto, premiato con il Leone d'oro alla Mostra di Venezia del 1957, e Il mondo di Apu, 1959), che doveva renderlo celebre, ma solitario in seno a una cinematografia rimasta nella sua enorme maggioranza estranea e impermeabile alla sua lezione. Al realismo sociale di Abbas (La città e il sogno, 1964), all'umanesimo dialettico e “tagoriano” di Ray (La dea, 1960; La metropoli, 1963; Charulata o La donna sola, 1964), continuò a opporsi l'industria dello spettacolo commerciale. Duro apparve quindi il cammino per un nuovo cinema, di cui nel 1968 stese il manifesto Mrinal Sen, il cineasta più anticonformista di quell'ultima leva, il quale polemizzava su aspetti concreti di esistenza individuale e su problemi collettivi reali, lasciando in sottordine il lirismo che invece affascinava ancora troppi registi indiani. Il fulcro di un cinema drammaticamente consapevole rimase, come in passato, a Calcutta, dove la produzione era assai più povera che a Bombay. Il successo alla Mostra di Venezia del 1969 del film di Sen a basso costo Il signor Shome (un film senza attori né colori né canzoni) servì al rilancio in patria di questo cinema “post-Ray”, nel quale esordirono molti giovani e al quale talvolta si convertirono registi e attori prima dediti al prodotto commerciale. Superati nel 1973 i 450 film annui, nel 1976 i 500, nel 1980 i 750 e nel triennio 1982-85 i 2400, il cinema indiano agli inizi degli anni Novanta si è trovato a detenere, per quantità di pellicole prodotte, il primato mondiale. Non ancora minacciato dalla concorrenza televisiva, rimane l'unico nutrimento per le masse povere nella sua confezione di melodramma cantato e danzato, colorato e mitologico, con divi assai popolari e nessun riferimento alla realtà concreta, caratteristiche che hanno contribuito alla nascita della definizione di “Bollywood” per l''industria del cinema popolare/commerciale indiano. Tale è il tipico film hindī, prodotto a Bombay e distribuito in ben 88 Paesi d'Asia e d'Africa: la sua produzione è tuttavia diminuita negli ultimi tempi a favore dei film regionali del Sud e dell'altra capitale del cinema che è Chennai. All'enorme numero di pellicole corrisponde però un numero esiguo di sale: ca. 13.000, di cui un terzo ambulanti, e per di più concentrate nelle città, anche se l'incremento negli anni Ottanta è stato notevole, con oltre 500 sale in più all'anno. La grande novità è rappresentata dallo sviluppo crescente della produzione nelle diverse lingue regionali (oltre all'hindī e al tamil, si producono film in telugu, marāṭhī, bengālī, malayāḷam, kannada, ecc.); Bangalore, capitale del Karnataka, è divenuta con i suoi film in kannada il “paradiso dei cineasti”, merito del regista-attore Girish Karnad.

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Il fulcro di un cinema drammaticamente consapevole rimase, come in passato, a Calcutta, dove la produzione era assai più povera che a Bombay. Il successo alla Mostra di Venezia del 1969 del film di Sen a basso costo Il signor Shome (un film senza attori né colori né canzoni) servì al rilancio in patria di questo cinema “post-Ray”, nel quale esordirono molti giovani e al quale talvolta si convertirono registi e attori prima dediti al prodotto commerciale. Superati nel 1973 i 450 film annui, nel 1976 i 500, nel 1980 i 750 e nel triennio 1982-85 i 2400, il cinema indiano agli inizi degli anni Novanta si è trovato a detenere, per quantità di pellicole prodotte, il primato mondiale. Non ancora minacciato dalla concorrenza televisiva, rimane l'unico nutrimento per le masse povere nella sua confezione di melodramma cantato e danzato, colorato e mitologico, con divi assai popolari e nessun riferimento alla realtà concreta, caratteristiche che hanno contribuito alla nascita della definizione di “Bollywood” per l''industria del cinema popolare/commerciale indiano. Tale è il tipico film hindī, prodotto a Bombay e distribuito in ben 88 Paesi d'Asia e d'Africa: la sua produzione è tuttavia diminuita negli ultimi tempi