| Cultura: religioni. La religione vedica
La religione vedica è un politeismo che si forma dall'incontro di popoli di cultura indeuropea con culture, già orientate in senso politeistico. Nella fase più antica non aveva templi: ciò denota la mancanza del concetto di un luogo comune di culto, a contrassegno e a edificazione di una determinata unità politico-culturale. Non c'è mai stata in effetti nella tradizione indiana una concezione precisa del culto pubblico. L'unità politica era data dal re di un singolo territorio; i culti connessi con l'esercizio della regalità tenevano il posto di un culto pubblico. Pubblici, semmai, erano i sacerdoti (brahmani) e a essi era affidata l'unità culturale della nazione indiana. Questa si riconosceva come tale (ārya), a prescindere dalle suddivisioni territoriali, in un complesso costituito da tre caste: dei brahmani, che forniva i sacerdoti; dei kshatriya, fornitrice di guerrieri e di re, e la vaiśya, in cui erano compresi tutti i produttori di beni economici. L'appartenenza a una delle tre caste ārya e lo stato di fuori-casta (paria), riservato alle popolazioni indigene, era religiosamente giustificato dalla teoria dell'esistenza (saṃsāra) come reincarnazione, per la quale si nasceva in una condizione piuttosto che in un'altra in ragione del karman, ossia dei meriti o demeriti acquisiti in una vita precedente. Per avere la qualifica di ārya, comunque, non bastava nascere in una casta, ma bisognava “rinascere” mediante un'iniziazione conseguita presso un brahmano, nel corso di alcuni anni attorno all'età pubere. L'iniziazione, che oltre ai riti comprendeva un'adeguata istruzione religiosa, conferiva il titolo di dvija (due volte nato) e rendeva l'indiano adulto, in grado cioè di compiere il rituale domestico (grhya) una volta formatasi una famiglia. Ma la sua integrazione completa nella società si aveva quando diventava uno yajamana (sacrificante), ossia acquisiva il diritto di celebrare i riti srauta, più strettamente legati al culto degli dei, e cioè alla religione nazionale. La cerimonia d'installazione sul proprio terreno di tre “fuochi”, celebrata da quattro brahmani, gli dava questo diritto. Una volta “sacrificante”, egli poteva intervenire di sua iniziativa nel campo d'azione degli dei nazionali, sia pure sempre con la mediazione di un sacerdote “sacrificatore” materiale (adhayaryu). Nell'ideologia indiana l'integrazione sociale consisteva nell'inserimento della vita individuale nello rta, l'ordine cosmico. Il sacrificio agli dei garantiva e promuoveva questo inserimento, in quanto collegava l'azione umana a quella divina, che era appunto espressione di rta. Lo rta stesso può essere inteso come una sublimazione, in chiave cosmica, del comportamento rituale (si noti la parentela linguistica tra vedico rta e latino ritus). Rta è flusso vitale (è la vita stessa, a cui si contrappone, con l'arresto, la morte), ma incanalato nel giusto comportamento e questo a sua volta è un'astrazione dal comportamento storico, che, nell'ideologia indiana, è pura illusione (māyā). In un mondo così concepito, gli dei, che come in ogni politeismo sono “forme del mondo”, vengono rappresentati non tanto per la loro essenza (come si converrebbe a forme di un mondo statico), quanto per la loro azione, quale espressione di rta. Lo sforzo teologico indiano, più che a fissare i tratti individuali degli dei, si è rivolto a rilevarne i possibili interventi e le occasioni in cui essi si realizzano. Queste occasioni da accidentali (o naturali) si fanno necessarie (o culturali) in quanto determinate dallo rta, l'ordine universale, e dal rito sacrificale che è rta esso stesso o lo promuove. Lo rta trascende anche gli dei. Non c'è un dio che fissa lo rta; non c'è un “re degli dei”, alla cui volontà si debba adeguare l'ordine del mondo. Si trova, sì, un dio, Indra, che rappresenta la sovranità, ma non la esercita nel senso di un re dell'universo. E del resto, per altri aspetti, la sovranità è rappresentata anche da un altro dio, Varuna. Ne risulta un pantheon senza gerarchia; la sua organizzazione procede, invece, per raggruppamenti divini che corrispondono, in genere, alle divinità che sono chiamate in causa nelle medesime occasioni. Un raggruppamento fondamentale è quello che divide gli dei in Deva e Asura, in risposta evidentemente a una concezione ambigua della divinità, o dell'ambiguità sostanziale delle occasioni d'intervento divino (crisi e superamento). A volte un raggruppamento divino viene formalmente giustificato da una genealogia comune: è il caso degli Āditya (i figli di Aditi, una specie di Grande Madre primordiale) che comprendono, insieme ad altri, Varuna e Mitra. Una forma minima di raggruppamento è la coppia; d'importanza fondamentale per l'edificazione dello rta è la coppia Mitra-Varuna: Mitra lo promuove e Varuna ne punisce i trasgressori imprigionandoli nei suoi “lacci”. Di grande importanza è nella religione vedica il rito sacrificale che, in riferimento allo rta, sembra addirittura trascendere gli dei che ne sono i destinatari. Il sacrificio stesso è concepito come un dio: è il caso di Agni, fuoco sacrificale e mediatore tra uomini e dei, e di Soma, bevanda sacrificale e divinità a un tempo. La divinizzazione del sacrificio apparentemente è uno sviluppo in senso politeistico, ma in realtà si muove in senso contrario. Dà al sacrificio un valore assoluto che non potrebbe avere finché resta nei limiti di uno strumento di comunicazione tra uomini e dei. È strumento se si distinguono da esso gli dei che se ne giovano; non lo è più quando la sua natura e quella degli dei vengono identificate. Fornire al sacrificio un valore assoluto significa rilevarne l'autonomia rispetto agli dei e agli uomini, e significa snaturare il rapporto tra i destinatari dell'azione rituale, gli dei, e gli esecutori del rito, gli uomini. La differenza tra dei e uomini si riduce alle due rispettive forme d'esistenza; per il resto gli dei dipendono dalla forza che il sacrificio conferisce loro e gli uomini dalla capacità che hanno di sacrificare. È in questi termini che si muove la religione vedica nello sviluppo ulteriore orientato dai Brāhmaṇa.
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