a favore dei film regionali del Sud e dell'altra capitale del cinema che è Chennai. All'enorme numero di pellicole corrisponde però un numero esiguo di sale: ca. 13.000, di cui un terzo ambulanti, e per di più concentrate nelle città, anche se l'incremento negli anni Ottanta è stato notevole, con oltre 500 sale in più all'anno. La grande novità è rappresentata dallo sviluppo crescente della produzione nelle diverse lingue regionali (oltre all'hindī e al tamil, si producono film in telugu, marāṭhī, bengālī, malayāḷam, kannada, ecc.); Bangalore, capitale del Karnataka, è divenuta con i suoi film in kannada il “paradiso dei cineasti”, merito del regista-attore Girish Karnad. A partire dagli anni Ottanta il cinema indiano ha cominciato a essere oggetto di importanti retrospettive, anche in Italia (a Firenze ha sede un festival annuale dedicato al cinema indiano); i registi più noti continuano però a essere i due maestri bengalesi, Mrinal Sen e Satyajit Ray. Tra gli altri principali registi si ricordano: Ritwik Gathak, iniziatore del cinema moderno indiano, scoperto in Occidente solo negli anni Ottanta dopo la morte (grazie anche a una retrospettiva realizzata alla Mostra internazionale del nuovo cinema a Pesaro nel 1985): regista bengalese, ha avuto una straordinaria importanza anche come insegnante al Film Institute di Puna, scuola in cui si sono formati alcuni tra i migliori registi degli anni Sessanta e Settanta (Mani Kaul, Kumar Shahani, Adoor Gopalakrishnan); Shyam Benegal, autore hindī di melodrammi imperniati sulle relazioni feudali di casta; Mani Kaul, con un capolavoro narrativo come Il pane quotidiano (1969) e numerosi altri film; M. S. Satyu, autore di Venti caldi; Radmas Phutane, che con L’onnisciente ha denunciato le uccisioni rituali di bambini; Adoor Gopalakrishnan, importante regista proveniente dal Kerala, e il suo conterraneo G. Aravindan. Dal Karnataka provengono il citato Girish Karnad, già famoso in patria come commediografo e regista di Kaadu (1973), prima di raggiungere maggior celebrità come attore in film commerciali e in televisione; e Karasavalli (Il rituale e La conquista). Più aperta al mercato occidentale è Mira Nair, che ha visto distribuiti anche in Italia (caso raro) i suoi pregevoli Salaam Bombay (1988), Mississippi Masala (1990) e Monsoon Wedding, vincitore del Leone d'oro a Venezia nel 2001. Fra i film di un certo rilievo segnaliamo: Kasba (1990) e Bhavantarana (1991), di K. Shahani; Ishanou (1990), di A. S. Sharma; Idiot (1991), di M. Kaul; Roja (1992), di M. Ratman e Mayar Memsaab (1992), di K. Mehta. Successivamente le pellicole più importanti sono state Devdas (2002) diretto da Sanjay Leela Bhansali, così come Black (2005) e Saawariya (2007); Kabhi khushi kabhie gham... (2001; Sometimes Happiness, Sometimes Sorrow), una saga familiare di Karan Johar (n. 1972) in cui hanno recitato molte star del cinema indiano. Uno dei più apprezzati registi resta il già citato A. Gopalakrishnan (n. 1941), autore di Naalu Pennungal (2007; Four Women), mentre apprezzato è stato Water (2005), di Deepa Mehta, ultimo film di una trilogia sugli elementi, iniziata con Fire (1996) e Earth (1998). Un cenno va anche a Manda meyer upakhyan (2002; A Tale of a Naughty Girl), di Buddhadev Dasgupta, sulla vita di un villaggio bengali negli anni Sessanta del Novecento. Lo stesso regista ha diretto anche Ami, Yasin Ar Amar Madhubala (2007; The Voyeurs). Molti sono poi i registi nati in India, ma cresciuti, formatisi e divenuti famosi all'estero; fra i molti ricordiamo Shekhar Kapur (n. 1945), regista di Elizabeth: The Golden Age (2007) e M. Night Shyamalan (n. 1970), regista di film di successo quali Il sesto senso (1999), Unbreakable - Il predestinato (2000), Signs (2002), The Village (2004). Tra le ultime pellicole di maggior successo anche nei Paesi occidentali si possono citare 3 Idiots (2009) del regista Rajkumar Hirani, Stelle sulla Terra (2007) di Aamir Khan e La sposa dell’Imperatore (2008), di Ashutosh Gowariker.

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Cultura: spettacolo

Caratteristico di tutto il teatro indiano, conservato attraverso i secoli nonostante le enormi differenze etniche, linguistiche e culturali tra i vari popoli della penisola, è il legame inscindibile tra declamazione poetica, musica, canto e danza. All'origine di ogni manifestazione fu il tempio, centro focale non solo della vita religiosa ma di ogni forma di esistenza associativa. In esso, fin da epoche remote, si costituirono gruppi di donne, le devadāsi (ancelle di dio), che, dopo un lungo e severo addestramento iniziato in età infantile, si dedicavano alle danze rituali, del cui significato, simboli e tecnica si tratta nel Nāṭyaśāstra. Il teatro della grande epoca (quello della drammaturgia sanscrita che ebbe origini lontanissime e arrivò sino all'anno 1000 ca. della nostra era) fu il quinto Veda, un'arte sacra nella quale confluirono tutte le arti, un'esperienza estetica ed emotiva fondamentale, una disciplina severa con norme rigorosissime. Non esistevano teatri permanenti (per le rappresentazioni, solitamente concomitanti con le solennità religiose, si adattavano templi o saloni di palazzi) e non esistevano scenografie, tutto essendo affidato ai gesti convenzionali degli attori e alla simbologia dei costumi. Gli attori, organizzati o aggregati a compagnie professionali itineranti, erano pagati male e infima era la loro posizione sociale. Abituale fu sin dall'inizio l'impiego di attrici. La tradizione classica sopravvive in parte nelle numerose forme di spettacolo popolare esistenti in ogni regione: i repertori sono spesso traduzioni e adattamenti dei più noti drammi in sanscrito, ma grande importanza hanno in genere le componenti più esplicitamente spettacolari e assai più diretto è il rapporto con la vita, le usanze e le cerimonie rituali della gente. La recitazione è fortemente stilizzata e costantemente accompagnata da canti e danze; esistono personaggi-maschere come il sūtradhāra, o narratore, e il vidūṣaka, o pagliaccio; si dà largo spazio all'improvvisazione. Parallela alla storia dello spettacolo popolare è quella della danza drammatica, che ha raggiunto in India livelli estetici straordinari; dramma popolare e danza drammatica sono ancora i generi di spettacolo più diffusi e restano fedeli alle antiche tradizioni, alterate soltanto nei teatri commerciali con una preminenza di effetti visivi e sonori. Arduo è stato ed è tuttora lo sviluppo del dramma moderno nell'accezione occidentale del termine e rari i casi in cui esso si è armonicamente fuso con le forme nazionali. Gli Inglesi cominciarono a presentare spettacoli secondo il proprio gusto sin dalla fine del sec. XVIII, ma soltanto nella seconda metà dell'Ottocento si costituì un repertorio indigeno. Esso non ha però avuto grandi sviluppi, essendo sempre stato affidato a gruppi amatoriali e rimasto quindi ai margini della vita culturale e sociale del Paese. Molti di questi gruppi hanno inscenato le opere dei maggiori drammaturghi europei e hanno cercato di adattarle alle tradizioni locali; altri hanno riesumato i capolavori del dramma sanscrito traducendoli nelle lingue odierne; altri ancora hanno recuperato in chiave moderna le lezioni dello spettacolo popolare e della danza drammatica; altri infine hanno condotto esperienze importanti di teatro politico. Si delinea insomma una situazione in movimento, sebbene difficilmente potrà aversi un teatro del tutto significante per l'uomo contemporaneo prima che siano state appianate e superate le gravi contraddizioni che rallentano o paralizzano lo sviluppo del Paese. Un cenno a parte merita il teatro delle ombre (chāyanāṭāka), che taluni vogliono originario proprio dell'India e che qui comunque si sviluppò fin da tempi remoti (il Mahābhārata ne fa cenno più volte) come spettacolo di carattere profano e squisitamente popolare, ma di cui si hanno anche numerosi esempi di valore letterario.

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Cultura: religioni. Generalità

La storia religiosa dell'India comprende: la religione vedica, le religioni eterodosse rispetto al nucleo vedico e l'induismo. Per religione vedica s'intende la fase più antica, orientata dai Veda, scritti sacri risalenti almeno al sec. X a. C., e dai loro commentari interpretativi, che sono i Brāhmaṇa (sec. X-VII a. C.) e le Upaniṣad (dal sec. VI a. C.). Le religioni eterodosse sorgono in seguito alla crisi della religione vedica (dopo il sec. VI a. C.); le più importanti sono il buddhismo e il giainismo, entrambe nate nell'India settentrionale. Per induismo s'intende la religione, formalmente ortodossa, che continua la religione vedica dopo la crisi del sec. VI; tuttavia sostanzialmente è una snaturazione e una reinterpretazione del politeismo vedico; e non è neppure una continuazione unitaria, ma una quantità di formazioni religiose identificate, per lo più, con i rispettivi maestri e fondatori e contraddistinte dalla divinità specifica assunta come principio fondamentale.

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Cultura: religioni. La religione vedica

La religione vedica è un politeismo che si forma dall'incontro di popoli di cultura indeuropea con culture, già orientate in senso politeistico. Nella fase più antica non aveva templi: ciò denota la mancanza del concetto di un luogo comune di culto, a contrassegno e a edificazione di una determinata unità politico-culturale. Non c'è mai stata in effetti nella tradizione indiana una concezione precisa del culto pubblico. L'unità politica era data dal re di un singolo territorio; i culti connessi con l'esercizio della regalità tenevano il posto di un culto pubblico. Pubblici, semmai, erano i sacerdoti (brahmani) e a essi era affidata l'unità culturale della nazione indiana. Questa si riconosceva come tale (ārya), a prescindere dalle suddivisioni territoriali, in un complesso costituito da tre caste: dei brahmani, che forniva i sacerdoti; dei kshatriya, fornitrice di guerrieri e di re, e la vaiśya, in cui erano compresi tutti i produttori di beni economici. L'appartenenza a una delle tre caste ārya e lo stato di fuori-casta (paria), riservato alle popolazioni indigene, era religiosamente giustificato dalla teoria dell'esistenza (saṃsāra) come reincarnazione, per la quale si nasceva in una condizione piuttosto che in un'altra in ragione del karman, ossia dei meriti o demeriti acquisiti in una vita precedente. Per avere la qualifica di ārya, comunque, non bastava nascere in una casta, ma bisognava “rinascere” mediante un'iniziazione conseguita presso un brahmano, nel corso di alcuni anni attorno all'età pubere. L'iniziazione, che oltre ai riti comprendeva un'adeguata istruzione religiosa, conferiva il titolo di dvija (due volte nato) e rendeva l'indiano adulto, in grado cioè di compiere il rituale domestico (grhya) una volta formatasi una famiglia. Ma la sua integrazione completa nella società si aveva quando diventava uno yajamana (sacrificante), ossia acquisiva il diritto di celebrare i riti srauta, più strettamente legati al culto degli dei, e cioè alla religione nazionale. La cerimonia d'installazione sul proprio terreno di tre “fuochi”, celebrata da quattro brahmani, gli dava questo diritto. Una volta “sacrificante”, egli poteva intervenire di sua iniziativa nel campo d'azione degli dei nazionali, sia pure sempre con la mediazione di un sacerdote “sacrificatore” materiale (adhayaryu). Nell'ideologia indiana l'integrazione sociale consisteva nell'inserimento della vita individuale nello rta, l'ordine cosmico. Il sacrificio agli dei garantiva e promuoveva questo inserimento, in quanto collegava l'azione umana a quella divina, che era appunto espressione di rta. Lo rta stesso può essere inteso come una sublimazione, in chiave cosmica, del comportamento rituale (si noti la parentela linguistica tra vedico rta e latino ritus). Rta è flusso vitale (è la vita stessa, a cui si contrappone, con l'arresto, la morte), ma incanalato nel giusto comportamento e questo a sua volta è un'astrazione dal comportamento storico, che, nell'ideologia indiana, è pura illusione (māyā). In un mondo così concepito, gli dei, che come in ogni politeismo sono “forme del mondo”, vengono rappresentati non tanto per la loro essenza (come si converrebbe a forme di un mondo statico), quanto per la loro azione, quale espressione di rta. Lo sforzo teologico indiano, più che a fissare i tratti individuali degli dei, si è rivolto a rilevarne i possibili interventi e le occasioni in cui essi si realizzano. Queste occasioni da accidentali (o naturali) si fanno necessarie (o culturali) in quanto determinate dallo rta, l'ordine universale, e dal rito sacrificale che è rta esso stesso o lo promuove. Lo rta trascende anche gli dei. Non c'è un dio che fissa lo rta; non c'è un “re degli dei”, alla cui volontà si debba adeguare l'ordine del mondo. Si trova, sì, un dio, Indra, che rappresenta la sovranità, ma non la esercita nel senso di un re dell'universo. E del resto, per altri aspetti, la sovranità è rappresentata anche da un altro dio, Varuna. Ne risulta un pantheon senza gerarchia; la sua organizzazione procede, invece, per raggruppamenti divini che corrispondono, in genere, alle divinità che sono chiamate in causa nelle medesime occasioni. Un raggruppamento fondamentale è quello che divide gli dei in Deva e Asura, in risposta evidentemente a una concezione ambigua della divinità, o dell'ambiguità sostanziale delle occasioni d'intervento divino (crisi e superamento). A volte un raggruppamento divino viene formalmente giustificato da una genealogia comune: è il caso degli Āditya (i figli di Aditi, una specie di Grande Madre primordiale) che comprendono, insieme ad altri, Varuna e Mitra. Una forma minima di raggruppamento è la coppia; d'importanza fondamentale per l'edificazione dello rta è la coppia Mitra-Varuna: Mitra lo promuove e Varuna ne punisce i trasgressori imprigionandoli nei suoi “lacci”. Di grande importanza è nella religione vedica il rito sacrificale che, in riferimento allo rta, sembra addirittura trascendere gli dei che ne sono i destinatari. Il sacrificio stesso è concepito come un dio: è il caso di Agni, fuoco sacrificale e mediatore tra uomini e dei, e di Soma, bevanda sacrificale e divinità a un tempo. La divinizzazione del sacrificio apparentemente è uno sviluppo in senso politeistico, ma in realtà si muove in senso contrario. Dà al sacrificio un valore assoluto che non potrebbe avere finché resta nei limiti di uno strumento di comunicazione tra uomini e dei. È strumento se si distinguono da esso gli dei che se ne giovano; non lo è più quando la sua natura e quella degli dei vengono identificate. Fornire al sacrificio un valore assoluto significa rilevarne l'autonomia rispetto agli dei e agli uomini, e significa snaturare il rapporto tra i destinatari dell'azione rituale, gli dei, e gli esecutori del rito, gli uomini. La differenza tra dei e uomini si riduce alle due rispettive forme d'esistenza; per il resto gli dei dipendono dalla forza che il sacrificio conferisce loro e gli uomini dalla capacità che hanno di sacrificare. È in questi termini che si muove la religione vedica nello sviluppo ulteriore orientato dai Brāhmaṇa.

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Cultura: religioni. La nascita delle religioni eterodosse

Se in un politeismo è fondamentale l'individuazione degli dei, nella religione indiana diviene fondamentale l'individuazione della forza che il sacrificio conferisce agli dei, quali che siano. Se in un politeismo è pure fondamentale stabilire la posizione degli uomini rispetto agli dei, per la religione indiana diviene fondamentale stabilire la posizione degli uomini rispetto al rito sacrificale. Per quanto riguarda gli dei, al di là delle singole qualifiche si cercò la sostanza di cui erano fatti e questa fu concepita come brahman, conferito dal rito sacrificale. Per quanto riguarda gli uomini, fu gradualizzato il loro accesso al sacrificio e fu riservata l'azione sacrificale vera e propria a sacerdoti manipolatori del brahman, detti appunto brahmani. Tuttavia ora non basta più né il grado di “sacrificante” né la mediazione del “sacrificatore”. L'uomo deve trovare in sé, mediante l'ascesi, un “calore” (tapas) interiore, capace di conferire efficacia al sacrificio. Si delinea la crisi del politeismo vedico: a che cosa servono gli dei se essi stessi traggono sostanza dal rito? Non servono neppure a definire un universo, dal momento che questo universo si fonda, nella nuova ideologia indiana, non tanto sulla loro esistenza quanto sulla retta (ora: rituale) amministrazione di forze impersonali. Il colpo di grazia al politeismo vedico sarà dato dalla successiva speculazione delle Upaniṣad: l'uomo, capace di produrre tapas, viene posto al centro dell'universo e questo, prima rappresentato dal complesso delle divinità, è ormai risolto nell'“essenza” delle divinità, ossia nel loro brahman. La comune essenza divina aveva già portato la riduzione del pantheon a un unico dio personificante la forza-sostanza brahmanica, Brahmā. Un ultimo passo fu quello d'identificare l'essenza dell'uomo, ātman, con l'essenza dell'universo, Brahmā o il brahman. Quando ciò avvenne, scomparve ogni funzione del culto: l'uomo per mettersi in contatto con l'universo non ha più bisogno di comunicare con gli dei; basta che lo cerchi in sé, nel proprio ātman, mediante la meditazione e l'ascesi, che divengono così l'ideale di vita religiosa; in pratica è la rinuncia (saṃnyāsa) alla vita mondana, già prescritta dai Brāhmaṇa per l'ultima età dell'uomo (dopo che egli ha ormai soddisfatto ai doveri sociali), ma che adesso diventa un modo d'essere assoluto, fondato sulla rinuncia ai fini di una liberazione (mokṣa) dall'esistenza, come fenomeno doloroso, e a esso si ispirano le nuove religioni che rompono definitivamente con la tradizione vedica: il buddhismo e il giainismo. La tradizione politeistica, peraltro, sarà continuata, sviluppando i temi dell'azione divina (śakti, potenza creatrice) e del giusto comportamento umano (dharma): le diverse soluzioni hanno dato luogo a quel coacervo di dottrine e di pratiche cultuali che si chiama globalmente induismo. La contraddizione tra la natura permanente di un dio e l'occasionalità del suo intervento, che aveva portato alla crisi il politeismo vedico, si risolve nell'identificazione di un signore dell'universo (Iśvara) e delle sue molteplici manifestazioni (avatāra). L'Iśvara fu dapprima Brahmā, la divina personificazione del brahman, ma poi si espresse in due divinità meno “filosofiche”, Viṣṇu e Śiva, dando luogo alle due principali correnti dell'induismo: il viṣṇuismo e il śivaismo. Viṣṇu era un antico dio vedico, connesso con l'asse del mondo, già alleato di Indra e adesso suo successore. Śiva costituisce una nuova interpretazione del vedico Rudra, dio del mondo selvaggio. Antiche e nuove divinità sono adesso venerate e giustificate come manifestazioni del “signore universale”, e, se femminili, come sue spose. Un tentativo di sintesi è pure dato dalla concezione di una Trimūrti, ovvero di una “triforme” essenza divina, comprendente Brahmā, Śiva e Viṣṇu. Riguardo al comportamento religioso, l'induismo presenta, a parte le scelte tra Śiva e Viṣṇu, una grandissima varietà di livelli, ognuno identificato con un complesso di norme (dharma), ognuna altrettanto valida e degna di rispetto, in quanto relativa alla presente esistenza di un individuo (la differenza tra le esistenze essendo giustificata dalla condotta in una vita precedente). C'è il livello della meditazione e dell'ascesi, ma c'è anche il livello del semplice culto degli dei. C'è il “maestro”, il “santone”, il guru, ma c'è anche chi acquista meriti senza dover né capire né praticare le sue dottrine, purché lo veneri e gli fornisca cibo. C'è un misticismo, a livello della meditazione, che darà luogo al tantrismo e alle pratiche yoga, ma c'è anche un misticismo, a livello della religiosità popolare, che si esprime nella bhakti, la devozione amorosa assoluta per un dio. Dal sec. XI l'induismo dovette fronteggiare la prepotente avanzata dell'Islam. Da un lato, allora, si eresse a religione nazionale contro l'invasione arabo-islamica e dall'altro produsse comunità ibride che cercarono di assimilare la nuova religione. Ma tali comunità non ebbero seguito, tranne che nel Punjab, dove si costituì la compagine nazionale dei Sikh.

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view post Posted on 25/6/2019, 17:40     Top   Dislike
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Cultura: filosofia. Generalità

Al fine di capire meglio lo sviluppo della filosofia indiana sono necessarie alcune premesse: manca in India una seria storiografia anche in campo filosofico e le notizie sui singoli autori, anche dei più importanti, sono frammiste a molti elementi leggendari; di conseguenza quasi mai si riesce a collocarli in precisi riferimenti di tempo e di luogo e si deve rinunciare a ricostruire la loro personalità e ripiegare sull'esposizione di correnti di pensiero e di sistemi. Questi ebbero una fase creativa piuttosto rapida ed esercitarono una profonda influenza gli uni sugli altri trovando una sistemazione definitiva nei primi secoli dell'era volgare. Problema principale della ricerca filosofica indiana fu la tematica sull'essenza dell'io e del suo rapporto con la realtà, non come conoscenza a sé, ma in quanto atta a operare il passaggio dell'individuo dalla realtà dubbia in cui è immerso (saṃsāra), origine del dolore, all'identità con l'Assoluto (liberazione dal dolore, nirvāṇa). La filosofia indiana è spesso una propedeutica alla religione; tuttavia alcune sue parti, come la logica e l'epistemologia, hanno uno schietto rigore filosofico e denotano grande originalità di ricerca. La prima speculazione filosofica indiana è sparsa nei vari testi di preghiere (Saṁhita), di prescrizioni rituali (Brāhmana, Upaniṣad) e fra le regole religiose, giuridiche e morali della società brahmana (sutra): essi ci offrono una prima cosmogonia, in cui il mondo è emanazione di un dio supremo e le cose si strutturano in un dualismo psicofisico, al quale l'uomo partecipa essendo formato di nāma, essenza interiore, e rūpa, forma esterna e sensibile. Al centro però di questa prima speculazione è l'esistenza di un principio essenziale, sia per l'uomo sia per l'universo, dalle Upaniṣad concepito come l'anima (ātman), soggetto di ogni azione e pensiero dell'uomo, ma unico in tutto l'universo, libero da ogni categoria spazio-temporale. L'antinomia tra ātman universale e soggetto dell'azione del singolo è spiegata dalle Upaniṣad con la presenza del karman, che non consente di sciogliere l'antinomia. Una seconda spiegazione è data dalla dottrina sāṃkhya, che trovò una formulazione sistematica probabilmente nel sec. IV d. C. ma che ha origini molto antiche: esistono due realtà parimenti eterne, le anime individuali (puruṣa), fornite d'intelligenza ma negate all'azione, e la materia (prakrti), unica ma differenziata in tre modi di essere: l'uno leggero e luminoso, fonte di piacere; l'altro mobile, causa di dolore; il terzo inerte, in funzione d'ostacolo; dal loro perpetuo movimento hanno origine le cose del mondo empirico; il dolore deriva dalla non-distinzione fra psiche (momento dell'evoluzione della materia) e anima e dall'attribuzione a questa di qualità proprie invece della materia. Questa confusione avrebbe origine dalla loro vicinanza, per cui l'anima si riflette nella psiche al punto di sentire il dolore come cosa sua, mentre per natura ne è libera. La liberazione avviene quando la psiche prende coscienza della sua derivazione dalla materia e l'anima della sua nativa purezza. Alla ricerca dei mezzi di conoscenza la dottrina sāṃkhya elaborò una teoria epistemologica assai interessante: l'uomo ha undici sensi, cinque di percezione (vista, udito, olfatto, gusto, tatto), cinque d'azione (lingua, piedi, mani, organi di escrezione, organi di riproduzione), più l'intelletto, che reagisce agli stimoli sensori. Accanto alla scuola sāṃkhya si colloca lo yoga: la materia è eterna e increata, ma guidata al suo fine da un dio (Iśvara); per conoscere il suo vero essere sotto le forme illusorie ed empiriche della sua personalità l'uomo deve liberare, con una severa disciplina, la psiche da ogni ricordo e arrivare all'assoluta quiete delle funzioni mentali, in cui si fa trasparente nell'intelletto umano la differenza fra anima e psiche e l'uomo si libera dal divenire fenomenico.

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